JOHN GORKA Bright Side Of Down (Red House Records/IRD, 2014)
John Gorka è uno dei migliori impressionisti folk dell'America d'oggi. Un songwriter dall'andatura sempre prudente. Gentile, nostalgico, intimo, raffinato e meticoloso che non ha mai messo fretta alla sua vena compositiva, un coerente, uno che si trova bene ai margini, davanti alla vetrata di un diner a tarda sera ad osservare, riflettere e contemplare dopo una giornata di lunghi spostamenti, dopo aver visto paesaggi, neve, sole, uomini, donne e colori. Bright Side Of Down è il suo dodicesimo disco in carriera e non sfugge alle caratteristiche dei predecessori: voce calda e rassicurante, tenui impianti acustici, semplici arrangiamenti ad accompagnare liriche di vissuto (le vere protagoniste nella sua musica) nate sulla strada, cresciute con la spada del tempo puntata, seguendo gli umori e i colori dettati dalle stagioni. Si parte dallo spigoloso inverno, si arriva alla tenue primavera (Really Spring), dalla morte delle speranze alla rinnovata rinascita. "Penso che questa nuova raccolta di canzoni possa aiutare il corpo ad attraversare il freddo per arrivare alla primavera". "Ogni primavera è una vittoria quando gli inverni sono così freddi" canta in Thirstier Wind.
Il suo vissuto nel freddo Minnesota questa volta è stato ancora più determinante per creare l'intimità folk delle undici canzoni che non hanno la pretesa di farci fare un sussulto ma chiedono solamente di essere ascoltate, comprese, lette nei tanti dettagli lasciati dall'autore.
Saggi di vita per sola voce e chitarra (Don't Judge A Life) raccontati in prima persona (Outnumbered), positività quotidiana trainata dal violino (Mind To Think), corti e spensierati inni d'amore scritti per la figlia (Honeybee), la solarità contagiante di More Than One, l'aiuto di fidati amici (Eliza Gilkyson-appena uscito anche il suo The Nocturne Diaries- , Lucy Kaplansky in Bright Side Of Down, Claudia Schmidt in Procrastination Blues), la rilettura di She's That Kind Of Mystery di Bill Morrissey (un altro amico scomparso solo tre anni fa) fanno da contorno ai pensieri più profondi e attuali di High Horse ma soprattutto ai colpi di spazzola e fisarmonica che introducono Holed Up Mason City, canzone che da il via a tutto, narrandoci di un Gorka in balia di una bufera di neve nella città di Mason City, nello Iowa, tristemente famosa per essere stata la città da dove partì l'ultimo volo aereo che condusse Big Popper, Buddy Holly e Richie Valens verso il paradiso del rock'n'roll. Canzone che diventa pretesto per riflessioni e visioni: "At the Big Bopper Diner there's bunch of stranded refugees/ And nobody's talking or looking very eager to please/ In a booth I saw Buddy Holly's ghost, writing to the girl he loved the most/ Holed up in Mason City, the future isn't ready tonight".
Se la coerenza in musica molto spesso viene scambiata per ripetitività, fino a diventare un difetto, nel suo caso è un sigillo al valore. Chi lo segue fin dall'esordio I Know (1987) vuole questo. Un disco rassicurante e sincero, specchio dell' autore, solo per questo vero e meritevole di un ascolto.
vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST-Warsaw Holiday (2013)
vedi anche RECENSIONE: JONO MANSON-Angels On The Other Side (2014)
vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH-Out Among The Stars (2014)
lunedì 31 marzo 2014
lunedì 24 marzo 2014
RECENSIONE: JOHNNY CASH (Out Among The Stars)
JOHNNY CASH Out Among The Stars (Columbia/Legacy, 2014)
L'uomo in nero sbiadito che si presenta agli albori degli anni ottanta è un Johnny Cash che stava precipitando ancora in disgrazia: inciampa nuovamente nelle rovine della bulimica dipendenza da sostanze chimiche, confermando che tra gli inarrivabili alti vi erano ancora i tanti profondi abissi che lo accompagnarono lungo tutta la carriera, tanto che la famiglia lo convinse persino al ricovero presso la clinica di riabilitazione Betty Ford Center a cavallo tra il 1983 e il 1984. Lui ne uscì quasi rinato. Non solo, l'allontanamento di Marshall Grant, da trent'anni fedele compagno musicale come bassista nei Tennessee Three, lascerà tanti strascichi personali ma anche legali. In più: i tanti problemi fisici che il suo corpo deve sopportare-incidenti vari, ricoveri e operazioni sembrano diventare routine quasi giornaliera nella sua vita- e non ultima una scampata rapina nel 1981 dipingono nell'insieme un quadro non propriamente esaltante attorno ad un uomo che dietro gli abiti neri pareva nascondere nefaste striature che solo la sua smisurata fede in Dio riusciva a raddrizzare, mitigare e spiegare.
Nonostante tutto, alcuni dischi dell'epoca come Silver (1979), Rockabilly Blues (1980), e soprattutto Johnny 99 (1983), un primo vero anticipo delle American Recordings che arriveranno dieci anni dopo e costruito frugando tra il bianco e il nero contenuti in Nebraska di Bruce Springsteen, sono piccole perle degne dei tempi migliori, quanto meno il segnale che l'allora cinquantenne artista era ancora vivo e vegeto (gli occhi della morte, in quegli anni, lo avevano puntato più volte). Quello che mancò veramente fu il grande pubblico. Johnny Cash non era più l'eroe di vent'anni prima, la casa discografica sembrava averlo abbondonato al suo destino con poco rispetto, le sue trasmissioni televisive non avevano più i numeri di un tempo, MTV stava prendendo le sembianze di un uragano spazza tutto (pure Cash ci cascò nel terribile ma ironico video di Chicken In Black del 1984), altri personaggi, altri suoni e altra musica catalizzavano l'attenzione, e nemmeno l'unione delle forze fra vecchi "eroi" e "sopravvissuti" riuscì nell'intento di riportare in auge certe sonorità e antichi fuorilegge: prima, nel 1981 con i concerti insieme a Jerry Lee Lewis e Carl Perkins che diventeranno un disco, poi il più riuscito progetto Highwaymen con Willie Nelson, Waylon Jennings e Kris Kristofferson nel 1985, che fu bissato qualche anno dopo e molto probabilmente sarà triplicato prossimamente, stando alle voci (naturalmente senza le insostituibili pedine Cash e Jennings, ma con un Merle Haggard della partita) .
Il ritrovamento di questo "disco perduto" per mano del figlio John Carter Cash, ci dimostra quanto, a undici anni dalla morte, la musica di Jonny Cash riesca ancora a catalizzare l'attenzione, accendere gli animi e far sanguinare i cuori. Sembra l'uscita di un artista ancora in vita. Altro che anni ottanta. Le dodici canzoni furono registrate tra il 1981 (solo due escono dalle session del deludente The Baron negli studi Columbia) e il 1984-la maggioranza con un Cash ripulito e brillante- lavorato insieme al produttore Billy Sherrill, e musicisti quali l'allora giovanissimo Marty Stuart (alla chitarra e al mandolino), Jerry Kennedy (chitarra), Pete Drake (steel guitar), Hargus "Pig" Robbins, Bobby Wood (pianoforte), Kenny Malone (batteria), Terry McMillan (armonica) e Henry Strzelecki (basso), a cui è stata aggiunta una pennellata di moderna post produzione da parte di Steve Berkowitz che ha visto coinvolti in studio lo stesso Marty Stuart, il grande Buddy Miller, Jerry Douglas, Laura Cash, Carlene Carter e molti altri. Canzoni che vanno a tappare un piccolo buco della sua carriera artistica, dimostrando quanto i brani che all'epoca furono messi in stand-by e dimenticati chissà dove dopo la brutta rottura con l'etichetta Columbia avvenuta dopo trent'anni di collaborazione, ora, nell'anno 2014, sono una benedizione dal cielo. Indispensabili per riconnetterci con il personaggio-anche un po' influenzati dall'effetto nostalgico e di deja vu in cui ci fanno cadere, ammettiamolo-e ridare una nuova pennellata di nero ai suoi abiti.
