mercoledì 27 febbraio 2019

OMAR PEDRINI Live@Latteria Molloy, Brescia, 23 Febbraio 2019



OMAR PEDRINI Live@Latteria Molloy, Brescia, 23 febbraio 2019



 
Qualche mese fa mi è capitato sotto gli occhi uno speciale di Rolling Stone Italia con i 100 dischi italiani più belli di sempre. Ora: come tutte le classifiche, anche questa non è da prendere troppo in considerazione ma visto che è stata stilata da un buon campione di 100 giurati, più o meno attendibili, mi ha sorpreso l’assenza di Viaggio Senza Vento. Ho sfogliato tre volte la rivista credendo di averlo perso leggendo alcuni titoli del tutto inferiori come valore e importanza. Invece no, è tutto vero: Viaggio Senza Vento dei TIMORIA non c'è. Chi l’ha vissuto in diretta negli anni novanta come me, ne conosce il valore e l’esuberante coraggio che ha permesso di mettere in piedi un concept album che ricordava da vicino gli anni settanta. Non starò qui a scriverne le lodi, però ho due ricordi nitidi di quegli anni (1993/94).
Foto: Stefania Gastaldello

Il primo: quasi tutte le giovani cover band del tempo avevano in scaletta qualche canzone di questo album (‘Senza Vento’, ‘Sangue Impazzito’ e ‘ Piove’ le più gettonate) e gli sfortunati cantanti dovevano cimentarsi con l’inarrivabile voce di Francesco Renga dell’epoca, perdendo quasi sempre in partenza. Il secondo ricordo: le t-shirt dei Timoria indossate dai componenti dei Sepultura durante il concerto a Sonoria 1994. Una figata pazzesca!

l viaggio verso oriente di Joe è anche il tragitto a ritroso di chi 25 anni fa dentro a VIAGGIO SENZA VENTO ha lasciato un pezzo dei propri vent’anni (nel mio caso).
9.125 giorni trascorsi in fuga (calcolatrice alla mano), utili per memorizzare le 21 canzoni di quel concept album a suo modo storico che ha segnato gli anni novanta e aperto strade a tante band italiane (si poteva fare rock cantando in italiano e arrivare a tutti), ma soprattutto utili per cercare la nostra via, la nostra libertà, camminando, a volte correndo, incontro alla nostra personale città del sole. La nostra vita. Tempo necessario per imprimerle nel cervello e farle uscire tutte insieme dalla prima all’ultima, da ‘Senza Vento’ a ‘Il Guerriero’, cantandole a voce alta, sempre più forte anche per sovrastare i cori degli ultras presenti assiepati al bancone del bar, giustamente felici per i risultati stagionali della squadra di casa, ma sempre troppo forti quando Omar calava il tiro del concerto per cercare l’introspezione e il battito del suo cuore guarito.
Un concerto fresco, spumeggiante, jammato, funky a tratto psichedelico . Rock. Ma per chi ha continuato a seguire Pedrini solista, questa non è una novità.
Foto: Stefania Gastaldello
Abbandonata per strada la speranza di poter vedere i TIMORIA uniti ancora una volta (rimane ancora la fatidica e utopica data del 2020), resta la consapevolezza che oggi Pedrini sia più in forma e in palla che mai (per molti meglio oggi che allora): forte di un jolly di prima grandezza in formazione come Carlo Poddighe alle chitarre, tastiere e voce quando c’è bisogno di arrivare lassù in alto, e di una band rinnovata nel batterista e alla terza chitarra (tre chitarre sul palco, se non è rock questo!) e dall’aiuto del cantante Mattia Apollo della tribute band Precious Time.
Se ‘Sangue Impazzito’ è un must da sempre, anche quando non c’è bisogno di festeggiare anniversari importanti, ci sono almeno tre momenti che mi porterò dietro come ricordi: una intensa e corale  ‘Fredoom’, il saluto allo sfortunato Illorca autore di ‘La Cura Giusta’, e quella ‘Angel’, arrivata nei bis a viaggio già finito. Un inedito scritto per Kurt Cobain ma che stasera era tutto per l'amico Paul Mellory, un altro rocker andato via troppo in fretta (a inizio anno) ma che sicuramente ha già raggiunto la sua città del sole, prima di tutti noi. Se capita dalle vostre parti non fatevelo sfuggire.

