domenica 31 luglio 2022

RECENSIONE: JACK WHITE (Entering Heaven Alive)

 

JACK WHITE  Entering Heaven Alive (Third Man Records, 2022)

hit the road Jack

Esistono tanti Jack White, o forse solo due tanto differenti con molte sfumature intorno. O ancora solo uno a cui piace giocare così tanto con la musica da spiazzare ad ogni occasione. 

Fatto sta che quest'anno ha deciso di separarsi veramemte in due e consegnarci la sua arte in due dischi ben distinti. Diversi. Molto diversi. Pochi mesi fa uscì Fear Of The Dawn, dove il lato più bizzarro e modernista si impossessava delle canzoni fino quasi a renderle delle non canzoni. Elettrico, rumoroso, confuso, onanista all'inverosimile e  spiazzante. Forse troppo di tutto. Ora a qualche mese di distanza ci regala il lato easy, vintage, caldo e classico della sua arte, fatto di canzoni semi acustiche ma ricche di strumenti, quasi sempre suonati da lui stesso. Un disco dall'accento quasi pop, confidenziale dove l'amore in tutte le sue forme regna sovrano soprattutto quello di White per i grandi classici del rock come gli Stones ('A Tip From You To Me' potrebbe essere una classica ballata di Jagger e soci di metà anni settanta), i sixties ('Help Me Along' dedicata alla figlia Scarlett, con i suoi crescendo di archi è una deliziosa canzone pop che unisce Paul McCartney ai Kinks), gli amati Led Zeppelin (la bucolica 'Love Is Selfish').

Atmosfere calde, vere, analogiche dove il superbo trip primitivo di 'I've Got You Surrounded (With My Love)', con una meravigliosa chitarra che si manifesta impetuosa su un tappeto jazz, convive con la notturna e waitsiana 'Queen Of The Bees' dedicata alla moglie Olivia Jean. Le ballate imperversano ma proponendosi sempre in modo diverso grazie all'aggiunta di diversi colpi di genio:  'If I Die Tomorrow' conquista al primo ascolto,  'Please God, Don't Tell Anyone' sprigiona folk,  'Madman From Manhattan' gioca di swing in modo gentile, 'Taking Me Back (Gently)' riprende la canzone che apriva il precedente disco, trasformandola però in un travolgente swing country che chiude un disco sorprendente riconsegnandoci un Jack White in forma smagliante. A questo punto quale sia dei tanti White poco importa. La libertà regna sovrana.






martedì 26 luglio 2022

RECENSIONE: JOHN DOE (Fables In A Foreign Land)

 

JOHN DOE  Fables In A Foreign Land (Fat Possum Records, 2022)



il fattore X

John Doe difficilmente ha sbagliato un disco negli ultimi tempi, sia quando ha dettato le cordinate degli X, sia quando ha vestito i panni del cantastorie in versione solista. E non c'è bisogno di andare troppo indietro nel tempo, il ritorno della band nel 2020 con Alphabetland era un buon disco, cosa non scontata per dei ritorni, l'ultimo solista The Westerner uscito sei anni fa fu una delle migliori uscite cantautorali del 2016 . E pure Fables In A Foreign Land si gioca le sue degne carte: nell'idea di fondo nei testi delle canzoni, ambientati tutti negli anni novanta del 1800 creando un parallelismo di perdite e desolazione con i due recenti anni di lockdown, "c'è molto da dormire per terra, molta fame, molto isolamento. Tutto ciò si inserisce nel tipo di isolamento e mancanza di stimoli moderni  che le persone penso abbiano iniziato a riscoprire durante il blocco della pandemia" racconta Doe, nei suoni minimali su cui l'album si tiene benissimo in piedi, la sua forza, grazie all'aiuto del bassista Kevin Smith e del batterista Conrad Choucroun, sulle canzoni oggettivamente tutte belle. Difficile trovare pecche in questi tredici brani d'impalcatura folk (l'iniziale 'Never Coming Back'), dove il violino seduce in 'Down South', che scivolano nel tex mex (la fisarmonica in 'Guilty Bystander'), che cavalcano l'epopea Western ('The Cowboy And The Hot Air Balloon'), in fondo il protagonista principale di tutto l'album è un cowboy errante, o a sostenuto ritmo Hillbilly ('Travellin So Hard). Collaborano Terry Allen, Louie Perez (Los Lobos), la compagna di mille battaglie Exene Cervenka e Shirley Manson (Garbage).

