GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS Get A Lawyer (Black Candy Records, 2020)
comodamente seduti tra le vecchie strade del rock'n'roll
"La musica è un viaggio" rispose Jacopo Meille alla mia domanda "il viaggio ha influenzato la vostra musica?", non più tardi di quattro anni fa quando uscì il loro terzo disco Dirty Boulevard.
Doveva essere una di quelle band nate quasi per gioco, un progetto estemporaneo, dove musicisti già rodati provenienti da diversi gruppi si incontrano per dare sfogo alla loro passione comune per il caro vecchio rock a tinte hard. Sulla mappa un viaggio corto, breve ma intenso. Si è trasformato in un viaggio lungo costruito su tappe sempre più sorprendenti e a fuoco.
La partenza da Firenze, l'arrivo è ancora ignoto.
A dieci anni dalla nascita i General Stratocuster And The Marshals sono ancora qui con noi a lottare e giocarsi le carte sul tavolo delle migliori classic rock band italiane con una buona probabilità di portarsi a casa la mano senza troppa fatica. Gli assi ci sono tutti: Jacopo "Jack" Meille, attuale cantante degli storici Tiger Of Pan Tang, prime mover della scena NWOBHM, Alessandro "Nuto" Nutini (batterista dei Bandabardo), il generale Fabio Fabbri alla chitarra, l'esperto Richard Ursillo (già con Sensations' Fix, gliSheriff e i Campo di Marte) al basso e Federico Pacini alle tastiere.
Questo quarto album, poi, sembra veramente un incrollabile atto d'amore verso il viaggio in musica: gli angoli più affilati del passato hard rock sono stati leggermente smussati (comunque presenti in tracce come 'Greetings From Hell' e 'Rock Steady, Roll Lady') a favore di una libertà di movimento che ad ogni disco stupisce sempre più ma qui raggiunge l'apice per varietà e bravura.
Ascoltate il riff killer di 'California Rave' e quel chorus che grida pace e libertà, i sapori on the road dell'asfalto e dell'avventura alla Creedence Clearwater Revival di 'That Kind Of Woman', gli accenti sudisti di 'Body & Soul' con quel finale che più stonesiano non si può, lo spiazzante funky soul di 'Talkin' Bout Love' con Meille che si prende la scena giocando di falsetto. Sembra solo un gioco ma di quelli morbosi.
Evocano lo spirito di David Bowie in 'Let It Rain' tanto che si intravede Marte dopo la curva, chiudono con la malinconica ballata 'Too Good To Be True' che ci trascina attraverso una lunga e diritta highway alla migliore stagione dei Led Zeppelin.
Siete ancora lì seduti sul marciapiede? Alzatevi e salite a bordo, il viaggio è ancora lungo ma assolutamente appagante.
GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS- Dirty Boulevard e INTERVISTA (2016)
GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS (2011)
GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS-Double Trouble (2013)
lunedì 27 gennaio 2020
lunedì 20 gennaio 2020
RECENSIONE: FARTY WAYNE (Walking Wayne)
FARTY WAYNE The Walking Wayne (2020)
il carnevale sporco
Ecco una bella proposta oidirettamente da Ivrea (Torino) per tutti gli amanti del rock blues più sporco, selvaggio e suonato ad alti volumi. I Farty Wayne nascono nel 2015 come tribute band dei micidiali Left Lane Cruiser, duo rural blues di Fort Wayne, Indiana. Con il peso degli anni e la gavetta dei tanti concerti, anche fuori dal confine italiano, hanno sviluppato un suono tutto loro, personale, che trova nel lavoro del produttore Silvano Ganio Mego presso lo studio Osteria del Suono di Ivrea, la giusta strada per venire allo scoperto. Autodefiniscono il loro genere come dirty trash blues e ascoltandoli si può anche capire il perché. Pochi abbellimenti estetici e un suono che va diretto al punto: tambureggiante ('Sirius Lake') e veloce come la più veloce delle locomotive in corsa ('Ivrea'). Blues che gioca di slide ('Uncle Beta'), che diventa hard ('Mucho Brutal'), rallenta e scivola sul country distorto della ballata 'Lost Lullaby' e testi tra la cronaca reale e il demenziale, fortemente inchiodati da chiodi arrugginiti alle tavole del loro territorio d'origine, il Canavese, dove i veri protagonisti sono di volta in volta la loro città e lo storico carnevale con la battaglia delle arance (da vedere almeno una volta nella vita), gli animali che popolano il vicino lago Sirio, bizzarri e caratteristici personaggi del posto ('Disco Trash') e tipici piatti della tradizione dalla difficile e complicata digestione ('Electric Tomino'). Quando l'odore del fieno si mischia alla ruggine del ferro, quando il marcio delle arance dimenticate a bordo strada a Carnevale finito prendono la via del vostro naso, entrano in gioco i Farty Wayne: Alx Bonny (chitarra e voce), Tanaka (basso) e Bramba (batteria). Buon divertimento.
il carnevale sporco
Ecco una bella proposta oidirettamente da Ivrea (Torino) per tutti gli amanti del rock blues più sporco, selvaggio e suonato ad alti volumi. I Farty Wayne nascono nel 2015 come tribute band dei micidiali Left Lane Cruiser, duo rural blues di Fort Wayne, Indiana. Con il peso degli anni e la gavetta dei tanti concerti, anche fuori dal confine italiano, hanno sviluppato un suono tutto loro, personale, che trova nel lavoro del produttore Silvano Ganio Mego presso lo studio Osteria del Suono di Ivrea, la giusta strada per venire allo scoperto. Autodefiniscono il loro genere come dirty trash blues e ascoltandoli si può anche capire il perché. Pochi abbellimenti estetici e un suono che va diretto al punto: tambureggiante ('Sirius Lake') e veloce come la più veloce delle locomotive in corsa ('Ivrea'). Blues che gioca di slide ('Uncle Beta'), che diventa hard ('Mucho Brutal'), rallenta e scivola sul country distorto della ballata 'Lost Lullaby' e testi tra la cronaca reale e il demenziale, fortemente inchiodati da chiodi arrugginiti alle tavole del loro territorio d'origine, il Canavese, dove i veri protagonisti sono di volta in volta la loro città e lo storico carnevale con la battaglia delle arance (da vedere almeno una volta nella vita), gli animali che popolano il vicino lago Sirio, bizzarri e caratteristici personaggi del posto ('Disco Trash') e tipici piatti della tradizione dalla difficile e complicata digestione ('Electric Tomino'). Quando l'odore del fieno si mischia alla ruggine del ferro, quando il marcio delle arance dimenticate a bordo strada a Carnevale finito prendono la via del vostro naso, entrano in gioco i Farty Wayne: Alx Bonny (chitarra e voce), Tanaka (basso) e Bramba (batteria). Buon divertimento.
venerdì 17 gennaio 2020
RECENSIONE: MARCUS KING (El Dorado)
MARCUS KING El Dorado (Fantasy, 2020)
arrivare in alto con talento e eleganza
Il perché un ragazzo di ventitré anni con tre dischi alle spalle con la sua band già osannati da critica e pubblico, senta la necessità di inciderne un terzo solo a suo nome, senza band, con l'importante impronta di Dan Auerbach in produzione non è dato sapere. O forse sì? MARCUS KING è sicuramente uno dei più grandi talenti musicali usciti dagli States negli ultimi cinque anni e questo disco potrebbe già essere la consacrazione definitiva e arrivare là dove non sono arrivati i precedenti album: il grande pubblico, anche grandissimo.
EL DORADO è certamente il nome dell'automobile Cadillac, anche della sua prima chitarra Epiphone ma soprattutto "rappresenta la città dell'oro e della prosperità ed è ciò che Nashville è per me, ha davvero poco a che fare con la mia auto" racconta King in una intervista.
Auerbach mette a disposizione del ragazzo di Greenville il suo solito studio di registrazione Easy Eye Sound a Nashville, gli importanti session men che vi gravitano attorno (i "ragazzi" di Memphis, gente che ha suonato con Elvis tanto per intenderci) e regala, con la collaborazione di tre esterni, quelle canzoni in grado di far uscire con maggior prepotenza le doti vocali e chitarristiche di King, fino ad oggi ben ingabbiate dentro all'approccio da jam band della gruppo madre.
"Sono stato colpito dal modo in cui può cantare - così facile, così pieno di sentimento, direttamente dal cuore. È anche uno scrittore dal talento naturale. Tutto per lui è così innato" dice il produttore.
Difficilmente Auebarch sbaglia il colpo: Dr. John, i più i recenti lavori con Yola, Donald "Duck" Holmes e Robert Finley sono straordinari e da quello che ho sentito anche qui non si scherza anche se a prevalere è quasi sempre la morbidezza. Ballate country soul di pregevole fattura (le avvolgenti 'Young Man' S Dream' e 'Beautiful Stranger' condotte da pianoforte e lap steel), a volte sconfinante nel soul di casa Motown, a volte ammiccante a tratti pure pop (il funky di 'One Day She's Here') suonato da dio ('Wildflowers And Wine' che sconfina nel gospel) e legato alla Nashville country dei seventies come l'honky tonk 'Too Much Whiskey' e poi qualche scatto elettrico di southern blues dai riff vincenti e accattivanti, in grado di portare nuovi adepti alla corte del nuovo "re". Il singolo 'The Well' è lì a dimostrarlo con tutta la sua contagiosa esuberanza rock blues insieme a 'Say You Will', unici episodi che sembrano ricondurre a quel Marcus King che avevamo imparato a conoscere.
Si sente troppo la mano di Auerbach? Per Marcus King non è un problema, anzi: "mette la sua essenza su qualunque cosa stia lavorando".
Per me è un sì, perché il ragazzo ha talento da vendere, anche se non è ben chiaro se questa rimarrà una breve parentesi o l'impalcatura che porta verso il futuro.
arrivare in alto con talento e eleganza
Il perché un ragazzo di ventitré anni con tre dischi alle spalle con la sua band già osannati da critica e pubblico, senta la necessità di inciderne un terzo solo a suo nome, senza band, con l'importante impronta di Dan Auerbach in produzione non è dato sapere. O forse sì? MARCUS KING è sicuramente uno dei più grandi talenti musicali usciti dagli States negli ultimi cinque anni e questo disco potrebbe già essere la consacrazione definitiva e arrivare là dove non sono arrivati i precedenti album: il grande pubblico, anche grandissimo.
EL DORADO è certamente il nome dell'automobile Cadillac, anche della sua prima chitarra Epiphone ma soprattutto "rappresenta la città dell'oro e della prosperità ed è ciò che Nashville è per me, ha davvero poco a che fare con la mia auto" racconta King in una intervista.
Auerbach mette a disposizione del ragazzo di Greenville il suo solito studio di registrazione Easy Eye Sound a Nashville, gli importanti session men che vi gravitano attorno (i "ragazzi" di Memphis, gente che ha suonato con Elvis tanto per intenderci) e regala, con la collaborazione di tre esterni, quelle canzoni in grado di far uscire con maggior prepotenza le doti vocali e chitarristiche di King, fino ad oggi ben ingabbiate dentro all'approccio da jam band della gruppo madre.