Foto: Stefania Gastaldello



 

martedì 26 febbraio 2019

RECENSIONE: HAYES CARLL (What It Is)

HAYES CARLL What It Is (Dualtone Music, 2019)
 
 
 
 
 
 
 
il texano ritrovato
Con questo disco Hayes Carll lascia definitivamente i fotogrammi degli ultimi anni della sua vita impressi nello specchietto retrovisore e continua a macinare la strada che aveva imboccato prima del divorzio. Quel particolare momento della sua vita lo lasciò già impresso nel precedente disco Lovers And Leavers (2016), un album che scavava nel pr...ofondo delle relazioni umane attraverso ballate acustiche intense da operazione a cuore aperto ma colorate di grigio e poco movimentate musicalmente. Con WHAT IS THIS, sesto album, riprende il discorso interrotto prima del divorzio, una via di mezzo tra il suo gioiello Trouble In Mind (2008), dove raccontava di poeti, bevute, epiche sbronze e angoli d’America e Kmag Yoyo (2011), un album fortemente calato nella denuncia politica.
“Questo disco è stato realizzato con lo spirito del cambiamento, del mio mondo e del mondo che mi circonda” racconta.
Ad aiutarlo nella scrittura, nella produzione, alle voci e nella vita (i due sono diventati genitori) la nuova compagna Allison Moorer a cui dedica l'apertura ‘None’Ya’. Disco frizzante, intelligente, ricco di ironia tra le righe e ottimista come ci ha abituato da sempre, dove Carll mette in riga la sua bravura da devoto nipote dei grandi songwriter americani con un marchio “outlaw” tatuato nel cuore. Da ‘Time Like These’, un veloce honky tonk, elettrico e contagioso grazie al vivace violino di Fats Kaplin che si cala perfettamente nel presente, il blues ‘’Wild Ponty Finger’ a ‘Jesus And Elvis’ che potrebbe essere uscita dalla penna di Steve Earle, sicuramente un punto di riferimento. Dalla intensa e liricamente incisiva ‘Fragile Men’ scritta insieme a Lolo (la cantautrice Lauren Pritchard), canzone nata dopo le marce neonaziste che hanno sconvolto Charlottesville in Virginia nel 2017, alla title track, un bucolico e tirato bluegrass guidato da banjo e mandolino. Dal country rock con il passo alla Johnny Cash di ‘If I May Be So Bold’ fino alla ballata acustica ‘I Will Stay’ che chiude il disco, il texano Hayes Carll si conferma uno dei migliori cantautori della sua generazione (43 anni per lui) , in grado di unire il personale, l'autenticità dei paesaggi descritti, la denuncia, in modo sarcastico e intelligente, richiamando i grandi come Dylan, Townes Van Zandt, Guy Clark, il già citato Steve Earle ma anche il primo Todd Snider. Bentornato su queste strade.
 
 
 

 
 
 

giovedì 21 febbraio 2019

RECENSIONE: THE LONG RYDERS (Psychedelic Country Soul)

THE LONG RYDERS  Psychedelic Country Soul (Cherry Red Records, 2019)
 
 
 