Pur se l'inconfondibile imprinting dato all'epoca dal produttore Billy Sherrill è ancora percettibile, nonostante sia stato anche smussato in post-produzione, in queste dodici canzoni, (tutte riletture tranne due autografe) c'è tutto l'universo di Cash. Il classic country di Out Among The Stars, Tennessee, la sua Call Your Mother, il talkin' che cresce If I Told You Who It Was con un cameo dell'attrice Minnie Pearl; i celeberrimi duetti con l'adorata moglie June Carter nella veloce, rutilante e riuscitissima Baby Ride Easy di Richard Dobsone e in Don't You Think our Time Will Come; c'è il Johnny Cash esistenzialista e solitario vicino alle American Recodings di Rick Rubin in She Used To Love Me A Lot (già incisa dal suo autore David Allan Coe), anche se sembra di averla ascoltata mille volte all'interno della sua sconfinata discografia, la profonda voce arriva diritta al cuore con tutta la forza per diventare un nuovo classico da ricordare, la canzone è pure uscita come singolo in vinile, presentando, nella facciata B, un remix curato da Elvis Costello; c'è l'indomito animo rock della vecchia Memphis in Rock And Roll Shoes, quello polveroso e da strada in I'm Movin On di Hank Snow, canzone che non ha bisogno di troppe presentazioni se non dire che qui è cantata con l'amico Waylon Jennings e che il solo di chitarra sembra tagliato troppo in fretta nel finale; c'è l'amore, l'immancabile fede e la redenzione in After All e l'atuobiografica I Came To Believe. "Sono arrivato a credere ad un potere molto superiore a me".
Quando escono dischi come questo, ci si chiede spesso: ce n'era bisogno? Sì, è la mia risposta, tanto che le stanche rughe che appaiono nel video di Hurt (2002), una delle ultime testimonianze pubbliche in video di Cash prima di morire, sembrano dissolversi lasciando spazio ad un acciaccato ma ancora baldanzoso cinquantenne di nero vestito. Un nero luccicante.
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE: DEX ROMWEBER DUO-Images 13 (2014)
vedi anche RECENSIONE: LEON RUSSELL-Life Journey (2014)
vedi anche RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER-Long In The Tooth
(2014)
vedi anche RECENSIONE: TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS-Hypnotic Eye (2014)
L'uomo in nero sbiadito che si presenta agli albori degli anni ottanta è un Johnny Cash che stava precipitando ancora in disgrazia: inciampa nuovamente nelle rovine della bulimica dipendenza da sostanze chimiche, confermando che tra gli inarrivabili alti vi erano ancora i tanti profondi abissi che lo accompagnarono lungo tutta la carriera, tanto che la famiglia lo convinse persino al ricovero presso la clinica di riabilitazione Betty Ford Center a cavallo tra il 1983 e il 1984. Lui ne uscì quasi rinato. Non solo, l'allontanamento di Marshall Grant, da trent'anni fedele compagno musicale come bassista nei Tennessee Three, lascerà tanti strascichi personali ma anche legali. In più: i tanti problemi fisici che il suo corpo deve sopportare-incidenti vari, ricoveri e operazioni sembrano diventare routine quasi giornaliera nella sua vita- e non ultima una scampata rapina nel 1981 dipingono nell'insieme un quadro non propriamente esaltante attorno ad un uomo che dietro gli abiti neri pareva nascondere nefaste striature che solo la sua smisurata fede in Dio riusciva a raddrizzare, mitigare e spiegare.
Nonostante tutto, alcuni dischi dell'epoca come Silver (1979), Rockabilly Blues (1980), e soprattutto Johnny 99 (1983), un primo vero anticipo delle American Recordings che arriveranno dieci anni dopo e costruito frugando tra il bianco e il nero contenuti in Nebraska di Bruce Springsteen, sono piccole perle degne dei tempi migliori, quanto meno il segnale che l'allora cinquantenne artista era ancora vivo e vegeto (gli occhi della morte, in quegli anni, lo avevano puntato più volte). Quello che mancò veramente fu il grande pubblico. Johnny Cash non era più l'eroe di vent'anni prima, la casa discografica sembrava averlo abbondonato al suo destino con poco rispetto, le sue trasmissioni televisive non avevano più i numeri di un tempo, MTV stava prendendo le sembianze di un uragano spazza tutto (pure Cash ci cascò nel terribile ma ironico video di Chicken In Black del 1984), altri personaggi, altri suoni e altra musica catalizzavano l'attenzione, e nemmeno l'unione delle forze fra vecchi "eroi" e "sopravvissuti" riuscì nell'intento di riportare in auge certe sonorità e antichi fuorilegge: prima, nel 1981 con i concerti insieme a Jerry Lee Lewis e Carl Perkins che diventeranno un disco, poi il più riuscito progetto Highwaymen con Willie Nelson, Waylon Jennings e Kris Kristofferson nel 1985, che fu bissato qualche anno dopo e molto probabilmente sarà triplicato prossimamente, stando alle voci (naturalmente senza le insostituibili pedine Cash e Jennings, ma con un Merle Haggard della partita) .
Il ritrovamento di questo "disco perduto" per mano del figlio John Carter Cash, ci dimostra quanto, a undici anni dalla morte, la musica di Jonny Cash riesca ancora a catalizzare l'attenzione, accendere gli animi e far sanguinare i cuori. Sembra l'uscita di un artista ancora in vita. Altro che anni ottanta. Le dodici canzoni furono registrate tra il 1981 (solo due escono dalle session del deludente The Baron negli studi Columbia) e il 1984-la maggioranza con un Cash ripulito e brillante- lavorato insieme al produttore Billy Sherrill, e musicisti quali l'allora giovanissimo Marty Stuart (alla chitarra e al mandolino), Jerry Kennedy (chitarra), Pete Drake (steel guitar), Hargus "Pig" Robbins, Bobby Wood (pianoforte), Kenny Malone (batteria), Terry McMillan (armonica) e Henry Strzelecki (basso), a cui è stata aggiunta una pennellata di moderna post produzione da parte di Steve Berkowitz che ha visto coinvolti in studio lo stesso Marty Stuart, il grande Buddy Miller, Jerry Douglas, Laura Cash, Carlene Carter e molti altri. Canzoni che vanno a tappare un piccolo buco della sua carriera artistica, dimostrando quanto i brani che all'epoca furono messi in stand-by e dimenticati chissà dove dopo la brutta rottura con l'etichetta Columbia avvenuta dopo trent'anni di collaborazione, ora, nell'anno 2014, sono una benedizione dal cielo. Indispensabili per riconnetterci con il personaggio-anche un po' influenzati dall'effetto nostalgico e di deja vu in cui ci fanno cadere, ammettiamolo-e ridare una nuova pennellata di nero ai suoi abiti.
Pur se l'inconfondibile imprinting dato all'epoca dal produttore Billy Sherrill è ancora percettibile, nonostante sia stato anche smussato in post-produzione, in queste dodici canzoni, (tutte riletture tranne due autografe) c'è tutto l'universo di Cash. Il classic country di Out Among The Stars, Tennessee, la sua Call Your Mother, il talkin' che cresce If I Told You Who It Was con un cameo dell'attrice Minnie Pearl; i celeberrimi duetti con l'adorata moglie June Carter nella veloce, rutilante e riuscitissima Baby Ride Easy di Richard Dobsone e in Don't You Think our Time Will Come; c'è il Johnny Cash esistenzialista e solitario vicino alle American Recodings di Rick Rubin in She Used To Love Me A Lot (già incisa dal suo autore David Allan Coe), anche se sembra di averla ascoltata mille volte all'interno della sua sconfinata discografia, la profonda voce arriva diritta al cuore con tutta la forza per diventare un nuovo classico da ricordare, la canzone è pure uscita come singolo in vinile, presentando, nella facciata B, un remix curato da Elvis Costello; c'è l'indomito animo rock della vecchia Memphis in Rock And Roll Shoes, quello polveroso e da strada in I'm Movin On di Hank Snow, canzone che non ha bisogno di troppe presentazioni se non dire che qui è cantata con l'amico Waylon Jennings e che il solo di chitarra sembra tagliato troppo in fretta nel finale; c'è l'amore, l'immancabile fede e la redenzione in After All e l'atuobiografica I Came To Believe. "Sono arrivato a credere ad un potere molto superiore a me".