"Sono stato colpito dal modo in cui può cantare - così facile, così pieno di sentimento, direttamente dal cuore. È anche uno scrittore dal talento naturale. Tutto per lui è così innato" dice il produttore.
Difficilmente Auebarch sbaglia il colpo: Dr. John, i più i recenti lavori con Yola, Donald "Duck" Holmes e Robert Finley sono straordinari e da quello che ho sentito anche qui non si scherza anche se a prevalere è quasi sempre la morbidezza. Ballate country soul di pregevole fattura (le avvolgenti 'Young Man' S Dream' e 'Beautiful Stranger' condotte da pianoforte e lap steel), a volte sconfinante nel soul di casa Motown, a volte ammiccante a tratti pure pop (il funky di 'One Day She's Here') suonato da dio ('Wildflowers And Wine' che sconfina nel gospel) e legato alla Nashville country dei seventies come l'honky tonk 'Too Much Whiskey' e poi qualche scatto elettrico di southern blues dai riff vincenti e accattivanti, in grado di portare nuovi adepti alla corte del nuovo "re". Il singolo 'The Well' è lì a dimostrarlo con tutta la sua contagiosa esuberanza rock blues insieme a 'Say You Will', unici episodi che sembrano ricondurre a quel Marcus King che avevamo imparato a conoscere.
Si sente troppo la mano di Auerbach? Per Marcus King non è un problema, anzi: "mette la sua essenza su qualunque cosa stia lavorando".
Per me è un sì, perché il ragazzo ha talento da vendere, anche se non è ben chiaro se questa rimarrà una breve parentesi o l'impalcatura che porta verso il futuro.
giovedì 16 gennaio 2020
RECENSIONE: PETE MOLINARI (Just Like Achilles)
PETE MOLINARI Just Like Achilles (2020)
vintage 2.0
Il ritorno di Pete Molinari non tradisce i punti fermi su cui ha costruito tutta la carriera anche se risulta il più vario, suonato e sfaccettato fino ad oggi. E siamo al quinto disco. L' amorevole sentimento verso le radici e le epoche da lui mai vissute c'è tutto, tanto calato nella parte che pare uscire direttamente dai sixties se non ci fossero quelle scarpe Nike gialle in copertina a tradire la sua vera epoca che quindi non può che uscire allo scoperto in canzoni come 'No Ordinary Girl', molto più vicina al nostro presente anche se comunque legata agli anni novanta dei suoi conterranei Oasis. E son passati tanti anni anche da lì. British nella testa, la bandiera americana sullo sfondo e una incredibile somiglianza con Dion DiMucci fanno il resto in copertina.
Che sia il caro folk ('Waiting For A Train') che abitava il vecchio Greenwich Village newyorchese frequentato dal giovane Bob Dylan o il primigeno rock'n'roll visto con gli occhiali alla Buddy Holly non importa. Molinari con quelli che oggi potrebbero essere fantasmi ci ha sempre convissuto fin dalla tenera età quando le sue piccole mani tenevano certi vinili importanti che giravano nella casa della sua multietnica famiglia. Fin dal primo disco quei fantasmi li ha portati a ballare nel suo presente.
Prodotto da Linda Perry e Bruce Witkin, Just Like Achilles è un disco coloratissimo di pop della miglior specie che emana positività, come sempre senza scadenza, dove i Byrds (' Color My Love'), i Kinks ('Please Mrs. Jones'), i Beatles ('Steal The Night'), Phil Spector ('I' ll Take You There'), Phil Ochs, Bob Dylan ('Absolute Zero') il country di 'Born To Be Blue' e le chitarre elettriche di 'I Can' t Be Denied' sembrano danzare senza paura nel presente.
Ed è giunta l'ora che qualcuno provveda a creargli una pagina Wikipedia.
vintage 2.0
Il ritorno di Pete Molinari non tradisce i punti fermi su cui ha costruito tutta la carriera anche se risulta il più vario, suonato e sfaccettato fino ad oggi. E siamo al quinto disco. L' amorevole sentimento verso le radici e le epoche da lui mai vissute c'è tutto, tanto calato nella parte che pare uscire direttamente dai sixties se non ci fossero quelle scarpe Nike gialle in copertina a tradire la sua vera epoca che quindi non può che uscire allo scoperto in canzoni come 'No Ordinary Girl', molto più vicina al nostro presente anche se comunque legata agli anni novanta dei suoi conterranei Oasis. E son passati tanti anni anche da lì. British nella testa, la bandiera americana sullo sfondo e una incredibile somiglianza con Dion DiMucci fanno il resto in copertina.
Che sia il caro folk ('Waiting For A Train') che abitava il vecchio Greenwich Village newyorchese frequentato dal giovane Bob Dylan o il primigeno rock'n'roll visto con gli occhiali alla Buddy Holly non importa. Molinari con quelli che oggi potrebbero essere fantasmi ci ha sempre convissuto fin dalla tenera età quando le sue piccole mani tenevano certi vinili importanti che giravano nella casa della sua multietnica famiglia. Fin dal primo disco quei fantasmi li ha portati a ballare nel suo presente.
Prodotto da Linda Perry e Bruce Witkin, Just Like Achilles è un disco coloratissimo di pop della miglior specie che emana positività, come sempre senza scadenza, dove i Byrds (' Color My Love'), i Kinks ('Please Mrs. Jones'), i Beatles ('Steal The Night'), Phil Spector ('I' ll Take You There'), Phil Ochs, Bob Dylan ('Absolute Zero') il country di 'Born To Be Blue' e le chitarre elettriche di 'I Can' t Be Denied' sembrano danzare senza paura nel presente.
Ed è giunta l'ora che qualcuno provveda a creargli una pagina Wikipedia.
venerdì 10 gennaio 2020
RECENSIONE: THE GREAT INFERNO (All The While White Collides With Black)
THE GREAT INFERNO All The While White Collides With Black (2020)
Giovedì 3 Gennaio 2019. Un giovedì sera come tanti a Brescia città: i numerosi locali che puntano sulla musica live stanno aprendo i battenti, c’è chi inizia presto, chi sempre troppo tardi. Vista da fuori, da un forestiero come me, Brescia è una città ricca di musica e dallo spirito rock’n’roll anche se so che molti protagonisti, diretti interessati, spesso arricciano il naso di fronte all'evidenza della verità. Mi piace pensare sia solo modestia. A volte c’è l'imbarazzo della scelta ma quella sera dal freddo pungente non avevo dubbi su dove puntare. Quella sera, Paul Mellory ebbe la mia stessa idea. Passammo il pre concerto a parlare e mi raccontò più dettagliatamente e con il consueto sarcasmo di sempre le stesse cose che scrisse l’ultimo giorno dell’anno sulla sua bacheca Facebook
"Saluto il 2018 come uno degli anni più importanti della mia vita, se non altro perché ho perso mio padre. Poi mio cugino Dario, Fabione ‘il colonnello’ e la diciannovenne gatta Pta. A gennaio ero disoccupato, a dicembre sono direttore. Il Brescia è passato dalla zona retrocessione alla vetta della classifica. Con gli Intercity di figa ho suonato e prodotto un incredibile doppio album che ha preso 8 su Blow up ma che nessuno si è cagato. Con Ronnie Amighetti e Paolo Blodio Fappani ho aperto uno studio fighissimo, che è una nuova casa in cui sarete tutti i benvenuti. Ho girato un po’ di videoclip e questo sotto è il piu bello, vincitore della categoria ‘miglior scena soft porno’. In tutto questo, un ringraziamento particolare a Daisy Flower per la pazienza e l’amore incondizionato. ” Paolo Comini, 31 Dicembre 2018
Ma in quell’elenco di cose belle e meno belle, mancava qualcosa. “Paul, quindi i Seddy Mellory si sono sciolti?". “Sì e no” rispose, “sono solo accantonati. Un giorno potrebbero tornare”, e mi parlò di questo nuovo progetto a cui stava lavorando da due anni e mezzo insieme a Paolo Blodio Fappani, Michele Bertoli (di fatto l’ultima formazione dei Seddy Mellory) con Ronnie Amighetti in cabina di regia. Nome: The Great Inferno.
Il futuro stava prendendo forma nel nuovo studio di registrazione, Le Klubhaus, ricavato all’interno della Latteria Molloy, una sorta di seconda casa per alcuni di loro, forse anche per tutti i bresciani amanti della buona musica. Una settimana dopo quell'incontro, di cui porterò per sempre con me le sue risate dopo le battute del bluesman Cek (Franceschetti) nelle pause tra una canzone e l’altra prima del concerto dei Tijuana Horror Club, arrivò la terribile notizia. Quel progetto lo abbiamo ora nelle mani ("dopo otto mesi e venti giorni di lavoro" come ricorda Blodio) ed è veramente qualcosa di prezioso perché Paul ci stava lavorando duro e con la consueta passione di sempre. Riuscì a lasciare la sua voce solo su tre di quelle canzoni. Dopo i chiari momenti di sconforto e superata, fortunatamente, l’idea di lasciare tutto dentro all’hard disk dello studio, si è deciso di proseguire perché Paul avrebbe sicuramente voluto così. Avrebbe voluto vedere il suo disco girare. Le sue canzoni suonate sul palco, ascoltate dagli amici. (L'appuntamento è alla Latteria Molloy, Venerdì 10 Gennaio 2020).
Ecco l’idea di coinvolgere altri cantanti e musicisti, tanti bassisti naturalmente, vecchi amici, per portare a termine le canzoni lasciate in sospeso. L'elenco è lungo: Kika Negroni, Fidel Fogaroli, Omar Pedrini, Dario Bertolotti e Giovanni Battagliola dei Don Turbolento, Pietro Berselli, Simone Piccinelli (Plan De Fuga), Luisa Pangrazio e Gigi Ancellotti degli Ovolov, Cristian Barbieri (Hyper Evel), Gabriele Tura (Endrigo), Cris Lavoro, Nikki Lavoro, Emiliano Milanesi (Lunar), Umberto Ottonelli (IoBestia)
Il risultato lo stiamo ascoltando. Lo ascolteremo in futuro.
"Non è il disco che avrebbe dovuto essere" scrive Blodio nella bella presentazione al disco.
Oltre a essere diventato un tributo alla figura di un uomo, rocker e musicista che negli ultimi vent’anni ha dato tanto alla musica bresciana, mi piace pensare a questo disco come a un nuovo punto di partenza per tutta la scena rock della città. Un lavoro collettivo. Un trio che diventa una super band guidata da un solo spirito guida: Paul Mellory.
E dentro potrete trovare ancora l' anima rock'n'roll della vecchia band Seddy Mellory in alcuni brani più cazzuti ('Eve-O-lution', 'You Steal My Rock N Roll' e soprattutto nella tirata punk di 'Sympathy For My Fuck Out') e poi la direzione che stavano prendendo, nonostante fossero tutte nate con i germi punk al loro interno: ritmi più lenti e dilatati, pieni di riverberi e riconducibili a certa new wave anni ottanta come 'Oxy, Oxy, Oxy', 'Baby Dope' con la voce di Paul Mellory "recuperata da dei provini del 2017" mi racconta Blodio, o l'apertura 'Let Me Kiss Your Throat From The Inside', uno dei due brani fatti e finiti insieme a Paul Mellory, che mi ha tanto ricordato i Killing Joke.