Parlando ancora del periodo pre industriale nel quale sono ambientate le canzoni, John Doe dice: "dovevi lottare per sbarcare il lunario, tenere un tetto sopra la testa e tenere il cibo in tavola". Apro il giornale, lo sfoglio e quello che che ci trovo sono queste cose.

Un disco dai messaggi attuali con vecchi suoni folk intorno.





domenica 17 luglio 2022

RECENSIONE: THE SHEEPDOGS (Outta Sight)

 

THE SHEEPDOGS   Outta Sight (Dine Alone/Warner2022)



un disco per l'estate

Con una copertina da cestino di vinili usati rigorosamente anni settanta, quelli a pochi euro con la copertina rovinata perché graffiata dalle unghie del gatto e con il segno di un bicchiere bagnato lasciato per troppo tempo sopra al cartone, sì insomma quelli che non si fila nessuno ma che sicuramente mi sarei portato a casa io, i canadesi Sheepdogs si riaffacciano al mondo dopo la pandemia con il loro settimo disco, il più marcatamente divertito, divertente e spensierato della loro carriera. "Una zattera di salvataggio" come loro stessi l'hanno definito, perché li ha salvati dalle loro ansie. Un po' anche nostre. E quella copertina così colorata, un mix daltonico tra cosmic country, pop rock e febbre del sabato sera, oppure da sigla di telefilm seventies,  sembra confermare il carattere delle canzoni.

Quando anni fa la rivista americana Rolling Stone regalò loro la copertina, Patrick Carney dei Black Keys si adoperò per produrre il loro album omonimo e la Atlantic li mise sotto contratto, la band sembrò per un attimo lanciata verso la notorietà mondiale. Niente di tutto questo naturalmente, ma la band guidata da Ewan Currie rimane una delle più credibili realtà in circolazione a masticare suoni, mood ed estetica anni settanta, risputando fuori tutto in modo credibile e pure originale con tour e live che ne misurano la temperatura a intervalli più che regolari.

Non ci sono barriere o confini nella loro musica, l'importante è suonare rock’n’roll, puro, diretto e senza troppe menate: puoi sentirci i Thin Lizzy nelle chitarre di 'Find The Truth', il fantasma di J.J.Cale sembra apparire  in 'So Far Gone' con tanto di batteria elettronica proprio come piaceva all'artista di Tulsa, il boogie glam nell'aperura 'Here I Am', i primi Kiss che amareggiano con i Doobie Brothers in I Wanna Know You'.

Ma è naturalmente il southern rock a dominare la scena: in 'Scarborough Street Fight', nell'assalto alla Lynyrd Skynyrd di 'Gooddamn Money', nei cori in stile Outlaws di 'Carrying On', nel soul intinto di psichedelia di 'Don't I', e nella rutilante jam finale 'Roughrider '89' che accelera nell'honky tonk mettendo in fila le loro capacità strumentali.

"Con il rock 'n' roll ci tiriamo su il morale" dice Ewan Currie. E non è mai stato così bello e facile farsi contagiare. Questa estate così torrida, poi, aiuta queste canzoni.






sabato 9 luglio 2022

RECENSIONE: NEIL YOUNG with CRAZY HORSE (Toast)