Quando escono dischi come questo, ci si chiede spesso: ce n'era bisogno? Sì, è la mia risposta, tanto che le stanche rughe che appaiono nel video di Hurt (2002), una delle ultime testimonianze pubbliche in video di Cash prima di morire, sembrano dissolversi lasciando spazio ad un acciaccato ma ancora baldanzoso cinquantenne di nero vestito. Un nero luccicante.
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE: DEX ROMWEBER DUO-Images 13 (2014)
vedi anche RECENSIONE: LEON RUSSELL-Life Journey (2014)
vedi anche RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER-Long In The Tooth
(2014)
vedi anche RECENSIONE: TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS-Hypnotic Eye (2014)
mercoledì 19 marzo 2014
RECENSIONE: DEX ROMWEBER DUO (Images 13)
DEX ROMWEBER DUO Images 13 ( Bloodshot Records /IRD, 2014)
Inquietudine. Di quella positiva, se mai esistesse in qualche piega nascosta delle nostre menti. Questo è lo stato in cui mi fa cadere Images 13, terzo lavoro del progetto Dex Romweber Duo e la canzone finale Weird (Aurora Borealis) (scritta da Harry Lubin ed estrapolata dalla colonna sonora di un vecchio show televisivo), è una intima, minimale e inquietante traccia strumentale, quasi tribale nel suo ipnotico incedere, che congeda l'ascoltatore e conferma la mia ansia. Il buio e la luna piena che scorgo dalla finestra amplificano il tutto all'ennesima potenza. Sento ululati sulla collina.
Il chitarrista Dex Romweber è un veterano con carisma da vendere, anche se giovanissimo nei suoi quarantasette anni d'età, di quelli che hanno girato di notte i più malfamati sottoboschi musicali, quelli dove la luna piena entrava dalle finestre di un sottoscala e perforava le menti solo per far danni, quelli dove rockabilly, country e surf scorrevano come rigoli di sangue amaro sopra i palchi e scendevano giù dalle scale che conducevano ai maleodoranti cessi di qualche locale infimo. Uno con una cultura musicale immensa, capace di ripercorrere la storia americana ma anche attraversare l'oceano e approdare in Gran Bretagna: si parte da Eddie Cochran e Johnny Cash, si passa dal sempre dimenticato Link Wray, i Blasters e i Cramps, si arriva a Kinks e Who. E poi, vuoi lasciare fuori l'Australia di Nick Cave?
Uno a cui Jack White e Black Keys dovrebbero erigere un monumento: in verità, White già lo fa, indicandolo come uno dei suoi punti di riferimento musicali. Dex Romweber insieme alla versatile sorella Sara-che siede dietro alla batteria- si è inventato questo duo che ha il maggior pregio nell'approccio secco e minimale alla musica, pur seguendo quanto già fatto con la sua vecchia band Flat Duo Jets, attiva dal 1990 al 1999 e nata sulle ceneri ancora ardenti della scena post-punk di Athens e dedita ad un psycho punk travolgente ed energico che comunque rimane in scaletta, diventando solo una parte dei suoi nuovi orizzonti musicali, costruiti su: abbondanti dosi di garage suonato senza fronzoli, gothic blues, oscuro country'n'roll (Beyond The Moonlight), caldi sipari latineggianti, e sinistri temi surf (la strumentale Blackout! con l'immancabile riverbero della chitarra "alla Dick Dale", anticipata da un altro nero strumentale Prelude In G Minor) che farebbero faville nelle pellicole di Quentin Tarantino (la frizzante-ancora strumentale-Blue Surf).
Difficile non farsi conquistare dalla rocambolesca e ringhiosa apertura (Roll On), riscaldamento per la sua chitarra; dalle atmosfere pop '60 della conosciuta So Sad About Us degli amati e fonte d'ispirazione The Who che vede la partecipazione di Mary Huff alla voce; dalla ballata dark a ritmo di lento valzer in stile '50 di I Don't Want To Listen cantata con voce baritonale da consumato crooner; da We'll Be Togheter Again, altro lento con più luce, composto da Sharon Sheeley, compagna del povero Eddie Cochran. La canzone fu scritta dopo la morte di Cochran, ma mai nessuno la pubblicò. Romweber ne è venuto in possesso e l'ha fatta sua in maniera splendida.
Ma anche la nostalgica Baby I Know What It's Like To Be Alone, gli inserti calypso che si introducono tra le pieghe rock'n'roll di Long Battle Coming, e il folk di One Sided Love Affair, ballata scritta da Johnny Burnette. Lasciano tutte il segno. La lunga linea compresa tra romantico dramma e alta tensione che percorre l'intero disco (sono solo trenta minuti e una decina di minuti in più li avrei apprezzati) scorre piacevole e veloce. Il mio disco rock'n'roll di Marzo.
vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST- Warsaw Holiday (2014)
vedi anche RECENSIONE: DRIVE-BY TRUCKERS- English Ocean (2014)
vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH- Out Among The Stars (2014)
Inquietudine. Di quella positiva, se mai esistesse in qualche piega nascosta delle nostre menti. Questo è lo stato in cui mi fa cadere Images 13, terzo lavoro del progetto Dex Romweber Duo e la canzone finale Weird (Aurora Borealis) (scritta da Harry Lubin ed estrapolata dalla colonna sonora di un vecchio show televisivo), è una intima, minimale e inquietante traccia strumentale, quasi tribale nel suo ipnotico incedere, che congeda l'ascoltatore e conferma la mia ansia. Il buio e la luna piena che scorgo dalla finestra amplificano il tutto all'ennesima potenza. Sento ululati sulla collina.
Il chitarrista Dex Romweber è un veterano con carisma da vendere, anche se giovanissimo nei suoi quarantasette anni d'età, di quelli che hanno girato di notte i più malfamati sottoboschi musicali, quelli dove la luna piena entrava dalle finestre di un sottoscala e perforava le menti solo per far danni, quelli dove rockabilly, country e surf scorrevano come rigoli di sangue amaro sopra i palchi e scendevano giù dalle scale che conducevano ai maleodoranti cessi di qualche locale infimo. Uno con una cultura musicale immensa, capace di ripercorrere la storia americana ma anche attraversare l'oceano e approdare in Gran Bretagna: si parte da Eddie Cochran e Johnny Cash, si passa dal sempre dimenticato Link Wray, i Blasters e i Cramps, si arriva a Kinks e Who. E poi, vuoi lasciare fuori l'Australia di Nick Cave?
Uno a cui Jack White e Black Keys dovrebbero erigere un monumento: in verità, White già lo fa, indicandolo come uno dei suoi punti di riferimento musicali. Dex Romweber insieme alla versatile sorella Sara-che siede dietro alla batteria- si è inventato questo duo che ha il maggior pregio nell'approccio secco e minimale alla musica, pur seguendo quanto già fatto con la sua vecchia band Flat Duo Jets, attiva dal 1990 al 1999 e nata sulle ceneri ancora ardenti della scena post-punk di Athens e dedita ad un psycho punk travolgente ed energico che comunque rimane in scaletta, diventando solo una parte dei suoi nuovi orizzonti musicali, costruiti su: abbondanti dosi di garage suonato senza fronzoli, gothic blues, oscuro country'n'roll (Beyond The Moonlight), caldi sipari latineggianti, e sinistri temi surf (la strumentale Blackout! con l'immancabile riverbero della chitarra "alla Dick Dale", anticipata da un altro nero strumentale Prelude In G Minor) che farebbero faville nelle pellicole di Quentin Tarantino (la frizzante-ancora strumentale-Blue Surf).