Senza dimenticare la cover di 'Russian Roulette' dei Lords Of The New Church, "in una versione abbastanza west coast" cantata da Ronnie Amighetti e con Omar Pedrni ai cori e una finale acustica e crepuscolare 'When I Die I'll Be A Ghost' dei The Senders a metà strada tra Nick Cave e Mark Lanegan con Pietro Berselli alla voce.
Ma c’è ancora una bella cosa da sapere. Un ultimo sigillo o se volete la chiara rappresentazione della continuità con il magico, a volte beffardo mondo del rock’n’roll: Paul ci ha lasciato il 10 Gennaio 2019, lo stesso giorno in cui se ne andò David Bowie tre anni prima. L’ultima canzone su cui Paul ha lavorato prima di lasciarci è ‘Junk Blackstar’, così vicina al titolo dell'ultimo album di Bowie.
"E' stata l’ultima canzone cantata da Paul, una settimana prima di morire, lavoro fatto in solitaria con Ronnie, erano i primi dell’anno e nessuno aveva cazzi di venire in studio" racconta Blodio.
Chiamatele coincidenze. Io li chiamo segnali. You can't kill rock and roll, cantava qualcuno.
Giovedì 3 Gennaio 2019. Un giovedì sera come tanti a Brescia città: i numerosi locali che puntano sulla musica live stanno aprendo i battenti, c’è chi inizia presto, chi sempre troppo tardi. Vista da fuori, da un forestiero come me, Brescia è una città ricca di musica e dallo spirito rock’n’roll anche se so che molti protagonisti, diretti interessati, spesso arricciano il naso di fronte all'evidenza della verità. Mi piace pensare sia solo modestia. A volte c’è l'imbarazzo della scelta ma quella sera dal freddo pungente non avevo dubbi su dove puntare. Quella sera, Paul Mellory ebbe la mia stessa idea. Passammo il pre concerto a parlare e mi raccontò più dettagliatamente e con il consueto sarcasmo di sempre le stesse cose che scrisse l’ultimo giorno dell’anno sulla sua bacheca Facebook
"Saluto il 2018 come uno degli anni più importanti della mia vita, se non altro perché ho perso mio padre. Poi mio cugino Dario, Fabione ‘il colonnello’ e la diciannovenne gatta Pta. A gennaio ero disoccupato, a dicembre sono direttore. Il Brescia è passato dalla zona retrocessione alla vetta della classifica. Con gli Intercity di figa ho suonato e prodotto un incredibile doppio album che ha preso 8 su Blow up ma che nessuno si è cagato. Con Ronnie Amighetti e Paolo Blodio Fappani ho aperto uno studio fighissimo, che è una nuova casa in cui sarete tutti i benvenuti. Ho girato un po’ di videoclip e questo sotto è il piu bello, vincitore della categoria ‘miglior scena soft porno’. In tutto questo, un ringraziamento particolare a Daisy Flower per la pazienza e l’amore incondizionato. ” Paolo Comini, 31 Dicembre 2018
Ma in quell’elenco di cose belle e meno belle, mancava qualcosa. “Paul, quindi i Seddy Mellory si sono sciolti?". “Sì e no” rispose, “sono solo accantonati. Un giorno potrebbero tornare”, e mi parlò di questo nuovo progetto a cui stava lavorando da due anni e mezzo insieme a Paolo Blodio Fappani, Michele Bertoli (di fatto l’ultima formazione dei Seddy Mellory) con Ronnie Amighetti in cabina di regia. Nome: The Great Inferno.
Il futuro stava prendendo forma nel nuovo studio di registrazione, Le Klubhaus, ricavato all’interno della Latteria Molloy, una sorta di seconda casa per alcuni di loro, forse anche per tutti i bresciani amanti della buona musica. Una settimana dopo quell'incontro, di cui porterò per sempre con me le sue risate dopo le battute del bluesman Cek (Franceschetti) nelle pause tra una canzone e l’altra prima del concerto dei Tijuana Horror Club, arrivò la terribile notizia. Quel progetto lo abbiamo ora nelle mani ("dopo otto mesi e venti giorni di lavoro" come ricorda Blodio) ed è veramente qualcosa di prezioso perché Paul ci stava lavorando duro e con la consueta passione di sempre. Riuscì a lasciare la sua voce solo su tre di quelle canzoni. Dopo i chiari momenti di sconforto e superata, fortunatamente, l’idea di lasciare tutto dentro all’hard disk dello studio, si è deciso di proseguire perché Paul avrebbe sicuramente voluto così. Avrebbe voluto vedere il suo disco girare. Le sue canzoni suonate sul palco, ascoltate dagli amici. (L'appuntamento è alla Latteria Molloy, Venerdì 10 Gennaio 2020).
Ecco l’idea di coinvolgere altri cantanti e musicisti, tanti bassisti naturalmente, vecchi amici, per portare a termine le canzoni lasciate in sospeso. L'elenco è lungo: Kika Negroni, Fidel Fogaroli, Omar Pedrini, Dario Bertolotti e Giovanni Battagliola dei Don Turbolento, Pietro Berselli, Simone Piccinelli (Plan De Fuga), Luisa Pangrazio e Gigi Ancellotti degli Ovolov, Cristian Barbieri (Hyper Evel), Gabriele Tura (Endrigo), Cris Lavoro, Nikki Lavoro, Emiliano Milanesi (Lunar), Umberto Ottonelli (IoBestia)
Il risultato lo stiamo ascoltando. Lo ascolteremo in futuro.
"Non è il disco che avrebbe dovuto essere" scrive Blodio nella bella presentazione al disco.
Oltre a essere diventato un tributo alla figura di un uomo, rocker e musicista che negli ultimi vent’anni ha dato tanto alla musica bresciana, mi piace pensare a questo disco come a un nuovo punto di partenza per tutta la scena rock della città. Un lavoro collettivo. Un trio che diventa una super band guidata da un solo spirito guida: Paul Mellory.
E dentro potrete trovare ancora l' anima rock'n'roll della vecchia band Seddy Mellory in alcuni brani più cazzuti ('Eve-O-lution', 'You Steal My Rock N Roll' e soprattutto nella tirata punk di 'Sympathy For My Fuck Out') e poi la direzione che stavano prendendo, nonostante fossero tutte nate con i germi punk al loro interno: ritmi più lenti e dilatati, pieni di riverberi e riconducibili a certa new wave anni ottanta come 'Oxy, Oxy, Oxy', 'Baby Dope' con la voce di Paul Mellory "recuperata da dei provini del 2017" mi racconta Blodio, o l'apertura 'Let Me Kiss Your Throat From The Inside', uno dei due brani fatti e finiti insieme a Paul Mellory, che mi ha tanto ricordato i Killing Joke.
Senza dimenticare la cover di 'Russian Roulette' dei Lords Of The New Church, "in una versione abbastanza west coast" cantata da Ronnie Amighetti e con Omar Pedrni ai cori e una finale acustica e crepuscolare 'When I Die I'll Be A Ghost' dei The Senders a metà strada tra Nick Cave e Mark Lanegan con Pietro Berselli alla voce.
Ma c’è ancora una bella cosa da sapere. Un ultimo sigillo o se volete la chiara rappresentazione della continuità con il magico, a volte beffardo mondo del rock’n’roll: Paul ci ha lasciato il 10 Gennaio 2019, lo stesso giorno in cui se ne andò David Bowie tre anni prima. L’ultima canzone su cui Paul ha lavorato prima di lasciarci è ‘Junk Blackstar’, così vicina al titolo dell'ultimo album di Bowie.
"E' stata l’ultima canzone cantata da Paul, una settimana prima di morire, lavoro fatto in solitaria con Ronnie, erano i primi dell’anno e nessuno aveva cazzi di venire in studio" racconta Blodio.
Chiamatele coincidenze. Io li chiamo segnali. You can't kill rock and roll, cantava qualcuno.
giovedì 9 gennaio 2020
RECENSIONE: THE STONE GARDEN (Black Magic)
THE STONE GARDEN Black Magic (2020)
high voltage rock'n'roll
Nati nel 2015 nella provincia bergamasca ma con già tre lavori in discografia, i STONE GARDEN sono un super gruppo formato da componenti e ex componenti provenienti da diverse formazioni come The Presence, Mojo Filter, Bulldog, No Quarter, Mr. Feedback che hanno unito il loro amore per la rozza semplicità del buon vecchio e caro rock'n'roll fatto di sole chitarre (Marco Mazzucotelli, Carlo Lancini), basso (Daniele Togni), batteria (Francesco Bertino) e una voce, quella di Claudio "Klod" Brolis in grado di graffiare e prendersi la scena con disinvoltura e mestiere. Chi l'ha detto che in Italia non sappiamo suonare rock? Ecco uno dei tanti esempi. Da provare assolutamente con un volante tra le mani e le ruote sull'asfalto.
high voltage rock'n'roll
Nati nel 2015 nella provincia bergamasca ma con già tre lavori in discografia, i STONE GARDEN sono un super gruppo formato da componenti e ex componenti provenienti da diverse formazioni come The Presence, Mojo Filter, Bulldog, No Quarter, Mr. Feedback che hanno unito il loro amore per la rozza semplicità del buon vecchio e caro rock'n'roll fatto di sole chitarre (Marco Mazzucotelli, Carlo Lancini), basso (Daniele Togni), batteria (Francesco Bertino) e una voce, quella di Claudio "Klod" Brolis in grado di graffiare e prendersi la scena con disinvoltura e mestiere. Chi l'ha detto che in Italia non sappiamo suonare rock? Ecco uno dei tanti esempi. Da provare assolutamente con un volante tra le mani e le ruote sull'asfalto.
BLACK MAGIC, registrato al Le Klubhaus di
Brescia da Ronnie Amighetti, è un concentrato di elettricità che viaggia
liberamente e con estrema scioltezza sopra alla storia del rock duro cercando
di mantenere inalterate l'energia e l'irruenza che solo le assi di un palco e
un pubblico davanti possono trasmettere, subito riscontrabili dalla title track in
apertura: dove pesantezza e groove stoner, nobili richiami all'hard rock
seventies di gruppi come Uriah Heep e Rainbow incontrano nel mezzo la
psichedelia. C’è il vecchio hard blues di scuola Hendrix e Led Zeppelin, la
pesantezza dei Black Sabbath, la frenesia dello street metal anni ottanta, il calore del southern rock americano, ma anche il suono moderno di band più recenti
come Rival Sons e Dead Daisies, di questi ultimi hanno anche aperto il tour
italiano.
Si viaggia più spediti con il riff di 'Shout And Roll' con una bella armonica nel mezzo, si agita la testa con la più lenta e cadenzata 'What I' ve Got To Give'. Se cercate chitarre elettriche in 'Mother' s Prayer' e 'Hold On' ne troverete in abbondanza. Ma quando a metà disco pensi di averli inquadrati ti stampano la sorpresa. Due canzoni che inizialmente spiazzano ma poi riescono a conquistare: 'Better Than You' e la semi ballad 'By My Side' scavano nella profondità più scura degli eighties, nella new wave rock di gruppi come The Cult, Lords Of New Church, Alarm. Un bel sentire che affascina e cattura.