 
 

gonna make it real
Forse sta tutto lì, in quel “here we go” con cui si apre il disco sulle note di ‘Greenville’, un rock teso e diretto figlio dei vecchi tempi e fratello delle opener song dei loro tre dischi anni ottanta (Native Sons, State Of Our Union, Two Fisted Tales). ...
“Andiamo”: i Long Ryders ritornano a incidere un disco dopo trentadue anni di assenza e poco sembra essere cambiato nella mappa musicale della band californiana, a parte il taglio di capelli alla Byrds che non c’è più.
Certo, la spavalderia figlia della gioventù si è un po’ affievolita con il tempo, sostituita bene dalla maturità, ma Sid Griffin e soci (Stephen McCarthy, Tom Stevens, Greg Sowders) - vero lavoro di squadra il loro visto che tutti hanno contribuito alla stesura delle dodici canzoni (a parte ‘Walls’ omaggio a Tom Petty, ripescata dalla soundtrack She ‘s The One) - giocano la loro partita nel campo amico, facendo bene quello che sanno fare meglio. Ritmi più meditativi a dominare ma le influenze sono quelle di sempre: i Byrds (‘The Sound’), il country pop (‘Let It Fly’ con lap steel, violino e mandolino, ‘Molly Somebody’), il cosmic country di Gram Parsons (‘California State Line’), vecchio amore di Griffin mai tradito, il country rock alla Buffalo Springfield (la bella ‘All Aboard’), l’Americana totale di The Band (‘Bells On August’), qualche strappo più selvaggio e sostenuto nel garage rock (‘What The Eagle Sees’), la ballata ad effetto (‘If You Wanna See Me Cry’). Non si butta via nulla. Dentro ci trovi tutto quello che passa dal vecchio Tom Petty ai Jayhawks degli anni novanta. Poi alla fine piazzano i sei minuti di ‘Psichedelic Country Soul’ che hanno già tutto nel titolo.
Insomma: musica senza tempo che potrebbe essere uscita dall’annata d’oro del 1969 come dal 1989, se avessero proseguito la loro carriera.
Siamo nel 2019. “È l’album che abbiamo sempre cercato di fare” dice Griffin.
E anche se questo ritorno in studio, anticipato dalle ristampe del loro vecchio catalogo e da alcune date live, è merito dell’amico Larry Chatman che li ha convinti ad incidere nuovamente canzoni con la forza di una vecchia promessa, trascinandoli a compiere lo sporco lavoro in soli otto giorni negli studi di Dr. Dre a Los Angeles sotto la produzione di un veterano, vecchia conoscenza come Ed Stasium, “il quinto Long Ryder”, bisogna dire che i Long Ryders hanno lavorato con antica passione, la vecchia formula per scrivere belle canzoni in testa con la melodia ben definita sulla punta degli strumenti, mica da tutti eh, e il mestiere di sempre da veri padri fondatori di quel movimento alt Country (aggiungete moderno se volete) che a loro deve tanto. A sigillo della continuità con l’affascinante mondo del rock’n’roll, bello sentire le voci delle Bangles ritrovate in un paio di brani e vedere gli scatti fotografici di Henry Diltz, vero e proprio archivio fotografico, vivente, del periodo d’oro del rock. Psychedelic Country rock si prenota fin da ora un posto tra le uscite più importanti di questo 1969 (o 1989?).
 
 
 
 
 

martedì 19 febbraio 2019

RECENSIONE: BOB MOULD (Sunshine Rock)

BOB MOULD  Sunshine Rock (Merge, 2019)