Difficile non farsi conquistare dalla rocambolesca e ringhiosa apertura (Roll On), riscaldamento per la sua chitarra; dalle atmosfere pop '60 della conosciuta So Sad About Us degli amati e fonte d'ispirazione The Who che vede la partecipazione di Mary Huff alla voce; dalla ballata dark a ritmo di lento valzer in stile '50 di I Don't Want To Listen cantata con voce baritonale da consumato crooner; da We'll Be Togheter Again, altro lento con più luce, composto da Sharon Sheeley, compagna del povero Eddie Cochran. La canzone fu scritta dopo la morte di Cochran, ma mai nessuno la pubblicò. Romweber ne è venuto in possesso e l'ha fatta sua in maniera splendida.
Ma anche la nostalgica Baby I Know What It's Like To Be Alone, gli inserti calypso che si introducono tra le pieghe rock'n'roll di Long Battle Coming, e il folk di One Sided Love Affair, ballata scritta da Johnny Burnette. Lasciano tutte il segno. La lunga linea compresa tra romantico dramma e alta tensione che percorre l'intero disco (sono solo trenta minuti e una decina di minuti in più li avrei apprezzati) scorre piacevole e veloce. Il mio disco rock'n'roll di Marzo.
vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST- Warsaw Holiday (2014)
vedi anche RECENSIONE: DRIVE-BY TRUCKERS- English Ocean (2014)
vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH- Out Among The Stars (2014)
venerdì 14 marzo 2014
RECENSIONE: DRIVE-BY TRUCKERS (English Oceans)
DRIVE-BY TRUCKERS English Oceans (ATO, 2014)
Un altro bel passo in avanti che non ti aspetti. Non musicale-da loro sappiamo cosa aspettarci- ma di solidità e longevità. Sono passati tre anni-tanti per i loro canoni-dal rilassato, nero e trascinato (con classe) Go-Go Boots (in verità nato già come un sequel di The Big To-Do), ma la band texana di Patterson Hood e Mike Cooley (ampio il suo apporto in fase di scrittura questa volta) dimostra di non avere ancora le pile completamente scariche dopo vent'anni di onorata carriera e il prestigioso merito di aver tenuto alto il vessillo di un certo modo di suonare e vivere il rock tutto americano, impreziosito da liriche sempre al di sopra della media, anche qualcosina in più come dimostrato anche questa volta nell'attacco politico di The Part Of Him e nei consueti dipinti quasi gotici delle terre del sud (l'up country alla Willie Nelson di First Air Of Autumn). Negli anni duemila, anni poveri e senza veri scossoni musicali, avere tutte queste caratteristiche e qualità è un pregio da difendere con i denti e loro sembrano farlo fin dall'attacco dell'iniziale e dura Shit Shots Count, chitarre che non lasciano il respiro se non nell'irruzione dei fiati, nel finale, che virano la canzone al suono di New Orleans. Fedeli agli stilemi dettati da loro stessi nella monumentale rock opera sudista che ha aperto il nuovo millennio (Southern Rock Opera del 2001) dove southern rock e americana convogliavano a nozze per non separarsi più, English Oceans è un disco che guarda più a quel passato, spogliandosi di tutti gli orpelli superflui e maestosi dell'altro ieri (nuovamente cambi in formazione intorno ai due leader, questa volta ad abbandonare i camionisti sono Shonna Tucker sostituita da Matt Patton proveniente dalla band ‘The Dexateens’ e John Neff , mai sostituito) registrato in pochi giorni e con il groppo in gola dopo la scomparsa di Craig Lieske, roadie tuttofare del loro entourage, a cui il disco è dedicato. La lunga, malata e conclusiva Grand Canyon è tutta per lui.
Ne hanno beneficiato l'immediatezza e la schiettezza. Le chitarre riprendono il comando del suono, correndo nervose come il vecchio "cavallo pazzo" montato da Neil Young (When He's Gone, Hearing Jimmy Loud), il pianoforte è una presenza gradita e sempre vivace nel riempire i pochi buchi della loro musica come avviene in Til He's Dead Or Rising e nel bellissimo e sbilenco honky tonk Natural Light , e quando cala l'oscurità sulle terrose strade del sud, calano anche i ritmi ma non l'intensità: Made Up English Oceans, Hangin On, la pianistica When Walter Went Crazy sono ballate amare, condite dalla consueta ironia, ma distese e pacificanti. Nessuna novità, ma non è questo che ci si aspetta da un gruppo come loro. Band da tenere stretta stretta.
vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST-Warsaw Holiday (2013)
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE: DEX ROMWEBER DUO-Images 13 (2014)
vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH- Out Among The Stars (2014)
Un altro bel passo in avanti che non ti aspetti. Non musicale-da loro sappiamo cosa aspettarci- ma di solidità e longevità. Sono passati tre anni-tanti per i loro canoni-dal rilassato, nero e trascinato (con classe) Go-Go Boots (in verità nato già come un sequel di The Big To-Do), ma la band texana di Patterson Hood e Mike Cooley (ampio il suo apporto in fase di scrittura questa volta) dimostra di non avere ancora le pile completamente scariche dopo vent'anni di onorata carriera e il prestigioso merito di aver tenuto alto il vessillo di un certo modo di suonare e vivere il rock tutto americano, impreziosito da liriche sempre al di sopra della media, anche qualcosina in più come dimostrato anche questa volta nell'attacco politico di The Part Of Him e nei consueti dipinti quasi gotici delle terre del sud (l'up country alla Willie Nelson di First Air Of Autumn). Negli anni duemila, anni poveri e senza veri scossoni musicali, avere tutte queste caratteristiche e qualità è un pregio da difendere con i denti e loro sembrano farlo fin dall'attacco dell'iniziale e dura Shit Shots Count, chitarre che non lasciano il respiro se non nell'irruzione dei fiati, nel finale, che virano la canzone al suono di New Orleans. Fedeli agli stilemi dettati da loro stessi nella monumentale rock opera sudista che ha aperto il nuovo millennio (Southern Rock Opera del 2001) dove southern rock e americana convogliavano a nozze per non separarsi più, English Oceans è un disco che guarda più a quel passato, spogliandosi di tutti gli orpelli superflui e maestosi dell'altro ieri (nuovamente cambi in formazione intorno ai due leader, questa volta ad abbandonare i camionisti sono Shonna Tucker sostituita da Matt Patton proveniente dalla band ‘The Dexateens’ e John Neff , mai sostituito) registrato in pochi giorni e con il groppo in gola dopo la scomparsa di Craig Lieske, roadie tuttofare del loro entourage, a cui il disco è dedicato. La lunga, malata e conclusiva Grand Canyon è tutta per lui.