Il finale ci regala ancora la loro essenza più dura con le chitarre fuzz dal sapore stoner in 'Rock Damnation' e le tenebre della pesante 'I Should Believe In You', un blues nero che pare uscita da uno dei primi quattro lavori di Danzig, calando il sipario su un disco che un gruppo a loro caro sintetizzerebbe con un semplice "high voltage rock'n'roll".
The Sone Garden presenteranno il nuovo disco Venerdì 10 gennaio tra le mura amiche del Druso a Bergamo
Si viaggia più spediti con il riff di 'Shout And Roll' con una bella armonica nel mezzo, si agita la testa con la più lenta e cadenzata 'What I' ve Got To Give'. Se cercate chitarre elettriche in 'Mother' s Prayer' e 'Hold On' ne troverete in abbondanza. Ma quando a metà disco pensi di averli inquadrati ti stampano la sorpresa. Due canzoni che inizialmente spiazzano ma poi riescono a conquistare: 'Better Than You' e la semi ballad 'By My Side' scavano nella profondità più scura degli eighties, nella new wave rock di gruppi come The Cult, Lords Of New Church, Alarm. Un bel sentire che affascina e cattura.
Il finale ci regala ancora la loro essenza più dura con le chitarre fuzz dal sapore stoner in 'Rock Damnation' e le tenebre della pesante 'I Should Believe In You', un blues nero che pare uscita da uno dei primi quattro lavori di Danzig, calando il sipario su un disco che un gruppo a loro caro sintetizzerebbe con un semplice "high voltage rock'n'roll".
The Sone Garden presenteranno il nuovo disco Venerdì 10 gennaio tra le mura amiche del Druso a Bergamo
martedì 7 gennaio 2020
RECENSIONE: DEVON GILFILLIAN (Black Hole Rainbow)
DEVON GILFILLIAN Black Hole Rainbow (Capitol Records, 2020)
il tempo giusto
Tra le prime uscite interessanti di questo 2020 un posto lo merita sicuramente BLACK HOLE RAINBOW il debutto di DEVON GILFILLIAN, talentuoso artista con base a Nashville con un solo Ep registrato nel 2016 . Cresciuto a Filadelfia con i classici del soul nel cuore cucitigli addosso dal padre (cantante) e l'hip hop nelle orecchie, Gilfillian disegna il suo personale contributo in questo nuovo quadro che sta prendendo forma intorno al soul e alla musica afroamericana: nel 2019 la grande conferma di Michael Kiwanuka e il debutto dei Black Pumas sono stati significativi.
In una intervista si è lasciato andare indicando Jimi Hendrix come l'artista che lo ha influenzato di più ma con una canzone in particolare che gli ha aperto un mondo:"All Along The Watchtower che è una cover di una canzone di Bob Dylan naturalmente, dall'ascolto di un sacco di Jimi Hendrix e dell'ascolto di quella canzone in particolare, ho aumentato l'apprezzamento non solo per la musica e la chitarra ma anche il lato lirico. E così Jimi mi ha fatto conoscere gli incredibili testi di Bob Dylan".
A tutto il resto hanno pensato una laurea in psicologia ("quando la musica è fatta in modo onesto, le persone lo sentono e si connettono ad esso. Questo è ciò a cui associo "soul", quando si tratta di musica"), le prime esperienze in alcune cover band (di Delta blues, di reggae e perfino dei Tears For Fears), l'incontro con l'amico e batterista Jon Smalt e la sua band dopo il trasferimento a Nashville con la scoperta del nuovo e vecchio Outlaw Country di gente come Willie Nelson, Waylon Jennings e il più moderno Sturgill Simpson.
Tenendo strette le radici garantite da suoni analogici e strumenti vintage (produzione di Shawn Everett conosciuto per i suoi lavori con Alabama Shakes e War On Drugs) Devon Gilfillian si muove liberamente tra crescendo emotivi ('Lonely'), soul ('The Good Life'), funky ('Get Out And Get In'), gospel blues ('Stranger') e beat moderni ('Stay A Little Longer') che il singolo 'Unchained' ispirato alla storia vera del giocatore di football afroamericano Brian Banks, accusato ingiustamente di stupro, mettono bene in evidenza.
Rolling Stone America non si è risparmiato nel definire Gilfillian "uno dei giovani artisti più entusiasmanti della fiorente scena soul di Nashville". Ne sentiremo parlare.
il tempo giusto
Tra le prime uscite interessanti di questo 2020 un posto lo merita sicuramente BLACK HOLE RAINBOW il debutto di DEVON GILFILLIAN, talentuoso artista con base a Nashville con un solo Ep registrato nel 2016 . Cresciuto a Filadelfia con i classici del soul nel cuore cucitigli addosso dal padre (cantante) e l'hip hop nelle orecchie, Gilfillian disegna il suo personale contributo in questo nuovo quadro che sta prendendo forma intorno al soul e alla musica afroamericana: nel 2019 la grande conferma di Michael Kiwanuka e il debutto dei Black Pumas sono stati significativi.
In una intervista si è lasciato andare indicando Jimi Hendrix come l'artista che lo ha influenzato di più ma con una canzone in particolare che gli ha aperto un mondo:"All Along The Watchtower che è una cover di una canzone di Bob Dylan naturalmente, dall'ascolto di un sacco di Jimi Hendrix e dell'ascolto di quella canzone in particolare, ho aumentato l'apprezzamento non solo per la musica e la chitarra ma anche il lato lirico. E così Jimi mi ha fatto conoscere gli incredibili testi di Bob Dylan".
A tutto il resto hanno pensato una laurea in psicologia ("quando la musica è fatta in modo onesto, le persone lo sentono e si connettono ad esso. Questo è ciò a cui associo "soul", quando si tratta di musica"), le prime esperienze in alcune cover band (di Delta blues, di reggae e perfino dei Tears For Fears), l'incontro con l'amico e batterista Jon Smalt e la sua band dopo il trasferimento a Nashville con la scoperta del nuovo e vecchio Outlaw Country di gente come Willie Nelson, Waylon Jennings e il più moderno Sturgill Simpson.
Tenendo strette le radici garantite da suoni analogici e strumenti vintage (produzione di Shawn Everett conosciuto per i suoi lavori con Alabama Shakes e War On Drugs) Devon Gilfillian si muove liberamente tra crescendo emotivi ('Lonely'), soul ('The Good Life'), funky ('Get Out And Get In'), gospel blues ('Stranger') e beat moderni ('Stay A Little Longer') che il singolo 'Unchained' ispirato alla storia vera del giocatore di football afroamericano Brian Banks, accusato ingiustamente di stupro, mettono bene in evidenza.
Rolling Stone America non si è risparmiato nel definire Gilfillian "uno dei giovani artisti più entusiasmanti della fiorente scena soul di Nashville". Ne sentiremo parlare.
venerdì 3 gennaio 2020
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 82: AMERICA (America)
AMERICA America (1971)
Nel 1979 entrò in casa il primo impianto stereo; il primo disco degli America (1971), quello con gli indiani in copertina, arrivò subito dopo. Credo fosse una delle prime stampe perché 'A Horse With No Name' non era presente nella track list. Per molti anni sono andato avanti a chiedermi: ma dov'è? È la loro canzone più famosa e qui non c'è? In alternativa si può sempre chiedere al padre di Neil Young: la leggenda vuole pensasse che quella canzone fosse farina del figlio. Non fu il solo.
In effetti venne aggiunta successivamente, quando già stavano per iniziare i lavori per il secondo album Homecoming, quando il produttore Jeff Dexter si accorse che il singolo scelto per lanciare l'album, la romantica ballata al pianoforte 'I Need You' scritta dalla penna sempre gentile di un appena sedicenne Gerry Beckley, non riuscì a sfondare a dovere. Harry Nilson ne fece una cover anni dopo.
Allora Dewey Bunnell se ne uscì con quella 'Desert Song' che poi diventò 'A Horse With No Name' scritta a diciott'anni con un sentimento nostalgico verso i deserti americani e le sue radici in quei luoghi "l'ho scritta mentre ero seduto in una stanza in Inghilterra in una grigia giornata piovigginosa - quegli ultimi anni in cui eravamo lì sembrava che il sole non fosse mai venuto fuori!". Sì perché i tre America pur avendo radici negli States trascorsero gran parte della loro gioventù in Inghilterra (unirono il loro destino comune alla London Central High School) dove i padri militari americani prestavano servizio. Gerry Beckley e Dan Peek nacquero in America, Dewey Bunnell in Inghilterra.
Il nome America uscì fuori dopo aver visto un jukebox "Americana" in una caffetteria.
In Inghilterra si conobbero e lì al Trident Studio di Londra con Ken Scott come ingegnere del suono, registrarono questo loro debutto.
Un disco spesso ingiustamente dimenticato. La critica li bollò subito come delle brutte copie di Neil Young e CSN & Y e finita lì (la west coast fatta da tre ragazzi "inglesi" sembrava un insulto) ma il disco era pieno zeppo di canzoni stupende che rimandavano ai deserti, ai grandi spazi aperti.
Canzoni in prevalenza acustiche, l'intreccio di chitarre e percussioni, ma suonate con il piglio e l'impeto elettrico ('Riverside'!, 'Three Roses') e poi l'unica volta che usarono la chitarra elettrica e la batteria uscì quella meraviglia cangiante intitolata 'Sandman', che sabbia e serpenti sembrano materializzarsi ai tuoi piedi, scritta da Bunnell ispirandosi ai terribili racconti dei soldati in Vietnam.
Il country con la steel guitar di 'Rainy Day' , il folk di 'Pigeon Song' il meraviglioso intreccio di chitarre di 'Here'. Le loro armonie vocali. E pensare che inizialmente la loro idea era totalmente diversa:" la loro idea all'epoca era di fare qualcosa di più simile Sgt. Pepper dei Beatles" raccontò il produttore Jeff Dexter. Ci arriveranno pochi anni dopo con George Martin in produzione.
Lo straordinario inizio di una carriera che quest'anno ha toccato il traguardo dei cinquanta.
Nel 1979 entrò in casa il primo impianto stereo; il primo disco degli America (1971), quello con gli indiani in copertina, arrivò subito dopo. Credo fosse una delle prime stampe perché 'A Horse With No Name' non era presente nella track list. Per molti anni sono andato avanti a chiedermi: ma dov'è? È la loro canzone più famosa e qui non c'è? In alternativa si può sempre chiedere al padre di Neil Young: la leggenda vuole pensasse che quella canzone fosse farina del figlio. Non fu il solo.
In effetti venne aggiunta successivamente, quando già stavano per iniziare i lavori per il secondo album Homecoming, quando il produttore Jeff Dexter si accorse che il singolo scelto per lanciare l'album, la romantica ballata al pianoforte 'I Need You' scritta dalla penna sempre gentile di un appena sedicenne Gerry Beckley, non riuscì a sfondare a dovere. Harry Nilson ne fece una cover anni dopo.
Allora Dewey Bunnell se ne uscì con quella 'Desert Song' che poi diventò 'A Horse With No Name' scritta a diciott'anni con un sentimento nostalgico verso i deserti americani e le sue radici in quei luoghi "l'ho scritta mentre ero seduto in una stanza in Inghilterra in una grigia giornata piovigginosa - quegli ultimi anni in cui eravamo lì sembrava che il sole non fosse mai venuto fuori!". Sì perché i tre America pur avendo radici negli States trascorsero gran parte della loro gioventù in Inghilterra (unirono il loro destino comune alla London Central High School) dove i padri militari americani prestavano servizio. Gerry Beckley e Dan Peek nacquero in America, Dewey Bunnell in Inghilterra.