Inquietudini stese al sole
Un disco che emana positività e calore da subito. Basta scorgere velocemente i titoli di alcune canzoni: il sole è spesso presente e splendente a rappresentare una sorta di energia interna, medicina contro le eterne inquietudini che si trascina dietro da una vita. Pure la copertina, così spartana, ci parla di semplicità. Bob Mould sceglie il pensare positivo per tirare avanti, per dimenticare un passato personale non esaltante (mettiamoci anche la recente morte di Grant Hart, vecchio compagno d'avventure), non quello musicale certamente (Hüsker Dü e Sugar sono sempre lì dietro la tenda parasole), sceglie pure di trasferirsi a Berlino. L'aria nuova fa bene allo spirito. Tira fuori l'anima e la mette a stendere al sole. Nonostante questo Bob Mould non molla il colpo e continua a macinare il suo rock indomito, urgente ed emozionale insieme a Jason Narducy (basso) e Jon Wurster(batteria), iperenergetico, senza compromessi ma sempre ricco di buone melodie (‘Lost Faith' riesuma la new wave) , lanciando ipotetiche sfide alle nuove generazioni, quasi sempre vinte, dall’alto del suo stato di icona vivente, abiti che indossa sempre senza un minimo di vanità che potrebbe anche permettersi volendo: chitarre davanti a tutto e giù indomito ('Sunshine Rock',‘Sin King’, ‘Thirty Dozen Roses’). Così anche quei rari episodi dove si tira il fiato diventano piacevoli cameo da gustare con grande piacere: le tastiere e gli archi di ’The Final Years e ‘Western Sunset ’, i vividi ricordi d'infanzia messi al sole in ‘Camp Sunshine’, solo voce e chitarra, e una ‘Send Me A Postcard’ vecchia cover della band olandese Shocking Blue che vince da subito, fin dalla scelta. Nessuna grande novità sostanziale: Bob Mould fa bene le cose che sa fare bene. Da una vita. E si tira avanti, giorno dopo giorno, cogliendo l'attimo, come ci suggerisce di fare in questi 37 minuti di puro concentrato rock.





sabato 16 febbraio 2019

RECENSIONE: RYAN BINGHAM (American Love Song)

RYAN BINGHAM    American Love Song (AB Records, 2019)





tra privato e politico

Vorrebbe scrivere canzoni mettendo al centro delle attenzioni gli altri ma alla fine ci ritrova sempre se stesso. Così anche American Love Song finisce per diventare una sorta di autobiografia in musica della sua vita: l'approdo definitivo dopo anni spesi a cercare la sua vera identità. La sua terapia, la sua valvola di sfogo, perché altro di meglio su cui appoggiarsi non ha se non la musica stessa. “Penso che tutti abbiano contribuito a formare quello che sono ora. Scrivere veramente canzoni richiede empatia. Devi cercare di metterti nei panni degli altri. " Ryan Bingham ci è riuscito molto bene fin dal suo esordio Mescalito, passando per un premio Oscar, e altri quattro album fino all’ultimo Fear And Saturday Night uscito quattro anni fa. Ecco che la sua dura infanzia è sempre lì dietro l’angolo a premere per un posto in prima fila e la ritrova in parte in una ballata folk come ‘Wolves’, che parla di bullismo nelle scuole, di armi che hanno vie troppo facili anche per serpeggiare indisturbate tra i banchi di scuola, una voce data a quei studenti che si stanno battendo perché ciò non avvenga più. Mai più. La morte prematura dei genitori, il padre suicida, la madre alcolizzata che ritroveremo insieme ad altre donne (Janis Joplin in prima fila) nella finale ‘Blues Lady’ un country guidato da una bella chitarra dedicato alle donne forti ma piene di debolezze, una gioventù senza un punto di riferimento geografico fisso, sempre in movimento tra il New Mexico, il Texas e la California. Così anche quando canta del dilagante razzismo, di un presidente che vende menzogne, riferendosi chiaramente a Donald Trump e di proiettili vestiti di sangue nell’apparente quiete del quasi valzer ‘Situation Station’ e ‘America’ dove si chiede anche dov’è finito il sogno da sempre promesso, lui è sempre dietro l’angolo, spettatore, a volte protagonista, di esperienze raccolte in anni passati a contatto con persone di tutti i tipi durante i tanti rodei che ha portato a termine in gioventù. American Love Songs, il suo sesto album a nove anni dal premio Oscar vinto con The Weary Kind, è sostanzialmente un album dall’impalcatura blues, prodotto da Charlie Sexton, chitarra fedele di Bob Dylan, che spazia in continuazione dal personale ai forti accenni politici come lui stesso ha raccontato durante un’intervista al Texas Monthly: “è una responsabilità” dice, spiegando perché il disco vira spesso nella denuncia sociale. “I miei figli devono sapere”.
Ma se con il blues parte il disco, l’iniziale ‘Jingle And Go’, quasi festosa, trainata da un piano honky tonk e dai cori gospel si avventura on the road tra i suoi inizi musicali continua con ‘Hot House’, il giro canonico della scura ‘Got Damn Blues’ con il suo crescendo soul, nella notturna ‘Blue’, la dylaniana ‘What Would I’ve Become’, durante l’ascolto delle 15 tracce (forse troppi 66 minuti?) incontriamo anche il vecchio Bingham nel folk acustico e leggero di ‘Beautiful And Kind’, nelle atmosfere quasi west coast di ‘Lover Girl’, nel country di ‘Time For My Mind’ con l’armonica che guida, nella tesa ballata con archi ‘Stones’, e nei numeri più accesi ed elettrici come lo sbuffante rock boogie di ‘Pontiac’ che insegue il violino e ‘Nothing Holds Me Down’. Un disco diverso da quanto fatto fino ad ora, a conferma di un talento genuino che non ha paura di mettersi ancora in gioco ma soprattutto di porre serie domande a se stesso alla sua grande America. E se tutto questo non bastasse, c’è sempre la sua voce a portare a casa la partita.