Ne hanno beneficiato l'immediatezza e la schiettezza. Le chitarre riprendono il comando del suono, correndo nervose come il vecchio "cavallo pazzo" montato da Neil Young (When He's Gone, Hearing Jimmy Loud), il pianoforte è una presenza gradita e sempre vivace nel riempire i pochi buchi della loro musica come avviene in Til He's Dead Or Rising e nel bellissimo e sbilenco honky tonk Natural Light , e quando cala l'oscurità sulle terrose strade del sud, calano anche i ritmi ma non l'intensità: Made Up English Oceans, Hangin On, la pianistica When Walter Went Crazy sono ballate amare, condite dalla consueta ironia, ma distese e pacificanti. Nessuna novità, ma non è questo che ci si aspetta da un gruppo come loro. Band da tenere stretta stretta.
vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST-Warsaw Holiday (2013)
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE: DEX ROMWEBER DUO-Images 13 (2014)
vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH- Out Among The Stars (2014)
martedì 11 marzo 2014
RECENSIONE:LITTLE ANGEL & THE BONECRASHERS (J.A.B.) & INTERVISTA A CRISTIANO CARNIEL
LITTLE ANGEL & THE BONECRASHERS J.A.B. (autoproduzione, 2014)
Vuoi fare l'americano? Fallo almeno bene. Questa è una regola non scritta che pochi seguono, ma quei pochi che lo fanno sono degni, degnissimi di nota, tanto da meritare lande musicali più vaste dei nostri traballanti e miopi confini nazionali, e gli esempi in questi ultimi anni sono fortunatamente tanti. I Little Angel & The Bonecrashers, band del varesotto attiva dal 2000, arrivano al secondo album con dieci canzoni autografe che sono una piccola lezione di umiltà e rispetto verso un'intera scena musicale talmente vasta che il rischio di perdersi è alto e sempre in agguato: si parte dalle radici e si arriva agli albori di quell'alt country che è stato una delle ultime vere novità che ha condizionato, anche per vie traverse, tutte le nuove generazioni di musicisti americani.
In mezzo, a tenere tutto unito, lo swamp rock, la lezione di band universali, buone per ogni occasione, epoca e pubblico, come i Creedence Clearwater Revival di John Fogerty (ascoltate l'iniziale country/rock Harry's Wife e capirete). I Little Angel &The Bonecrashers sanno fare gli americani, non per puro spirito d'emulazione ma per vero amore verso un suono ruspante (tre chitarre in formazione), caldo e dal fascino incalzante che alza polvere sulle secche strade e che la simpaticissima copertina vuole anticipare prima ancora di leggerne i titoli e ascoltare le canzoni. Ma anche viaggiare a passo lento lungo il nulla del deserto, tra meditazione, sogno e contemplazione del paesaggio: la lentezza ha il suo fascino. C'è il loro cuore che pulsa in queste dieci canzoni. Si sente.
"La cultura, anche se bassa, come la musica che noi suoniamo, ti rende più bello. Dentro (darei un braccio per farvi provare quello che sento quando suono qualcosa che mi piace o quando una canzone mi si aggrappa allo stomaco) e anche fuori (i Little Angel quando suonano insieme sono bellissimi, cieco chi non se ne accorge). Scrivono nel loro profilo facebook.
Difficile etichettarli, perché il gruppo guidato da Cristiano Carniel sa trottare in solitaria per gli ultimi lunghi e misteriosi viaggi ( My Last Ride con la chitarra ospite di Davide Buffoli) come farebbe un Johnny Cash spirituale davanti alle sue amate ferrovie; adagiarsi pigramente sopra ai tasti di un pianoforte (suonato da Agostino Barbieri) in Birdies; avanzare sardonicamente in Troubled Everyday, canzone che si alza e si abbassa seguendo umori cari a Neil Young; girare intorno ad un valzer western (Cowboy's Prayer); cavalcare il suono rock e ruspante che esce da 1000 Miles Amelia; sprigionare vivacità nell' autobiografica e ironica Just Another Band, nella spensieratezza di Regrets (Sweet Revenge Song); il tutto legato dalle buone armonie vocali (oltre a Carniel, alla voce anche i due chitarristi Stefano Tosi e Andrea Bergamin, completano la formazione: Marco Sola alla batteria, Gianluca Lavazza al basso). Veri, freschi e vivaci: può bastare?
INTERVISTA
Due parole con Cristiano Carniel, voce e chitarra del gruppo.
Come è nata la band?
"I Little Angel & the Bonecrashers nascono sul border Milano-Varese nel 2000. Cinque amici di lunga data con diverse collaborazioni in band musicali della zona del varesotto. L'idea di partenza è, dopo molti anni passati a suonare nei locali quello che piace alla gente, di suonare finalmente quello che piaceva a noi: Los Lobos, Allman Brothers Band, Lynyrd Skynyrd, Eagles, Creedence Clearwater Revival, Neil Young e la per noi bellissima musica che in quegli anni arrivava dal movimento alt-country. Quindi le prime scalette vedevano brani degli Uncle Tupelo, tra gli altri, vicino a pezzi dei mostri sacri di cui sopra. Nel 2003 registriamo un demo di sei cover e a marzo 2006 esce il primo cd che contiene 6 brani originali e 3 cover. Nel novembre 2008 abbiamo aperto il concerto della cantautrice americana Sarah Pierce e nell'ottobre 2009 partecipiamo per la prima volta al Townes Van Zandt Tribute (bis nel 2013).
Una delle cose che si notano maggiormente è la vostra totale immersione nella tradizione musicale americana, tanto che è difficile inquadrarvi in un solo genere, quindi vi ho inquadrato in un gruppo: i Creedence Clearwater Revival. Totalizzanti. Cosa ne pensi?
Penso che hai fatto centro. Come puoi ben immaginare, è difficile che cinque persone abbiano gli stessi gusti musicali. E così è per noi. Qualcuno è appassionato di country, qualcuno predilige il punk e qualcuno addirittura l'heavy metal (penso che l'ultimo concerto a cui sia stato Totò (Stefano Tosi) sia stato quello degli Slipknot o dei Ramstein, non ricordo bene, 'not my cup of tea'. Però ci sono tre o quattro gruppi/artisti per cui tutti e cinque nutriamo una passione sfrenata: Creedence Clearwater Revival, Uncle Tupelo, Los Lobos e Johnny Cash. Quando qualche anno fa John Fogerty venne all'Alcatraz eravamo tutti e cinque sotto il palco. Fu una messa celebrata dal reverendo Fogerty. Noi i suoi adepti. Non ti nascondo che ogni volta che predo in mano la chitarra per vedere se c'è un pezzo nuovo pronto ad uscire, l'idea è quella della "3 minutes song" dei Creedence. Semplice ma non banale e che faccia cantare e ballare tutti quelli che l'ascoltano".
E’ ormai un obbligo chiedere ad una band con il proprio repertorio originale, che difficoltà incontra nel trovare date e locali per suonare in Italia senza essere una cover band. Voi come siete messi? Il brano Just Another Band sembra collegarsi anche a questo.
Noi abbiamo iniziato come cover band. Solo pezzi che piacevano a noi però. Abbiamo poi iniziato a inserire qualche pezzo nostro e adesso abbiamo una scaletta con il 75% di brani originali e il 25% di cover (sempre riarrangiate e ripensate "a modo nostro" comunque). Siamo stati fortunati perché sul nostro cammino abbiamo incontrato due persone senza le quali non saremmo riusciti ad arrivare fino qui. Una è Max, il proprietario del Nidaba Theatre di Milano, a cui abbiamo inviato il nostro primo cd, senza conoscerlo di persona e senza nessuna "raccomandazione". Lui se l'è ascoltato e ci ha chiamato a suonare nel suo locale. Le serate al Nidaba, davanti a un pubblico che viene per ascoltare quel tipo di musica, diciamo un pubblico competente, sono state una delle migliori palestre per il gruppo e per il suono. L'altra è Claudio Giuliani del Buscadero che crede in noi più di quanto ci crediamo noi stessi. E ci ha dato la possibilità di aprire per qualche artista americano che si esibiva dalle nostre parti, più di una volta. In questo momento trovare date è molto difficile. I locali cercano la via più semplice per fare incasso (le tribute band per esempio) e di gestori appassionati ce ne sono sempre meno. Tieni conto poi che paradossalmente in un momento in cui la comunicazione dovrebbe essere semplice, visti i mezzi a nostra disposizione (mail, facebook, ecc.), tutto diventa più difficile. Passi i giorni a mandare mail o cd che nessuno leggerà, né ascolterà.