Il nome America uscì fuori dopo aver visto un jukebox "Americana" in una caffetteria.
In Inghilterra si conobbero e lì al Trident Studio di Londra con Ken Scott come ingegnere del suono, registrarono questo loro debutto.
Un disco spesso ingiustamente dimenticato. La critica li bollò subito come delle brutte copie di Neil Young e CSN & Y e finita lì (la west coast fatta da tre ragazzi "inglesi" sembrava un insulto) ma il disco era pieno zeppo di canzoni stupende che rimandavano ai deserti, ai grandi spazi aperti.
Canzoni in prevalenza acustiche, l'intreccio di chitarre e percussioni, ma suonate con il piglio e l'impeto elettrico ('Riverside'!, 'Three Roses') e poi l'unica volta che usarono la chitarra elettrica e la batteria uscì quella meraviglia cangiante intitolata 'Sandman', che sabbia e serpenti sembrano materializzarsi ai tuoi piedi, scritta da Bunnell ispirandosi ai terribili racconti dei soldati in Vietnam.
Il country con la steel guitar di 'Rainy Day' , il folk di 'Pigeon Song' il meraviglioso intreccio di chitarre di 'Here'. Le loro armonie vocali. E pensare che inizialmente la loro idea era totalmente diversa:" la loro idea all'epoca era di fare qualcosa di più simile Sgt. Pepper dei Beatles" raccontò il produttore Jeff Dexter. Ci arriveranno pochi anni dopo con George Martin in produzione.
Lo straordinario inizio di una carriera che quest'anno ha toccato il traguardo dei cinquanta.
sabato 28 dicembre 2019
RECENSIONE: HELL SPET (Killer Machine)
non c'è tempo da perdere
Pronti per l'apocalisse? Gli Hell Spet ce ne danno un anticipo di mezz'ora (29 minuti e 32 secondi per la precisione) tanto per metterci in guardia da quello che ci aspetterà in un futuro nemmeno troppo lontano, quando le macchine e la tecnologia prenderanno il sopravvento. Continuando il discorso programmatico iniziato da band come i Fear Factory in tempi non sospetti. Ma se là regnava il freddo chirurgico della proposta musicale, qui c'è ancora spazio per il calore. C'è ancora speranza.
La band bresciana arriva al traguardo del quinto disco riuscendo nell'intento di mettere su disco quello che stavano sempre cercando: il connubio perfetto tra la tradizione musicale del country bluegrass americano (ecco il calore!), l'anarchia e la libertà d'intenti punk gridata nei chorus, la pesantezza delle chitarre e le trame del thrash metal. Queste ultime in netta prevalenza rispetto al passato. Quello che vogliono in questo momento.
L'odore di letame della stalla di montagna e le scintille di un'officina meccanica giù in città non sono mai state così vicine tra loro. Cowpunkmetal della miglior specie: in Italia non lo troverete facilmente, dovete spostarvi dalle parti di Hank Williams III o su alcune opere di quel matto di Scott H. Biram.
Mandolino (Simone Grazioli) e banjo (Nicolò Papini) lanciati a tutta velocità introducono il lavoro incessante della sezione ritmica formata dalla poderosa batteria (Michele "Cannibal" Saleri) e dal mastodontico è vintage double bass (Andrea "Biscio" Bresciani), dalle chitarre elettriche che spaziano dal rock'n'roll 50 a riff speed metal (Federico "Feddo" Guarienti) e dalla voce camaleontica che prima ti culla con la profondità di Johnny Cash poi ti sveglia con il più brutale dei growl (Federico Cantaboni). Tutto scorre alla velocità della luce non c'è tempo da perdere. Non c'è sosta e non c'è inganno nelle undici tracce registrate all'Indiebox Music Hall di Giovanni Bottoglia: dall'iniziale motorhediana 'You' ll Fall' alla finale 'Back From Hell' passando dallo speed country di 'Cyborg Genocide' con i suoi stop and go cadenzati e i chorus Oi!, dalla veloce 'Dirty Life', al forte grido di 'Right Now', dalla cangiante pesantezza di 'Space Shuttle', all'arcigno hardcore di 'Killer Machine', fino all'epicità Irish folk di 'Rising From The Graves' e 'Don' t Look Back'.
Ah dimenticavo la cosa più importante: la Hell Spet band da il meglio di sé sopra un palco. Se poi offrirete loro qualche birra come carburante, vi ringrazieranno con uno spettacolo live in cui difficilmente riuscirete a star fermi e su cui non vorreste mai vedere la parola fine. Cheers.
martedì 24 dicembre 2019
RECENSIONE: GERRY BECKLEY (Five Mile Road)
GERRY BECKLEY Five Mile Road (Blue Elan Records, 2019)
L'altra metà d'America
Se il logo America fosse stampato in copertina questo disco avrebbe qualche chance in più di visibilità. Si tratta invece del nuovo disco solista di Gerry Beckley, una delle due metà del gruppo (l'altra è Dewey Bunnell naturalmente), quello per cui gli anni sembrano non passare mai. Il concerto della band, quest'anno a Verona per festeggiare i 50 anni di carriera, me l'ha confermato. Beckey, 66 anni, ha ancora la stessa aria dell'eterno ragazzo di sempre: elegante ma sportivo, gentile, a modo, in una definizione pop rock come le canzoni che portano la sua firma.
Un disco, a tre anni dal precedente Carousel, che si riappropria della semplicità degli anni migliori a cavallo tra la West Coast californiana e la sterzata beatlesiana portata da George Martin. Recupera perfino una canzone, 'Home Again', la cui prima stesura risale agli anni settanta.
Un diario di viaggio che fa da colonna sonora alle fotografie, altra sua grande passione, raccolte in anni di carriera on the road e ora riunite in un libro.
"Sapevo che questo gruppo di canzoni, anche la scelta del titolo dell'album, avrebbe riguardato il mio viaggio".
Ma soprattutto si riappropria di molte canzoni che scrisse dieci anni fa per l'album Heart Of The Valley di Jeff Larson. Una collaborazione che all'epoca funzionò e che prosegue in qualche modo qui.
Un po' Graham Nash, un po' Paul McCartney, le dodici canzoni hanno il dono dell'eterna gentilezza musicale di Beckley, melodicamente pop e costruite in viaggio ('Vagabond') che si sviluppano sul country elettro acustico come nell'apertura 'Life Lessons', l'unica scritta in coppia con Bill Mumy, nel country folk di 'Five Mile Road' con la chitarra ospite di Rusty Young (Poco) o di 'Heart Of The Valley' e 'Sudden Soldier', quest'ultima un'istantanea di una quotidianità negli aeroporti che si è spesso presentata ai suoi occhi durante gli spostamenti della band in tour. Qualche scatto più ritmato nel rock di 'Hang Your Head High' e nell'orchestra che arricchisce 'Calling'.
Quando si siede al pianoforte fa uscire il sangue british ('Something To Remember') di sponda Beatles che c'è in lui, nato in Texas da un papà militare dell'aeronautica americana e madre inglese, cresciuto poi a Londra ma con il successo che lo aspettava nuovamente negli States.
Beckley suona quasi tutti gli strumenti, con poche eccezioni (ecco Jason Scheff dei Chicago) in un disco costruito come si faceva una volta, tenendo in considerazione la tracklist come si trattasse di un vinile e i suoi due lati (così dice lui).
sabato 21 dicembre 2019
30 DISCHI PER RICORDARE IL MIO 2019
30 DISCHI PER RICORDARE IL MIO 2019
DUFF McKAGAN- Tenderness Recensione
MICHAEL KIWANUKA-Kiwanuka Recensione
JIMMY "DUCK" HOLMES- Cypress Grove Recensione
KADAVAR-For The Dead Travel Fast Recensione
CHRIS KNIGHT- Almost Daylight Recensione
WHISKEY MYERS -Whiskey Myers Recensione
SACRED REICH -Awakening Recensione
JESSE MALIN- Sunset Kids Recensione
BRUCE SPRINGSTEEN -Western Stars
STEVE GUNN-The Unseen In Between Recensione
RIVAL SONS-Feral Roots Recensione
MICHAEL CHAPMAN-True North Recensione
THE LONG RYDERS- Psychedelic Country Soul Recensione
BOB MOULD- Sunshine Rock Recensione
L.A. GUNS-The Devil You Know Recensione
SON VOLT-Union Recensione
JOSH RITTER-Fever Breaks Recensione
D.A.D.- A Prayer For The Loud Recensione
IAN NOE- Between The Country DEBUTTO DELL'ANNO Recensione
THE RACOUNTERS- Help Us Stranger Recensione
THE ALLMAN BETTS BAND-Down To The River Recensione
THE BLACK KEYS- Let's Rock Recensione
WARRIOR SOUL- Rock'n'Roll Disease Recensione
PURPLE MOUNTAINS- Purple Mountains Recensione
BLACK PUMAS-Black Pumas Recensione
DOUG SEEGERS-A Story I Got To Tell Recensione
RODNEY CROWELL-Texas Recensione
SAINT VITUS- Saint Vitus
WILLIE NELSON- Ride Me Back Recensione
THE STEEL WOODS- Old News Recensione
bonus
JOHN GARCIA AND THE BAND OF GOLD Recensione
YOLA-Walk Through Fire Recensione
HAYES CARLL-What It Is Recensione
RAMMSTEIN-Rammstein
delusione
TESLA-Shock! Recensione
BOX, ristampe e postumi
RORY GALLAGHER-Blues Recensione
BOB DYLAN -Travelin' Thru, The Bootleg Series Volume 15
J.J. CALE-Stay Around Recensione
NEIL YOUNG - Tuscaloosa Recensione
TOWNES VAN ZANDT - Sky Blue Recensione
GREGG ALLMAN- Laid Back
ITALIANI
VINICIO CAPOSSELA- Ballate Per Uomini e Bestie
MASSIMO VOLUME- Il Nuotatore
EDDA-Fru Fru
CHEAP WINE- Faces
SUPERDOWNHOME- Get My Demons Straight Recensione
DARIO SN -The Easy Way Recensione
TIJUANA HORROR CLUB- The Big Swindle Recensione
THE CROWSROADS-On The Ropes Recensione
STEVE RUDIVELLI- Brianza Texas Radio Recensione
CONCERTI
I miei concerti del 2019
MADRUGADA (Latteria Molloy, Brescia, 4 Maggio)
un concerto di rarissima intensità per festeggiare i vent'anni del loro debutto Industrial Silence. Concerto sorpresa dell'anno quello dei norvegesi.
ALL THEM WITCHES (Bloom, Mezzago, 27 Aprile)
Il gruppo di Nashville è una delle migliori realtà rock uscite negli ultimi anni. Un concentrato bomba di blues, desert sound, hard rock e psichedelia. Diretti, credibili, senza fronzoli e, nonostante tutto, un futuro ancora tutto da scrivere.