RECENSIONE: RYAN BINGHAM -Fear And Saturday Night (2015)
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorrowland (2012)
RECENSIONE: RYAN BINGHAM & the DEAD HORSES Live@Sarnico(BG), 19 Giugno 2011

giovedì 14 febbraio 2019

RECENSIONE: ANTHONY MILLS (Blue Collar Work Ethic)

ANTHONY MILLS -Blue Collar Work Ethic (2019)
 
 
 
 

blues dal profondo
Non è mai troppo tardi per riscoprire le proprie radici. È quello che deve aver pensato Anthony Mills quando ha messo da parte il suo passato nella musica hip hop (anche come produttore) per buttarsi a capofitto nel rural blues, spinto dal produttore David Belafonte, figlio di Harry, che deve avergli detto qualcosa tipo: “con una voce così puoi fare e osare quello che vuoi”. E così questo ragazzone nero, ormai quarantasettenne di casa in Svezia, dal gran talento vocale ha messo giù dodici canzoni che scavano nel passato della propria famiglia che dall’agricoltura nei campi del profondo sud degli States, Lake Charles in Louisiana, si trasferì ad Akron in Ohio, la “rubber city” dove nacque, poi a Flint e Detroit nel Michigan in cerca di lavori sicuri nelle grandi industrie. Ne esce così un mix incredibile di storie con al centro operai di fabbrica e agricoltori di piantagioni, tradizioni voodoo e gospel ereditate dalle due nonne, una creola l’altra cristiana, cantate con una voce incredibilmente soul e profonda, musicate su una scarna costruzione strumentale che pur mantenendo una scarpa nella melodia pop, con l’altra scalcia la terra del blues (‘Trouble’, ‘Lousiana’), del calypso e del country ('Me And The Bottle', 'Stetson’) appoggiandosi solamente su chitarre acustiche, slide e percussioni  (cajon) dal battito etnico e tribale (‘Blue Collar Work Ethic’). Interessante.
 



martedì 12 febbraio 2019

RECENSIONE: MICHAEL CHAPMAN (True North)

MICHAEL CHAPMAN  True North (Paradise of Bachelors, 2019)
 
 
 