NEIL YOUNG with CRAZY HORSE   Toast (Reprise, 2001/2022)


facciamo colazione (anche) con un toast del resto

Quando Toast venne registrato, l'undici Settembre sembrava ancora la fantasiosa bozza per la sceneggiatura di un film di fantascienza. Eppure mancavano veramente pochi mesi all'avvenimento che ancora oggi  considero l'inizio di tutto quello che stiamo vivendo in questi ultimi anni. Un avvertimento. L'inizio di qualcosa che andrà sempre più peggiorando. Ma in quelle ultime settimane del 2000 e prime del 2001 quando Neil Young chiama a sé i fidati Crazy Horse (Billy Talbot, Poncho Sampedro e Ralph Molina) nessuno poteva immaginare il futuro. Si chiudono nei Toast Studios di San Francisco ("un vecchio studio a SoMa, un bel quartiere di artisti che stava per essere sopraffatto dai loft e dai nuovi palazzi generati dal boom del puntocom, la bolla dell'era digitale" racconterà su Special Deluxe) e registrano una manciata di canzoni che dovranno confluire in un album chiamato appunto Toast che lo stesso Young anticipò pure alla stampa. Ma come spesso accade Neil Young è vittima di mille ripensamenti, dubbi, incertezze. Le versioni grezze, rockeggianti ma anche l'atmosfera "umorale e jazzata" che animano le canzoni sembrano non andare bene con l'idea che ha in testa. A detta del canadese suonavano "troppo deprimenti" e si respirava un senso di "precarietà" che coinvolgeva "persino i Crazy Horse". "In studio non andava bene, nonostante i momenti grandiosi e intensi la musica non era felice e neanche ben definita" racconterà sempre su Special Deluxe. Neil Young e i Crazy Horse decidono di fermare le registrazioni e partire per un tour in Sud America.

Al ritorno, continuano le registrazioni ma alla fine si arrendono :" era un album desolato, molto triste, senza risposte. Penso abbiate capito che non ho voglia di parlarne". 

Decide di riregistrare alcune canzoni già provate con i Crazy Horse insieme a Booker T.&The Mg's dando loro un'impronta più r&b e soul, perdendo in immediatezza e profondità.

 Intanto il tempo passa, l'undici Settembre arriva lasciando il suo segno e Are You Passionate? esce nei negozi come tutti lo conosciamo. E Toast che fine ha fatto? La lunga, epica cavalcata elettrica 'Goin Home' è l'unica suonata con i Crazy Horse a ricordare quelle prime session di registrazioni. La canzone si stacca notevolmente dal mood dell'intero disco e si sente chiaramente. Da quelle session a San Francisco vengono riprese anche  'Quit', 'How Ya Doin' (che diventerà 'Mr.Disappointment') e 'Boom Boom Boom' (ribattezzata 'She's A Healer') che però subiranno il trattamento di Booker T.


Ora che abbiamo in mano l'intero progetto Toast, possiamo affermare che le sette canzoni avevano un'anima, che lo stesso Young ha spiegato così: "la musica di Toast riguarda le relazioni. C’ è un momento in molte relazioni in cui le cose vanno male, molto prima della rottura vera e propria, quando diventa chiaro per uno dei due, o forse entrambi, che è finita. Questo era quel momento". C'è un velo di solitudine e tristezza che riposa sopra le canzoni, certamente un lascito di una crisi amorosa con la moglie Pegy (tra l'altro presente insieme a Istrid Young in alcuni cori) con la quale si era trasferito a San Francisco, in un appartamento a Green Street.

La tambureggiante 'Goin Home' dentro a Toast non è più una mosca bianca sola come lo era su Are You Passionate? ma è circondata dall'assalto hard garage di 'Standing In The Light Of Love' con l'Old Black che tiene testa ai "cavalli", dai dieci minuti di 'Gateway Of Love', dai tredici di 'Boom Boom Boom', esercizio jammato e jazzato, che ci regala dei Crazy Horse profondi, accompagnati da percussioni, cori femminili, pianoforte e tromba e da una bella, confidenziale e malinconica versione di 'How Ya Doin'.

In conclusione  tra pezzi ripescati su Are You Passionate?, e pezzi già presentati in versione live, l'unico veramente inedito rimane 'Timberline', un rock sferragliante e divertente, dal coro ripetuto infinite volte, un organo a canna sullo sfondo e la storia di "un tizio religioso che ha perso il lavoro. Così si vota a Gesù. Non può più tagliare alberi. È un taglialegna".