ALICE COOPER (Pala Alpitour, Torino, 10 Settembre)
anche se lo spettacolo horror, i trucchi e le trovate sceniche da luna park sono le stesse di quarant'anni fa adattate al trascorrere del tempo, Alice Cooper sa ancora come mettere in piedi uno spettacolo vincente equilibrando alla perfezione rock e teatro. Divertimento assicurato. Recensione
MICHAEL KIWANUKA (Fabrique, Milano, 7 Dicembre)
un concerto incredibile per intensità, bravura, ritmo e scaletta dove il passato della black music amoreggia con il presente, con il rock, la psichedelia e nemmeno te ne accorgi, con l'umiltà di chi sa dove arrivare, conquistando lo strabordante pubblico del Fabrique. Unica nota negativa: proprio il Fabrique e un pubblico ben oltre la capienza. Recensione
AMERICA (Teatro Romano, Verona, 7 Luglio)
il concerto che ho inseguito e sognato da circa 40 anni. Quello che mi ha riportato alla West coast della mia adolescenza. Un greatest hits per i loro 50 anni di carriera. Un suono pulito e basico, fatto di armonie vocali, belle chitarre acustiche, batteria, basso e chitarre elettriche. La splendida cornice del teatro, e la notte estiva dopo un violento temporale fanno il resto. Recensione
MANUEL AGNELLI (Teatro Display, Brescia, 23 Novembre)
uno spettacolo intimo, caldo, avvolgente e coinvolgente, fatto di tante canzoni sue e non, ma anche di poesia, letteratura, aneddoti, accompagnato sul palco dal solo Rodrigo D'Erasmo e da un semplice ma accattivante gioco di luci. Bello. Recensione
RIVAL SONS (Live Club, Trezzo, 15 Novembre)
dopo le conferme su disco, arriva anche il live per decretare i californiani una delle migliori hard rock band ascoltate nel nuovo millennio. E poi un cantante come Jay Buchanan a fare la differenza.
Steve Forbert (Scuola Toscanini, Chiari, 2 Febbraio Recensione
The Long Ryders (Scuola Toscanini, Chiari, 19 Aprile) Recensione
Steve Hill (Hydro, Biella, 10 Aprile) Recensione
Edda (Latteria Molloy, Brescia, 18 Maggio)
Omar Pedrini (Latteria Molloy, Brescia, 23 Febbraio) Recensione
Massimo Volume (No Silenz Festival, Cigole, 13 Giugno)
Orange Goblin (Ultrasuoni Festival, Dro (TN), 5 Luglio)
Hell Spet (Ultrasuoni Festival, Dro (TN), 6 Luglio)
Flamin Groovies & Festival Beat (Festival Beat, Salsomaggiore Terme, 29 Giugno)
Popa Chubby (Roload Sound Festival, Biella, 10 Luglio)
Napalm Death (Festa Radio Onda d'Urto, Brescia, 14 Agosto)
Motorpsycho (Latteria Molloy, Brescia, 11 Ottobre)
Ettore Giuradei (Teatro delle Ali, Breno (BS), 2 Novembre)
The Gentlemens (Monami, Montichiari,1 Novembre)
I Hate My Village (Latteria Molloy, Brescia, 15 Febbraio)
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SAINT VITUS- Saint Vitus
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TOWNES VAN ZANDT - Sky Blue Recensione
GREGG ALLMAN- Laid Back
ITALIANI
VINICIO CAPOSSELA- Ballate Per Uomini e Bestie
MASSIMO VOLUME- Il Nuotatore
EDDA-Fru Fru
CHEAP WINE- Faces
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TIJUANA HORROR CLUB- The Big Swindle Recensione
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STEVE RUDIVELLI- Brianza Texas Radio Recensione
CONCERTI
MADRUGADA (Latteria Molloy, Brescia, 4 Maggio)
un concerto di rarissima intensità per festeggiare i vent'anni del loro debutto Industrial Silence. Concerto sorpresa dell'anno quello dei norvegesi.
ALL THEM WITCHES (Bloom, Mezzago, 27 Aprile)
Il gruppo di Nashville è una delle migliori realtà rock uscite negli ultimi anni. Un concentrato bomba di blues, desert sound, hard rock e psichedelia. Diretti, credibili, senza fronzoli e, nonostante tutto, un futuro ancora tutto da scrivere.
ALICE COOPER (Pala Alpitour, Torino, 10 Settembre)
anche se lo spettacolo horror, i trucchi e le trovate sceniche da luna park sono le stesse di quarant'anni fa adattate al trascorrere del tempo, Alice Cooper sa ancora come mettere in piedi uno spettacolo vincente equilibrando alla perfezione rock e teatro. Divertimento assicurato. Recensione
MICHAEL KIWANUKA (Fabrique, Milano, 7 Dicembre)
un concerto incredibile per intensità, bravura, ritmo e scaletta dove il passato della black music amoreggia con il presente, con il rock, la psichedelia e nemmeno te ne accorgi, con l'umiltà di chi sa dove arrivare, conquistando lo strabordante pubblico del Fabrique. Unica nota negativa: proprio il Fabrique e un pubblico ben oltre la capienza. Recensione
AMERICA (Teatro Romano, Verona, 7 Luglio)
il concerto che ho inseguito e sognato da circa 40 anni. Quello che mi ha riportato alla West coast della mia adolescenza. Un greatest hits per i loro 50 anni di carriera. Un suono pulito e basico, fatto di armonie vocali, belle chitarre acustiche, batteria, basso e chitarre elettriche. La splendida cornice del teatro, e la notte estiva dopo un violento temporale fanno il resto. Recensione
MANUEL AGNELLI (Teatro Display, Brescia, 23 Novembre)
uno spettacolo intimo, caldo, avvolgente e coinvolgente, fatto di tante canzoni sue e non, ma anche di poesia, letteratura, aneddoti, accompagnato sul palco dal solo Rodrigo D'Erasmo e da un semplice ma accattivante gioco di luci. Bello. Recensione
RIVAL SONS (Live Club, Trezzo, 15 Novembre)
dopo le conferme su disco, arriva anche il live per decretare i californiani una delle migliori hard rock band ascoltate nel nuovo millennio. E poi un cantante come Jay Buchanan a fare la differenza.
Steve Forbert (Scuola Toscanini, Chiari, 2 Febbraio Recensione
The Long Ryders (Scuola Toscanini, Chiari, 19 Aprile) Recensione
Steve Hill (Hydro, Biella, 10 Aprile) Recensione
Edda (Latteria Molloy, Brescia, 18 Maggio)
Omar Pedrini (Latteria Molloy, Brescia, 23 Febbraio) Recensione
Massimo Volume (No Silenz Festival, Cigole, 13 Giugno)
Orange Goblin (Ultrasuoni Festival, Dro (TN), 5 Luglio)
Hell Spet (Ultrasuoni Festival, Dro (TN), 6 Luglio)
Flamin Groovies & Festival Beat (Festival Beat, Salsomaggiore Terme, 29 Giugno)
Popa Chubby (Roload Sound Festival, Biella, 10 Luglio)
Napalm Death (Festa Radio Onda d'Urto, Brescia, 14 Agosto)
Motorpsycho (Latteria Molloy, Brescia, 11 Ottobre)
Ettore Giuradei (Teatro delle Ali, Breno (BS), 2 Novembre)
The Gentlemens (Monami, Montichiari,1 Novembre)
I Hate My Village (Latteria Molloy, Brescia, 15 Febbraio)
mercoledì 11 dicembre 2019
appunti veloci dal WEEKEND. Il disco: THE WHO (Who). Il concerto: MICHAEL KIWANUKA live@Fabrique, Milano, 7 Dicembre 2019
THE WHO Who (Universal, 2019)
Eccolo qua: un disco che non troverete nelle classifiche di fine anno compilate troppo frettolosamente. Un po' perché uscire ai primi di Dicembre ti taglia già fuori, si sa, un po' perché, se avete ascoltato tanti dischi avrete trovato sicuramente di meglio. Non lo meriterebbe. Io però la butto lì: i migliori Who dal lontano 1981? (Roger Daltrey in una intervista si è spinto indietro fino al 1973). Non che ci volesse molto, visto che in mezzo ci sono solo It's Hard e Endless Wire, i fanalini di coda della loro discografia. Però non male per un gruppo nato nell'anno in cui in Italia venne inaugurata l'autostrada del sole. Lo stesso anno in cui incontrarono l'artista pop Sir Peter Blake che creò la copertina di Faces Dances qualche anno dopo e pure questa.
La coppia formata da Roger Daltrey e Pete Townshend di strade ne ha percorse così tante che mettere in fila undici canzoni (tre in più nella versione deluxe), senza un tema portante ma in completa libertà, è puro mestiere: uno sa ancora ruggire quando vuole e ho ancora in testa il bel disco con Wilko Johnson ('Ball And Chain' si prende a cuore le condizioni dei carcerati a Guantanamo riprendendo una vecchia canzone di Townshend), l'altro schitarra ancora con fervore ('All This Music Must Fade') e si prende la scena nella sorniona e orchestrale 'I' ll Be Back', uno sguardo indietro ai tempi andati. Certo, quelle vecchie strade vengono percorse un po' tutte: ci sono gli anni sessanta, i settanta, gli ottanta, i synth con i loro pregi e tanti difetti, cori e voci al vocoder abbastanza orribili (e evitabili), la schiettezza pop, e il deja vu è di casa quasi all'angolo di ogni traccia. Le mie favorite sono la leggera ''Break The News', una folk song sostenuta dal sapore molto British e radio friendly e la cangiante 'Rockin' In Rage' un rock teatrale il giusto.
Molto probabilmente questo disco ha la parola fine incisa nell'ultimo solco dell'ultima canzone.
E pensare che il disco si apre con queste sarcastiche parole :"I don’t care, I know you’re going to hate this song”. Bentornati comunque.
Eccolo qua: un disco che non troverete nelle classifiche di fine anno compilate troppo frettolosamente. Un po' perché uscire ai primi di Dicembre ti taglia già fuori, si sa, un po' perché, se avete ascoltato tanti dischi avrete trovato sicuramente di meglio. Non lo meriterebbe. Io però la butto lì: i migliori Who dal lontano 1981? (Roger Daltrey in una intervista si è spinto indietro fino al 1973). Non che ci volesse molto, visto che in mezzo ci sono solo It's Hard e Endless Wire, i fanalini di coda della loro discografia. Però non male per un gruppo nato nell'anno in cui in Italia venne inaugurata l'autostrada del sole. Lo stesso anno in cui incontrarono l'artista pop Sir Peter Blake che creò la copertina di Faces Dances qualche anno dopo e pure questa.
La coppia formata da Roger Daltrey e Pete Townshend di strade ne ha percorse così tante che mettere in fila undici canzoni (tre in più nella versione deluxe), senza un tema portante ma in completa libertà, è puro mestiere: uno sa ancora ruggire quando vuole e ho ancora in testa il bel disco con Wilko Johnson ('Ball And Chain' si prende a cuore le condizioni dei carcerati a Guantanamo riprendendo una vecchia canzone di Townshend), l'altro schitarra ancora con fervore ('All This Music Must Fade') e si prende la scena nella sorniona e orchestrale 'I' ll Be Back', uno sguardo indietro ai tempi andati. Certo, quelle vecchie strade vengono percorse un po' tutte: ci sono gli anni sessanta, i settanta, gli ottanta, i synth con i loro pregi e tanti difetti, cori e voci al vocoder abbastanza orribili (e evitabili), la schiettezza pop, e il deja vu è di casa quasi all'angolo di ogni traccia. Le mie favorite sono la leggera ''Break The News', una folk song sostenuta dal sapore molto British e radio friendly e la cangiante 'Rockin' In Rage' un rock teatrale il giusto.