Due parole sull’originale e intrigante progetto grafico...
"La grafica del cd è opera di Dario Arcidiacono, un mio ex collega di lavoro, (http://www.darioarcidiacono.org/) che su FB usa lo pseudonimo di Nom Couture e che già aveva disegnato il logo della band per il disco precedente. Ha questo stile "splatter" apocalittico con cui illustra temi di attualità internazionale. E ha anche ottimi riscontri. A maggio inaugura a Milano una sua esposizione. Il suo stile descrive efficacemente il modo ironico e scanzonato con cui scriviamo e ci presentiamo"
Tra le canzoni più particolari, mi ha colpito 1000 Miles Amelia. Come è nata?
"L'Amelia, chiamata anche la Millemiglia o la Bersagliera, era una signora che dagli anni '50 occupava ogni giorno una postazione fissa, qualsiasi tempo facesse, lungo una strada che collegava Castellanza (il paese da cui veniamo) a Busto Arsizio e "donava a tutti la stessa rosa". Dai nostri nonni a noi, tre generazioni l'hanno vista sempre là, sotto il sole o sotto la pioggia. Ci ha lasciato circa cinque anni fa. I giornali locali ne hanno tutti parlato. Non mi sorprenderebbe sapere che ai funerali ci fosse anche il sindaco. Un'istituzione delle nostre parti. La canzone è ispirata a lei".
Tra gli ospiti in My Last Ride (una delle mie preferite) c'è Davide Buffoli. Come vi siete conosciuti?
Davide Buffoli è ormai un amico di lunga data. Quando ancora i Little Angel non esistevano lo vedevo aprire i concerti di artisti americani organizzati da Carlo Carlini nella nostra zona. Non aveva ancora vent'anni, ma aveva già quel suono e quel tocco sullo strumento che fanno di lui, secondo me, uno dei più bravi chitarristi italiani. Grazie a Claudio Giuliani, i Little Angel e la Davide Buffoli Band hanno condiviso spesso lo stesso palco. È risultato naturale, nel momento in cui ci siamo ritrovati a volere un suono di chitarra diverso dalle nostre in una canzone (My Last Ride) del disco, rivolgerci a lui. E lui ha preso in mano la canzone, l'ha riarrangiata e gli ha dato quella veste che si può sentire sul disco. È stato poi un preziosissimo aiuto in fase di missaggio dove ha affiancato Atos Travaglini, il tecnico del suono dei Nomadi.
La classica domanda finale: progetti futuri a corto e lungo termine?
La domanda più difficile. In fin dei conti siamo dei dopolavoristi. Siamo già sorpresi di essere arrivati a incidere due dischi. Mai avremmo pensato di poter continuare a suonare insieme per quattordici anni. Prendiamo quello che viene. Qualche data nell'immediato futuro per promuovere il disco e poi sotto a scrivere i pezzi per il terzo cd.
vedi anche RECENSIONE: THOMAS GUIDUCCI & THE B-FOLK GUYS-The Heart And The Black Spider (2012)
vedi anche RECENSIONE & INTERVISTA: ALESSANDRO BATTISTINI-Cosmic Sessions (2014)
Vuoi fare l'americano? Fallo almeno bene. Questa è una regola non scritta che pochi seguono, ma quei pochi che lo fanno sono degni, degnissimi di nota, tanto da meritare lande musicali più vaste dei nostri traballanti e miopi confini nazionali, e gli esempi in questi ultimi anni sono fortunatamente tanti. I Little Angel & The Bonecrashers, band del varesotto attiva dal 2000, arrivano al secondo album con dieci canzoni autografe che sono una piccola lezione di umiltà e rispetto verso un'intera scena musicale talmente vasta che il rischio di perdersi è alto e sempre in agguato: si parte dalle radici e si arriva agli albori di quell'alt country che è stato una delle ultime vere novità che ha condizionato, anche per vie traverse, tutte le nuove generazioni di musicisti americani.
In mezzo, a tenere tutto unito, lo swamp rock, la lezione di band universali, buone per ogni occasione, epoca e pubblico, come i Creedence Clearwater Revival di John Fogerty (ascoltate l'iniziale country/rock Harry's Wife e capirete). I Little Angel &The Bonecrashers sanno fare gli americani, non per puro spirito d'emulazione ma per vero amore verso un suono ruspante (tre chitarre in formazione), caldo e dal fascino incalzante che alza polvere sulle secche strade e che la simpaticissima copertina vuole anticipare prima ancora di leggerne i titoli e ascoltare le canzoni. Ma anche viaggiare a passo lento lungo il nulla del deserto, tra meditazione, sogno e contemplazione del paesaggio: la lentezza ha il suo fascino. C'è il loro cuore che pulsa in queste dieci canzoni. Si sente.
"La cultura, anche se bassa, come la musica che noi suoniamo, ti rende più bello. Dentro (darei un braccio per farvi provare quello che sento quando suono qualcosa che mi piace o quando una canzone mi si aggrappa allo stomaco) e anche fuori (i Little Angel quando suonano insieme sono bellissimi, cieco chi non se ne accorge). Scrivono nel loro profilo facebook.
Difficile etichettarli, perché il gruppo guidato da Cristiano Carniel sa trottare in solitaria per gli ultimi lunghi e misteriosi viaggi ( My Last Ride con la chitarra ospite di Davide Buffoli) come farebbe un Johnny Cash spirituale davanti alle sue amate ferrovie; adagiarsi pigramente sopra ai tasti di un pianoforte (suonato da Agostino Barbieri) in Birdies; avanzare sardonicamente in Troubled Everyday, canzone che si alza e si abbassa seguendo umori cari a Neil Young; girare intorno ad un valzer western (Cowboy's Prayer); cavalcare il suono rock e ruspante che esce da 1000 Miles Amelia; sprigionare vivacità nell' autobiografica e ironica Just Another Band, nella spensieratezza di Regrets (Sweet Revenge Song); il tutto legato dalle buone armonie vocali (oltre a Carniel, alla voce anche i due chitarristi Stefano Tosi e Andrea Bergamin, completano la formazione: Marco Sola alla batteria, Gianluca Lavazza al basso). Veri, freschi e vivaci: può bastare?
INTERVISTA
Due parole con Cristiano Carniel, voce e chitarra del gruppo.
Come è nata la band?
"I Little Angel & the Bonecrashers nascono sul border Milano-Varese nel 2000. Cinque amici di lunga data con diverse collaborazioni in band musicali della zona del varesotto. L'idea di partenza è, dopo molti anni passati a suonare nei locali quello che piace alla gente, di suonare finalmente quello che piaceva a noi: Los Lobos, Allman Brothers Band, Lynyrd Skynyrd, Eagles, Creedence Clearwater Revival, Neil Young e la per noi bellissima musica che in quegli anni arrivava dal movimento alt-country. Quindi le prime scalette vedevano brani degli Uncle Tupelo, tra gli altri, vicino a pezzi dei mostri sacri di cui sopra. Nel 2003 registriamo un demo di sei cover e a marzo 2006 esce il primo cd che contiene 6 brani originali e 3 cover. Nel novembre 2008 abbiamo aperto il concerto della cantautrice americana Sarah Pierce e nell'ottobre 2009 partecipiamo per la prima volta al Townes Van Zandt Tribute (bis nel 2013).
Una delle cose che si notano maggiormente è la vostra totale immersione nella tradizione musicale americana, tanto che è difficile inquadrarvi in un solo genere, quindi vi ho inquadrato in un gruppo: i Creedence Clearwater Revival. Totalizzanti. Cosa ne pensi?