 
 
il magnetico trascorrere del tempo

“Se solo il tempo fosse dalla mia parte” canta MICHAEL CHAPMAN nel nuovo album TRUE NORTH che esce a due anni di distanza da 50 con una copertina che presenta un vecchio scatto in bianco e nero catturato tra la folla molti anni fa dallo stesso Chapman nel suo freddo Yorkshire e una foto sul retro a contrastare, a fermare l'esatto contrario, la solitudine, il silenzio, il freddo.
Sembra una impietosa dichiarazione sulla vita che sfugge via, imprendibile. Tutto il disco ruota lì intorno.
Gli anni quest'anno sono 78. Eppure in questi ultimi 36 mesi il chitarrista britannico si è ripreso in mano una carriera lunghissima costruita su una serie infinita di dischi partita dal lontano Rainmaker (1969) nel momento d'oro del folk britannico, rimettendosi in gioco ancora una volta splendidamente e guadagnando nuovamente le prime pagine come negli anni settanta. In verità lui non mai mollato il colpo e la critica è sempre stata dalla sua parte.
C’è ancora Steve Gunn, l’uomo del momento, a produrre e suonare la chitarra e la batteria (se ancora vi è sfuggito ascoltate il suo nuovo The Unseen In Between) ma ci sono anche la pedal steel del vecchio BJ Cole a disegnare i consueti spazi infiniti, Sarah Smout a creare grevi atmosfere con il violoncello e Bridget St. John a venire in soccorso aggiungendo la sua voce morbida che contrasta con quella ruvida, a volte stanca, di Chapman. Un’idea di band un po’ particolare che il musicista spiega così in una intervista sulla rete: ”l'intera idea dell'album era di farlo senza una sezione ritmica, senza bassi e batteria. Il grosso errore che avremmo potuto fare è provare ad essere una band rock & roll, che non siamo ".
Pochi ingredienti amalgamati benissimo insieme. Undici canzoni che raschiano l’osso: nuove (‘Bluesman’) e vecchie, più un paio di magnetici strumentali (‘Caddo Lake’, ‘Eleuthera’). Tutte però si perdono nella profonda intimità. Se 50 era il suo disco del sogno americano, rincorso da una vita, e che regalava qualche scatto più marcato, True North, registrato in Galles viaggia in più direzioni geografiche in mezzo a territori cangianti tra il Texas e le moorland britanniche, mantenendo però sempre un passo lento, cupo e magnetico costruito su magnifici giochi di chitarre. Escludendo la finale ‘Bon Ton Roolay’ che alza di una tacca il ritmo.
Personale e introspettivo all’inverosimile, True North da voce alle occasioni mancate e cerca disperatamente un altro futuro perché come canta in ‘Youth Is Wasted On The Young’: “c'erano così tanti futuri e ora non ce ne sono più ". Di una cosa però siamo sicuri: Chapman sta vivendo alla grande il suo presente di quasi ottantenne.
Mentre mezza Italia ha lo sguardo e le orecchie rivolti sulla chiassosa città della riviera ligure, è uscito questo piccolo gioiello di introspezione in musica. Il baccano e il silenzio. Basta scegliere.




RECENSIONE: STEVE GUNN-The Unseen In Between (2019)



sabato 9 febbraio 2019

RECENSIONE: STEVE RUDIVELLI (Brianza Texas Radio)

STEVE RUDIVELLI  Brianza Texas Radio (2018)