Molto probabilmente questo disco ha la parola fine incisa nell'ultimo solco dell'ultima canzone.
E pensare che il disco si apre con queste sarcastiche parole :"I don’t care, I know you’re going to hate this song”. Bentornati comunque.
MICHAEL KIWANUKA live@Fabrique, Milano, 7 Dicembre 2019
Che crescita Michael Kiwanuka! Ricordo il suo timido e acerbo talento con quegli occhi da cerbiatto davanti al pubblico curioso dei Magazzini Generali nel 2012 ai tempi del suo acclamato debutto, lo ritrovo leone stasera, sette anni dopo, con altri due album pazzeschi nelle tasche, capace di mettere in piedi un concerto incredibile per intensità, bravura, ritmo e scaletta dove il passato della black music amoreggia con ...il presente, con il rock, la psichedelia e nemmeno te ne accorgi, con l'umiltà di chi sa dove arrivare, conquistando lo strabordante pubblico del Fabrique. Il ragazzo è pronto per i palazzetti.
Ecco, se devo trovare un difetto alla serata, il buon Kiwanuka non c'entra nulla: un concerto lo vivi bene quando l'organizzazione ti mette nelle condizioni per farlo.
Sì l'ho vissuto male.
Stasera il locale era invivibile, stipato in ogni buco della sua superficie ben oltre la capienza, tanto che le piazze piene di sardine di questi giorni ci facevano un baffo. Non oso immaginare un possibile piano di evacuazione in caso di emergenza in una simile occasione.
Vabbè, poi c'è il vergognoso contorno tutto italico: prezzi bevande da ristorante cinque stelle, parcheggiatori abusivi delle grandi occasioni che chiedevano 10 euro (10 euro!) per trovarti un posto macchina in zona industriale (mandati prontamente a cagare) e bagarini che continuano la loro opera come il più normale dei mestieri. Ma questi basta ignorarli.
Fortunatamente esiste la musica. Però rispettiamola cazzo!
Che crescita Michael Kiwanuka! Ricordo il suo timido e acerbo talento con quegli occhi da cerbiatto davanti al pubblico curioso dei Magazzini Generali nel 2012 ai tempi del suo acclamato debutto, lo ritrovo leone stasera, sette anni dopo, con altri due album pazzeschi nelle tasche, capace di mettere in piedi un concerto incredibile per intensità, bravura, ritmo e scaletta dove il passato della black music amoreggia con ...il presente, con il rock, la psichedelia e nemmeno te ne accorgi, con l'umiltà di chi sa dove arrivare, conquistando lo strabordante pubblico del Fabrique. Il ragazzo è pronto per i palazzetti.
Ecco, se devo trovare un difetto alla serata, il buon Kiwanuka non c'entra nulla: un concerto lo vivi bene quando l'organizzazione ti mette nelle condizioni per farlo.
Sì l'ho vissuto male.
Stasera il locale era invivibile, stipato in ogni buco della sua superficie ben oltre la capienza, tanto che le piazze piene di sardine di questi giorni ci facevano un baffo. Non oso immaginare un possibile piano di evacuazione in caso di emergenza in una simile occasione.
Vabbè, poi c'è il vergognoso contorno tutto italico: prezzi bevande da ristorante cinque stelle, parcheggiatori abusivi delle grandi occasioni che chiedevano 10 euro (10 euro!) per trovarti un posto macchina in zona industriale (mandati prontamente a cagare) e bagarini che continuano la loro opera come il più normale dei mestieri. Ma questi basta ignorarli.
Fortunatamente esiste la musica. Però rispettiamola cazzo!
martedì 10 dicembre 2019
RECENSIONE: MAMMOTH MAMMOTH (Kreuzung)
MAMMOTH MAMMOTH Kreuzung (Napalm Records, 2019)
Play it loud...
Dall' Australia, da sempre terra lontana di buon rock'n'roll, arrivano i Mammoth Mammoth, una decina d'anni di carriera e sei album alle spalle.
Perché quando ti assale quella voglia di rock'n'roll puro, goliardico e ignorante (basta leggere i titoli per capire le loro intenzioni: "le nostre influenze sono le nostre esperienze, non scriviamo canzoni su maghi, unicorni o alieni sexy" dicono) i MAMMOTH MAMMOTH da Melbourne sono dei buoni mestieranti del genere in grado di sfamare gli affamati che dal rock pretendono solo sudore, energia e divertimento.
La band capitanata dal cantante e chitarrista Mickey Tucker si lascia alle spalle la scorza più pesante del suono di inizio carriera, spesso etichettato sotto la voce stoner (loro hanno sempre preferito la parola rock anche se la pesantezza è quella di sempre, ascoltare 'Tear It Down') per suonare ancora più diretti e veloci come già anticipato dal precedente disco Mount The Mountain uscito nel 2017, primo per l'etichetta Napalm Records.
Se in 'Wanted Man' sembrano palesamente omaggiare i conterranei Ac Dc, e in 'Lead Boots' cercano vie più melodiche, soprattutto nel cantato, nelle restanti canzoni si lanciano a rotta di collo su un hard rock'n'roll pesante e dal tiro icidiale ('I'm Ready', 'Motherf@cker') giocando sullo stesso campo dei Motorhead e seguendo la strada degli Orange Goblin della seconda metà di carriera. L'album lo intitolano in tedesco (Kreuzung significa incrocio) omaggiando il paese che più di tutti li ha adottati: a Berlino hanno registrato il disco, in Germania le date più numerose dei loro tour.
Play it loud...
Dall' Australia, da sempre terra lontana di buon rock'n'roll, arrivano i Mammoth Mammoth, una decina d'anni di carriera e sei album alle spalle.
Perché quando ti assale quella voglia di rock'n'roll puro, goliardico e ignorante (basta leggere i titoli per capire le loro intenzioni: "le nostre influenze sono le nostre esperienze, non scriviamo canzoni su maghi, unicorni o alieni sexy" dicono) i MAMMOTH MAMMOTH da Melbourne sono dei buoni mestieranti del genere in grado di sfamare gli affamati che dal rock pretendono solo sudore, energia e divertimento.
La band capitanata dal cantante e chitarrista Mickey Tucker si lascia alle spalle la scorza più pesante del suono di inizio carriera, spesso etichettato sotto la voce stoner (loro hanno sempre preferito la parola rock anche se la pesantezza è quella di sempre, ascoltare 'Tear It Down') per suonare ancora più diretti e veloci come già anticipato dal precedente disco Mount The Mountain uscito nel 2017, primo per l'etichetta Napalm Records.
Se in 'Wanted Man' sembrano palesamente omaggiare i conterranei Ac Dc, e in 'Lead Boots' cercano vie più melodiche, soprattutto nel cantato, nelle restanti canzoni si lanciano a rotta di collo su un hard rock'n'roll pesante e dal tiro icidiale ('I'm Ready', 'Motherf@cker') giocando sullo stesso campo dei Motorhead e seguendo la strada degli Orange Goblin della seconda metà di carriera. L'album lo intitolano in tedesco (Kreuzung significa incrocio) omaggiando il paese che più di tutti li ha adottati: a Berlino hanno registrato il disco, in Germania le date più numerose dei loro tour.
martedì 3 dicembre 2019
RECENSIONE: NICHOLAS DAVID (Yesterday's Gone)
NICHOLAS DAVID - Yesterday's Gone (2019)
Dopo Jonathan Long, bella scoperta dell'anno scorso ( naturalmente presente la sua chitarra ospite anche in questo disco) Samantha Fish si dimostra, oltre che grande musicista, anche una buona talent scout, reclutando sotto la sua etichetta discografica un altro pezzo da novanta. O almeno con tutti i numeri per diventarlo.
"L' ho vista come se fosse un'opportunità per crescere. Mi sento così felice che sia successo. È stato bello e divertente" dice Nicholas David.
Samantha Fish gli risponde:"Nicholas è un cantautore e musicista di eccezionale talento. Sa cosa vuole e quando lavora in studio è pieno di idee e ispirazione". Sembrano tutti contenti.
Nicholas David non è più giovanissimo (quasi 40 anni per lui, una moglie e due figli) ma alle spalle ha già parecchi dischi e vanta pure un buon piazzamento al talent show americano The Voice, a cui partecipò nel 2012 suo malgrado, iscritto per scherzo da un amico, e almeno vent'anni di dura gavetta come musicista suonando le tastiere, girando in tour anche in compagnia di Devon Allman e Duane Betts. Quest'ultimo lascia l'impronta della sua chitarra lungo le undici tracce del disco. Autodidatta, nato in Minnesota, fisico imponente e vestiario che può riportare alla mente Dr John, le sue canzoni seguono le strade dettate dai tasti del pianoforte e dalla sua voce, elemento distintivo, profonda, blues e segnante. A tratti si intravede Leon Russell, a volte Elton John.
Canzoni dirette verso il southern soul ('Heavy Heart'), che toccano il R&B ('Okay') senza disdegnare qualche puntata nel jazz (''Peel Back The Leaves'), nel rock ('Hole In The Bottom', 'Curious') e nel funky ('I' m Interested').
Ballate melodiche, cariche di sentimento (la beatlesiana 'With Or Without') a cui sembra mancare solamente un pizzico di grinta in più. Ma a uno che mette sul piatto pezzi come 'Stars' e 'Times Turning' cosa puoi dire?
Quando era ancora un ragazzino, suo nonno, che fu il primo ad avvicinarlo alla musica, in punto di morte si rivolse alla moglie dicendo: "di a Nick di continuare a suonare". Nicholas non solo ha continuato a suonare ma con questo disco esce allo scoperto prenotando un posto tra i migliori talenti dell'anno.
Il nonno ne sarebbe fiero.
Dopo Jonathan Long, bella scoperta dell'anno scorso ( naturalmente presente la sua chitarra ospite anche in questo disco) Samantha Fish si dimostra, oltre che grande musicista, anche una buona talent scout, reclutando sotto la sua etichetta discografica un altro pezzo da novanta. O almeno con tutti i numeri per diventarlo.
"L' ho vista come se fosse un'opportunità per crescere. Mi sento così felice che sia successo. È stato bello e divertente" dice Nicholas David.
Samantha Fish gli risponde:"Nicholas è un cantautore e musicista di eccezionale talento. Sa cosa vuole e quando lavora in studio è pieno di idee e ispirazione". Sembrano tutti contenti.
Nicholas David non è più giovanissimo (quasi 40 anni per lui, una moglie e due figli) ma alle spalle ha già parecchi dischi e vanta pure un buon piazzamento al talent show americano The Voice, a cui partecipò nel 2012 suo malgrado, iscritto per scherzo da un amico, e almeno vent'anni di dura gavetta come musicista suonando le tastiere, girando in tour anche in compagnia di Devon Allman e Duane Betts. Quest'ultimo lascia l'impronta della sua chitarra lungo le undici tracce del disco. Autodidatta, nato in Minnesota, fisico imponente e vestiario che può riportare alla mente Dr John, le sue canzoni seguono le strade dettate dai tasti del pianoforte e dalla sua voce, elemento distintivo, profonda, blues e segnante. A tratti si intravede Leon Russell, a volte Elton John.