Penso che hai fatto centro. Come puoi ben immaginare, è difficile che cinque persone abbiano gli stessi gusti musicali. E così è per noi. Qualcuno è appassionato di country, qualcuno predilige il punk e qualcuno addirittura l'heavy metal (penso che l'ultimo concerto a cui sia stato Totò (Stefano Tosi) sia stato quello degli Slipknot o dei Ramstein, non ricordo bene, 'not my cup of tea'. Però ci sono tre o quattro gruppi/artisti per cui tutti e cinque nutriamo una passione sfrenata: Creedence Clearwater Revival, Uncle Tupelo, Los Lobos e Johnny Cash. Quando qualche anno fa John Fogerty venne all'Alcatraz eravamo tutti e cinque sotto il palco. Fu una messa celebrata dal reverendo Fogerty. Noi i suoi adepti. Non ti nascondo che ogni volta che predo in mano la chitarra per vedere se c'è un pezzo nuovo pronto ad uscire, l'idea è quella della "3 minutes song" dei Creedence. Semplice ma non banale e che faccia cantare e ballare tutti quelli che l'ascoltano".
E’ ormai un obbligo chiedere ad una band con il proprio repertorio originale, che difficoltà incontra nel trovare date e locali per suonare in Italia senza essere una cover band. Voi come siete messi? Il brano Just Another Band sembra collegarsi anche a questo.
Noi abbiamo iniziato come cover band. Solo pezzi che piacevano a noi però. Abbiamo poi iniziato a inserire qualche pezzo nostro e adesso abbiamo una scaletta con il 75% di brani originali e il 25% di cover (sempre riarrangiate e ripensate "a modo nostro" comunque). Siamo stati fortunati perché sul nostro cammino abbiamo incontrato due persone senza le quali non saremmo riusciti ad arrivare fino qui. Una è Max, il proprietario del Nidaba Theatre di Milano, a cui abbiamo inviato il nostro primo cd, senza conoscerlo di persona e senza nessuna "raccomandazione". Lui se l'è ascoltato e ci ha chiamato a suonare nel suo locale. Le serate al Nidaba, davanti a un pubblico che viene per ascoltare quel tipo di musica, diciamo un pubblico competente, sono state una delle migliori palestre per il gruppo e per il suono. L'altra è Claudio Giuliani del Buscadero che crede in noi più di quanto ci crediamo noi stessi. E ci ha dato la possibilità di aprire per qualche artista americano che si esibiva dalle nostre parti, più di una volta. In questo momento trovare date è molto difficile. I locali cercano la via più semplice per fare incasso (le tribute band per esempio) e di gestori appassionati ce ne sono sempre meno. Tieni conto poi che paradossalmente in un momento in cui la comunicazione dovrebbe essere semplice, visti i mezzi a nostra disposizione (mail, facebook, ecc.), tutto diventa più difficile. Passi i giorni a mandare mail o cd che nessuno leggerà, né ascolterà.
Due parole sull’originale e intrigante progetto grafico...
"La grafica del cd è opera di Dario Arcidiacono, un mio ex collega di lavoro, (http://www.darioarcidiacono.org/) che su FB usa lo pseudonimo di Nom Couture e che già aveva disegnato il logo della band per il disco precedente. Ha questo stile "splatter" apocalittico con cui illustra temi di attualità internazionale. E ha anche ottimi riscontri. A maggio inaugura a Milano una sua esposizione. Il suo stile descrive efficacemente il modo ironico e scanzonato con cui scriviamo e ci presentiamo"
Tra le canzoni più particolari, mi ha colpito 1000 Miles Amelia. Come è nata?
"L'Amelia, chiamata anche la Millemiglia o la Bersagliera, era una signora che dagli anni '50 occupava ogni giorno una postazione fissa, qualsiasi tempo facesse, lungo una strada che collegava Castellanza (il paese da cui veniamo) a Busto Arsizio e "donava a tutti la stessa rosa". Dai nostri nonni a noi, tre generazioni l'hanno vista sempre là, sotto il sole o sotto la pioggia. Ci ha lasciato circa cinque anni fa. I giornali locali ne hanno tutti parlato. Non mi sorprenderebbe sapere che ai funerali ci fosse anche il sindaco. Un'istituzione delle nostre parti. La canzone è ispirata a lei".
Tra gli ospiti in My Last Ride (una delle mie preferite) c'è Davide Buffoli. Come vi siete conosciuti?
Davide Buffoli è ormai un amico di lunga data. Quando ancora i Little Angel non esistevano lo vedevo aprire i concerti di artisti americani organizzati da Carlo Carlini nella nostra zona. Non aveva ancora vent'anni, ma aveva già quel suono e quel tocco sullo strumento che fanno di lui, secondo me, uno dei più bravi chitarristi italiani. Grazie a Claudio Giuliani, i Little Angel e la Davide Buffoli Band hanno condiviso spesso lo stesso palco. È risultato naturale, nel momento in cui ci siamo ritrovati a volere un suono di chitarra diverso dalle nostre in una canzone (My Last Ride) del disco, rivolgerci a lui. E lui ha preso in mano la canzone, l'ha riarrangiata e gli ha dato quella veste che si può sentire sul disco. È stato poi un preziosissimo aiuto in fase di missaggio dove ha affiancato Atos Travaglini, il tecnico del suono dei Nomadi.
La classica domanda finale: progetti futuri a corto e lungo termine?
La domanda più difficile. In fin dei conti siamo dei dopolavoristi. Siamo già sorpresi di essere arrivati a incidere due dischi. Mai avremmo pensato di poter continuare a suonare insieme per quattordici anni. Prendiamo quello che viene. Qualche data nell'immediato futuro per promuovere il disco e poi sotto a scrivere i pezzi per il terzo cd.
vedi anche RECENSIONE: THOMAS GUIDUCCI & THE B-FOLK GUYS-The Heart And The Black Spider (2012)
vedi anche RECENSIONE & INTERVISTA: ALESSANDRO BATTISTINI-Cosmic Sessions (2014)
lunedì 3 marzo 2014
RECENSIONE:JONO MANSON (Angels On The Other Side)
JONO MANSON Angels On The Other Side (Appaloosa Records/IRD, 2014)
Jono Manson ha tre case: una negli States, nato e cresciuto-anche musicalmente a fine anni settanta- a New York, da più di vent'anni vive a Santa Fe nel New Mexico dove è stato registrato il disco e dove si porta la maggior parte del lavoro da produttore, una in Italia, sua seconda patria dove ha abitato per tre anni e custode di tanti amici musicisti (e non) sempre pronti ad accoglierlo per suonare, farsi produrre o semplicemente ospitarlo per godere della sua gioviale compagnia e sincera passione, la terza è
nel cuore umile della musica, rifugio dove sta a proprio agio sempre e comunque. Artista ben voluto e cercato, uno che non si tira indietro mai e che si è costruito il percorso musicale con la coerenza dei classici "piccoli passi ma ben distesi"-anche se il suo curriculum potrebbe impressionare- che lo hanno portato a registrare l'ennesimo buon album in carriera ( l'ultimo fu November del 2008 se si esclude il progetto Barnetti Bros Band con i "fratelli italiani" Massimo Bubola, Andrea Parodi e Massimiliano Larocca) dove la consueta vena soul che abita imperiosa la sua preziosa ugola-caratteristica che lo accomuna e lo porta ad essere paragonato da sempre ad un mostro sacro come John Hiatt- lega il folk con il country, il country al blues, il blues al rock e con i testi (presenti tutte le traduzioni ad opera della meticolosa Appallosa Records) che evocano i fantasmi dei ricordi, gli spettri dell' amore, i misteri che tengono uniti i forti legami famigliari, la fede, i segreti nascosti dei grandi paesaggi naturali, creando un fascinoso concept dove la positività in tutti i suoi aspetti sembra brillare su tutto e penetrare la vita come il raggio di sole fa con il paesaggio in copertina. "Un album dedicato a tutti gli angeli custodi dall'altra parte e a quelli che vivono alla mia destra, qui in terra." Così Jono Manson chiosa nel libretto e canta nel delicato country d'apertura guidato dalla slide di Jay Boy Adams: "Perché ho ali sotto i vestiti/Ho i miei angeli custodi dall'altra parte/E ho abbastanza amore nel mio cuore/Per godermi il viaggio".