Alla fine la migliore definizione dell'album la da Neil Young tra le pagine di Special Deluxe, dedicando a quel periodo un buon pezzo di capitolo:"il titolo dell'album avrebbe dovuto essere Toast e quello sembrava: un Toast con dentro tanta sostanza. Suonai la chitarra come un vecchio ottone, con un suono enorme, slabbrato, triste. Ralphie, Billy e Poncho gli avevano dato il classico passo funky e potrebbe anche essere un gioiellino. I fantasmi di Coltrane e dei suoi musicisti erano dappertutto in quello studio. Fu un'esperienza spirituale, depressa, quasi fuori".

Un disco certamente per fan accaniti, un po' come tutti gli archivi ma anche un chiaro manifesto della straripante vena artistica di Neil Young, che si perde in vasi sanguigni sempre "troppo" carichi di passione, esuberanza, dubbi, ripensamenti. Vita.





sabato 2 luglio 2022

RECENSIONE: FANTASTIC NEGRITO (White Jesus Black Problems)

 

FANTASTIC NEGRITO  White Jesus Black Problems (Storefront, 2002)


ambizione

Certamente lo sforzo creativo più ambizioso fino ad ora. E chi lo conosce bene sa quanto già in precedenza mister Xavier Dphrepaulezz (un premio a chi lo pronuncia esattamente) uno che alla soglia dei cinquant'anni si reinventò battezzandosi Fantastic Negrito facendo iniziare una carriera dalle basi delle sue tante vite precedenti cariche di complicazioni di ogni sorta, non sia un personaggio inquadrabile con poche parole. E se lo avete visto almeno una volta in concerto sapete anche quanto sia istrionico e includente il suo modo di fare musica: trasformista, predicatore, aizzatore di folle, comico, pensatore, attore impegnato e ballerino. Tutto in uno spettacolo. Ne vale la pena.

Questa volta si spinge indietro nel tempo per concepire un concept dove musica, testi e immagini (ogni canzone sarà accompagnata da un video, formando una sorta di film) viaggiano all'unisono per rafforzare il più possibile il messaggio universale d'amore. Tutto nasce quando in pieno lockdown con tanto tempo a disposizione decide di esplorare le sue origini, scoprendo che i suoi antenati di settima generazione, siamo nel 1750 in Virginia, furono una serva bianca di origini scozzesi e uno schiavo nero. I due contro ogni logica e legge dell'epoca si amarono.

"Le persone ascoltano il titolo dell’album e sono pronte a sfoggiare giacche militanti, ma questo è un disco sull’amore e sulla ricerca di modi per usare il passato come cura per il futuro. Sto sulle spalle dei miei antenati, bianchi e neri, che mi hanno mostrato che tutto è possibile” racconta.

C'è talmente tanta roba in questa storia da scriverne un romanzo che tocca libertà, razzismo, capitalismo, arrivando ai giorni nostri con tante e nessuna risposta. I passi avanti ci sono stati ma i risultati se ci sono sono ancora troppo ben nascosti. E Fantastic Negrito lo fa alla sua maniera  mettendoci dentro un'enorme carico di influenze musicali (partendo sempre dalla black music) dove i Beatles immersi in una cascata di gospel nell'apertura 'Venomous Dogma', il soul ('They Go Low'), il pop sixties ('Nibbadip'), il doo woop a ritmo di  funky ('In My Head'), il rock bianco ('Man With No Name'), le ballate RnB ('You Better Have A Gun'), il funky sporcato di  country ('Trudoo'), il gospel ('Virginia Soil') e il Blues più sperimentale e cosmico ('In My Head') si sporcano, amalgamano e contaminano che è un piacere. 

Suonato come fosse il 1973 con chitarre, basso e batteria con interventi di Moog, banjo e un vecchio organo transistor Yamaha, Fantastic Negrito racchiude in sole tredici tracce una buona parte degli ultimi cinquant'anni di musica e tre secoli di storia americana. Il tutto con disarmante semplicità. Bello sapere che nel 2022 c'è ancora chi fa uscire dischi con belle e "pesanti" storie dietro.