Canzoni dirette verso il southern soul ('Heavy Heart'), che toccano il R&B ('Okay') senza disdegnare qualche puntata nel jazz (''Peel Back The Leaves'), nel rock ('Hole In The Bottom', 'Curious') e nel funky ('I' m Interested').
Ballate melodiche, cariche di sentimento (la beatlesiana 'With Or Without') a cui sembra mancare solamente un pizzico di grinta in più. Ma a uno che mette sul piatto pezzi come 'Stars' e 'Times Turning' cosa puoi dire?
Quando era ancora un ragazzino, suo nonno, che fu il primo ad avvicinarlo alla musica, in punto di morte si rivolse alla moglie dicendo: "di a Nick di continuare a suonare". Nicholas non solo ha continuato a suonare ma con questo disco esce allo scoperto prenotando un posto tra i migliori talenti dell'anno.
Il nonno ne sarebbe fiero.
giovedì 28 novembre 2019
An Evening With MANUEL AGNELLI feat. Rodrigo D'Erasmo live @Teatro Display, Brescia, 23 Novembre 2019
An Evening With MANUEL AGNELLI feat. Rodrigo D'Erasmo live @Teatro Display, Brescia, 23
Novembre 2019
metti una serata con Manuel Agnelli
Più di trenta anni di carriera sulle spalle e spesso sento parlare di lui in tv ancora come “nuova musica italiana”. Ha scritto almeno uno degli album fondamentali del rock alternativo italiano, volenti o nolenti, sfido chiunque a ripetere un album di quella intensità (anni novanta ma anche di sempre: Hai Paura Del Buio?), anche se credo che la discografia degli Afterhours almeno fino a Ballate Per Piccole Iene non abbia punti deboli.
Ha suonato negli States accompagnando gente come Greg Dulli e Mark Lanegan ottenendo il loro rispetto (e non è il solito rocker pecoreccio che fuori dai confini italiani non conta nulla), va in TV in un canale di stato a fare cover di Springsteen, Van Morrison, Jackson Browne/Nico, Lou Reed, Nick Drake, Beatles, Radiohead, Pixies, Suicide e qualcuno riesce ancora a trattarlo come l’ultimo arrivato. Lo so che ci siete, vi ho letto qualche tempo fa quando in TV c'era il suo programma Ossigeno.
Passa spesso per antipatico, forse perché è un artista determinato e con una forte personalità, viscerale, che fa scelte, che si sbatte per la musica mettendoci la faccia. Che sia mettere in piede un festival come il Tora! Tora! (ricordate?) o fare il giudice a X Factor.
Uno che divide: o lo ami o lo odi. Però non si può riconoscergli o fare finta di nulla davanti alla sua importanza nel rock italiano degli anni 90, 2000.
Ora sta portando in giro questo spettacolo (An Evening With Manuel Agnelli) intimo, caldo, avvolgente e coinvolgente, fatto di tante canzoni ma anche di poesia, letteratura, aneddoti, accompagnato sul palco dal solo Rodrigo D'Erasmo e da un semplice quando accattivante gioco di luci.
Agnelli sfodera la sua potenza vocale, mai così in luce e in primo piano, il suo bagaglio musicale e il suo essere musicista a tutto tondo: dalle sue canzoni ai Joy Division, da una 'Lost in The Flood' che nemmeno più Springsteen fa così al pianoforte, a un "tributo" a Nick Cave con una toccante 'Skeleton Tree', 'Berlin' di Lou Reed (seguita dai ricordi delle sue disavventure giovanili in Germania) , 'True Love Will Find You In The End' omaggio a Daniel Johnston, passando da Battisti a Lana Del Rey (captata dagli ascolti della figlia). Pochi saprebbero affrontare certi repertori così vari, uscendone vincenti.
E non meno importante: esce la sua simpatia che tocca l'apice nell'aneddoto sul viaggio con Emidio Clementi in India. Già, proprio così.
Se amate la musica è uno spettacolo assolutamente da non perdere (una delle cose più belle viste quest'anno) e forse chissà: se siete tra coloro che non lo hanno mai sopportato potreste anche cambiare la vostra visuale. Non è forse questo il bello della musica? Sorprendere.
mercoledì 27 novembre 2019
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 81: MAMA'S PRIDE (Mama's Pride)
MAMA’S PRIDE-Mama’s Pride (1975)
I figli di Saint Louis
Si potrebbe partire dal famigerato terzo disco (il secondo fu Uptown & Lowdown, 1977) che avrebbe potuto svoltare la loro carriera: Ronnie Van Zant si era impegnato nel prendere sotto le sue ali protettrici la band di Saint Louis e produrre l' album. Purtroppo in quel 1977 non vi fu tempo e le ali del fato, trasformate in ali d'aereo, portarono il cantante dei Lynyrd Skynyrd in ben altri posti, chissà dove. I Mama’s Pride si bloccarono, il disco non vide mai la luce e fu anche la loro prematura fine, avvenuta con lo scioglimento nel 1982. La storia riprese negli anni novanta quando il terzo disco della carriera arrivò ma i tempi erano veramente diversi. E dire che tutto iniziò nel migliore dei modi per la band dei fratelli Pat e Danny Liston che scelsero proprio di omaggiare loro madre nel nome da dare al gruppo, ex cantante country e western negli anni 30, piazzandola anche in una copertina quasi rassicurante, “una chioccia intorno ai suoi ragazzi”, salvo ribaltare le cose nel retro, carico dei tipici eccessi e stereotipi della vita rock’n’roll che alla fine finirono veramente per inghiottirli.
Situazione che rispecchia anche la loro musica: devota al verbo sudista dei padri Allman Brothers (‘’Who Do You Think You’re Foolin’) ma capace anche di improvvisi e saettanti scatti soul boogie (‘Missouri Sky Line’). “Eravamo ragazzi di South St. Louis. Mio fratello ed io siamo stati cresciuti da una madre single. All'improvviso, siamo passati dal nulla a enormi dimore e limousine e tutto era a nostra disposizione. Voglio dire, dovevi stare attento a ciò che chiedevi, perché sarebbe successo” racconta un Danny Liston ora più che mai rifugiato tra le mani di Dio, ma che ai tempi cadde con facilità nell’alcolismo “l'unica volta che ero felice era quando stavo suonando. Ma, ricordo l'ultima canzone del set, solo perché volevo che non finisse mai perché so che sarebbe successo - nel momento in cui la canzone sarebbe finita e nel momento in cui sarei uscito da questo palco, la depressione mi avrebbe colto”. Ottenuto un buon contratto con la Acto, etichetta satellite della Atlantic, e la produzione di Arif Mardin, uno con già dei Grammy in tasca, i Mama’s Pride racchiudono nelle nove canzoni tutto il meglio e i difetti del southern rock. Citano gli Allman Brothers nella voglia di allungare e jammare, i Marshall Tucker Band nelle canzoni più epiche, articolate e cangianti, la melodia dei Doobie Brothers in ‘Blue Mist’, gli Outlaws quando si adagiano sicuri sui verdi campi del country (la ballata acustica ‘Laurie Ann’). Un disco che avrebbe meritato più fortuna, comunque trainato dal buon successo di ‘In The Morning’, rispetto a quell'aurea da band da seconda fila del southern rock americano che i Mama’s Pride si trascinano dietro ancora oggi. Ma se tutti i generi hanno bisogno anche delle seconde file per rinforzarsi, i Mama’s Pride fanno la loro bella (davanti) e sporca figura dietro (girate la copertina). Ogni tanto i fratelli Liston, ancora oggi, si riuniscono per ricordare le cose più belle di quella brevissima stagione.
I figli di Saint Louis
Si potrebbe partire dal famigerato terzo disco (il secondo fu Uptown & Lowdown, 1977) che avrebbe potuto svoltare la loro carriera: Ronnie Van Zant si era impegnato nel prendere sotto le sue ali protettrici la band di Saint Louis e produrre l' album. Purtroppo in quel 1977 non vi fu tempo e le ali del fato, trasformate in ali d'aereo, portarono il cantante dei Lynyrd Skynyrd in ben altri posti, chissà dove. I Mama’s Pride si bloccarono, il disco non vide mai la luce e fu anche la loro prematura fine, avvenuta con lo scioglimento nel 1982. La storia riprese negli anni novanta quando il terzo disco della carriera arrivò ma i tempi erano veramente diversi. E dire che tutto iniziò nel migliore dei modi per la band dei fratelli Pat e Danny Liston che scelsero proprio di omaggiare loro madre nel nome da dare al gruppo, ex cantante country e western negli anni 30, piazzandola anche in una copertina quasi rassicurante, “una chioccia intorno ai suoi ragazzi”, salvo ribaltare le cose nel retro, carico dei tipici eccessi e stereotipi della vita rock’n’roll che alla fine finirono veramente per inghiottirli.
Situazione che rispecchia anche la loro musica: devota al verbo sudista dei padri Allman Brothers (‘’Who Do You Think You’re Foolin’) ma capace anche di improvvisi e saettanti scatti soul boogie (‘Missouri Sky Line’). “Eravamo ragazzi di South St. Louis. Mio fratello ed io siamo stati cresciuti da una madre single. All'improvviso, siamo passati dal nulla a enormi dimore e limousine e tutto era a nostra disposizione. Voglio dire, dovevi stare attento a ciò che chiedevi, perché sarebbe successo” racconta un Danny Liston ora più che mai rifugiato tra le mani di Dio, ma che ai tempi cadde con facilità nell’alcolismo “l'unica volta che ero felice era quando stavo suonando. Ma, ricordo l'ultima canzone del set, solo perché volevo che non finisse mai perché so che sarebbe successo - nel momento in cui la canzone sarebbe finita e nel momento in cui sarei uscito da questo palco, la depressione mi avrebbe colto”. Ottenuto un buon contratto con la Acto, etichetta satellite della Atlantic, e la produzione di Arif Mardin, uno con già dei Grammy in tasca, i Mama’s Pride racchiudono nelle nove canzoni tutto il meglio e i difetti del southern rock. Citano gli Allman Brothers nella voglia di allungare e jammare, i Marshall Tucker Band nelle canzoni più epiche, articolate e cangianti, la melodia dei Doobie Brothers in ‘Blue Mist’, gli Outlaws quando si adagiano sicuri sui verdi campi del country (la ballata acustica ‘Laurie Ann’). Un disco che avrebbe meritato più fortuna, comunque trainato dal buon successo di ‘In The Morning’, rispetto a quell'aurea da band da seconda fila del southern rock americano che i Mama’s Pride si trascinano dietro ancora oggi. Ma se tutti i generi hanno bisogno anche delle seconde file per rinforzarsi, i Mama’s Pride fanno la loro bella (davanti) e sporca figura dietro (girate la copertina). Ogni tanto i fratelli Liston, ancora oggi, si riuniscono per ricordare le cose più belle di quella brevissima stagione.
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