Io ci aggiungo: "Un' anima non è mai senza la scorta degli Angeli, questi spiriti illuminati sanno benissimo che l'anima nostra ha più valore che non tutto il mondo" . Lo diceva il monaco francese San Bernardo di Chiaravalle, uno che apparve perfino a Dante nel Paradiso della Divina Commedia.
Un disco positivo, di fede e speranza. Sospinto dall'energia illuminante di alcuni membri del gruppo texano Shurman che lasciano l'impronta soprattutto nei pezzi più tirati e rock: nel bar nascosto e vizioso che popola le nostre menti nel tiro southern di Honky Tonk In My Mind, nelle chitarre garage di There's a Whole World On Fire, e nel trascinante blues da "american dream" spezzato di I'm Gonna Get It.
Angels On The Other Side è un disco a tre velocità ma con un'unica profondità. Oltre ai già citati episodi più elettrici e terreni, lascia il maggior segno negli episodi intimistici e rallentati, ballate dove il leggero e arioso country si insinua tra famiglia e fede (Togheter Again, i contorni che contano nella stupenda The Frame la cui stesura risale a qualche anno fa), e tra le salvifiche e intense dichiarazioni d'amore di Angelica e Everething To Me, nella tenue brezza che soffia sopra il lato bello della natura (Silver Lining) sospinta dall'armonica dell'amico di sempre John Popper dei Blues Traveler e sceneggiata come piacerebbe ai suoi cugini registi, i fratelli Coen; ma anche nei mezzi toni melodici di Snowed It, soffice schizzo d'amore invernale lasciato cadere come neve sul tappeto '60, lo stesso che accoglie l'illuminante e speranzosa The Other Yesterday.
Nella finale Grateful tra le maglie di una slide e il vintage sound dell'hammond è scritto tutto il testamento del disco, ma anche la sua appagante filosofia di vita: "non ho niente di romantico da aggiungere/Sono stato sulla strada ma non è andata così male/ho scontato la mia parte di pena/Ho scontato la mia parte d'inferno/Ma sono sempre stato protetto/E sono sempre stato servito bene".
Ma c'è ancora il tempo per una intensa e sentita interpretazione al pianoforte di Never Never Land, rilettura di L'isola Che Non C'è di un altro vecchio amico italiano, Edoardo Bennato, presente come bonus track nella sola versione italiana. Sembra che Bennato abbia già approvato.
Che gli angeli siano con voi e continuino a vegliare sulla musica scritta con passione e onestà.
vedi anche RECENSIONE: BLUES TRAVELER-Suzie Cracks The Whip (2012)
vedi anche RECENSIONE: BAP KENNEDY-Let's Start Again (2014)
vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST- Warsaw Holiday (2013)
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE & INTERVISTA-ALESSANDRO BATTISTINI-Cosmic Sessions (2014)
Jono Manson ha tre case: una negli States, nato e cresciuto-anche musicalmente a fine anni settanta- a New York, da più di vent'anni vive a Santa Fe nel New Mexico dove è stato registrato il disco e dove si porta la maggior parte del lavoro da produttore, una in Italia, sua seconda patria dove ha abitato per tre anni e custode di tanti amici musicisti (e non) sempre pronti ad accoglierlo per suonare, farsi produrre o semplicemente ospitarlo per godere della sua gioviale compagnia e sincera passione, la terza è
nel cuore umile della musica, rifugio dove sta a proprio agio sempre e comunque. Artista ben voluto e cercato, uno che non si tira indietro mai e che si è costruito il percorso musicale con la coerenza dei classici "piccoli passi ma ben distesi"-anche se il suo curriculum potrebbe impressionare- che lo hanno portato a registrare l'ennesimo buon album in carriera ( l'ultimo fu November del 2008 se si esclude il progetto Barnetti Bros Band con i "fratelli italiani" Massimo Bubola, Andrea Parodi e Massimiliano Larocca) dove la consueta vena soul che abita imperiosa la sua preziosa ugola-caratteristica che lo accomuna e lo porta ad essere paragonato da sempre ad un mostro sacro come John Hiatt- lega il folk con il country, il country al blues, il blues al rock e con i testi (presenti tutte le traduzioni ad opera della meticolosa Appallosa Records) che evocano i fantasmi dei ricordi, gli spettri dell' amore, i misteri che tengono uniti i forti legami famigliari, la fede, i segreti nascosti dei grandi paesaggi naturali, creando un fascinoso concept dove la positività in tutti i suoi aspetti sembra brillare su tutto e penetrare la vita come il raggio di sole fa con il paesaggio in copertina. "Un album dedicato a tutti gli angeli custodi dall'altra parte e a quelli che vivono alla mia destra, qui in terra." Così Jono Manson chiosa nel libretto e canta nel delicato country d'apertura guidato dalla slide di Jay Boy Adams: "Perché ho ali sotto i vestiti/Ho i miei angeli custodi dall'altra parte/E ho abbastanza amore nel mio cuore/Per godermi il viaggio".
Io ci aggiungo: "Un' anima non è mai senza la scorta degli Angeli, questi spiriti illuminati sanno benissimo che l'anima nostra ha più valore che non tutto il mondo" . Lo diceva il monaco francese San Bernardo di Chiaravalle, uno che apparve perfino a Dante nel Paradiso della Divina Commedia.
Un disco positivo, di fede e speranza. Sospinto dall'energia illuminante di alcuni membri del gruppo texano Shurman che lasciano l'impronta soprattutto nei pezzi più tirati e rock: nel bar nascosto e vizioso che popola le nostre menti nel tiro southern di Honky Tonk In My Mind, nelle chitarre garage di There's a Whole World On Fire, e nel trascinante blues da "american dream" spezzato di I'm Gonna Get It.
Angels On The Other Side è un disco a tre velocità ma con un'unica profondità. Oltre ai già citati episodi più elettrici e terreni, lascia il maggior segno negli episodi intimistici e rallentati, ballate dove il leggero e arioso country si insinua tra famiglia e fede (Togheter Again, i contorni che contano nella stupenda The Frame la cui stesura risale a qualche anno fa), e tra le salvifiche e intense dichiarazioni d'amore di Angelica e Everething To Me, nella tenue brezza che soffia sopra il lato bello della natura (Silver Lining) sospinta dall'armonica dell'amico di sempre John Popper dei Blues Traveler e sceneggiata come piacerebbe ai suoi cugini registi, i fratelli Coen; ma anche nei mezzi toni melodici di Snowed It, soffice schizzo d'amore invernale lasciato cadere come neve sul tappeto '60, lo stesso che accoglie l'illuminante e speranzosa The Other Yesterday.
Nella finale Grateful tra le maglie di una slide e il vintage sound dell'hammond è scritto tutto il testamento del disco, ma anche la sua appagante filosofia di vita: "non ho niente di romantico da aggiungere/Sono stato sulla strada ma non è andata così male/ho scontato la mia parte di pena/Ho scontato la mia parte d'inferno/Ma sono sempre stato protetto/E sono sempre stato servito bene".
Ma c'è ancora il tempo per una intensa e sentita interpretazione al pianoforte di Never Never Land, rilettura di L'isola Che Non C'è di un altro vecchio amico italiano, Edoardo Bennato, presente come bonus track nella sola versione italiana. Sembra che Bennato abbia già approvato.
Che gli angeli siano con voi e continuino a vegliare sulla musica scritta con passione e onestà.
vedi anche RECENSIONE: BLUES TRAVELER-Suzie Cracks The Whip (2012)
vedi anche RECENSIONE: BAP KENNEDY-Let's Start Again (2014)
vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST- Warsaw Holiday (2013)
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE & INTERVISTA-ALESSANDRO BATTISTINI-Cosmic Sessions (2014)
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