musica per organi caldi
Che Steve Rudivelli fosse un personaggio lo avevo già capito vedendo alcuni suoi video su Youtube che su pornhub troverebbero posto nella categoria “amatoriale”: quelli dove è seduto nel sedile della sua auto parcheggiata chissà dove con occhiali da sole e cappello in testa, una chitarra tra le mani, l’armonica al collo e le sue storie talmente comuni da diventare letteralmente fuori dal comune. Quasi folli.
Finalmente ho in mano un suo disco. Brianza Texas Radio è la summa del suo pensiero rock: diciannove canzoni tra demo e ripescaggi dai suoi dischi passati dove il protagonista assoluto è il caro vecchio rock’n’roll elettrico nelle sue tante vesti, ma dove predilige gli abiti più sdruciti e vintage, macchiati di alcol, rossetto e chissà cos'altro.
Musica per organi caldi, che viaggia secca, spedita e grezza nel country rock come fosse uscita da John Wesley Harding di Dylan (‘Blue Jeans Girl’), da un vecchio e impolverato disco rock’n’roll anni 50 di Chuck Berry (‘Rock’n’roll Serenade’, ‘Titty Love’), dalla chitarra rockabilly di Brian Setzer o dagli anni settanta di Edoardo Bennato ('Hey Hey Rockabilly').
Gente comune, donne facili e ragazze irraggiungibili, sentimenti bollenti, vecchi cani fedeli e banconi di bar affollati nell'ora di punta, spesso vuoti di cuori e ricchi di alcol per anime perse e solitarie a tarda notte ch'è già prima mattina. Tacchi a spillo, pelle profumata, cicche appiccicose e bicchieri di gin tonic amari mandati giù in fretta dall'ultimo perdente del paese.
Le sue storie di ordinaria follia senza luogo e tempo potrebbero essere ambientate in pianura padana come nei deserti al confine messicano, tra la landa di terra paludosa che si affaccia nelle acque del Mississippi o sopra il ponte che attraversa il Molgora nella sua Brianza, all’hotel California come in quel motel ai bordi della A4 che si intravede sfrecciando con la macchina a tarda notte. Bella la melodia soffusa e notturna di 'Al Night Manila'.
Rockeggia che è un piacere tanto che alzare il volume dello stereo è un'azione quasi spontanea, poi alla fine piazza due folk acustici, chitarra e armonica, (‘Billy Frank’, ‘Jack And Mary’) che ci mostrano anche l’altra faccia (another side di Steve Rudivelli), non meno interessante, del suo repertorio. E si torna in quel parcheggio sopra al sedile dell’auto.
Rudivelli è un po' il Bukowski italiano del rock'n'roll.







martedì 5 febbraio 2019

RECENSIONE: TIJUANA HORROR CLUB (The Big Swindle)

TIJUANA HORROR CLUB  The Big Swindle (2019)
 
 
 
 
Brescia rock city
Non capita tutti i giorni che un gruppo rock citi tra le proprie influenze principali Django Reinhardt. Ma se avete visto almeno una volta dal vivo il gruppo bresciano capirete perché: dal grande chitarrista jazz franco-sinti, i Tijuana Horror Club hanno ereditato sì lo swing, ma principalmente quella gran strafottenza e spirito di rivalsa contro le avversità della vita che li fa emergere in mezzo al mare di mediocrità. Si chiama anche personalità. Se dovessimo riempire quel bicchiere presente nella copertina del loro secondo album The Big Swindle, con gli ingredienti che compongono la loro offerta musicale probabilmente non basterebbe, ci vorrebbe almeno una bottiglia da un litro. Preferibilmente con un'etichetta che indichi l'elevato grado alcolico. Voce greve e cavernosa quella del chitarrista Joey Gaibina che spesso riporta alla mente il Tom Waits delle sperimentazioni ma pure Howlin Wolf pare entrare nella partita a voce grossa, piano rock’n’roll saettante  alla Jerry Lee Lewis, o come un Elton John in loop su 'Crocodile Rock' ma anche in grado di preziosismi suonato da Alberto Ferrari (anche voce), ritmiche swing (Mario Agnelli alla batteria e Davide Rudelli al basso) tanta carica iconoclasta ereditata da rock'n'roll (provare 'Same Ol' Story'), punk e psychobilly, la teatralità perversa, scockante e bluesy di Screaming Jay Hawkins e testi immaginifici ma totalmente ricavati dal quotidiano vivere. Non è forse una “grande truffa” questa vita? La finale ‘Tarantella Anti-Siae’ è una patchanka  che potrebbe essere un inno adottato da ogni musicista indipendente (e no). Ai loro concerti si suda e si balla, davanti al loro disco è impossibile stare fermi con le gambe, fin dall'iniziale 'Canton Mombello Swing'  con i suoi contagiosi fiati. Live e disco: effetto identico.
Per questo secondo album, poi, fanno le cose in grande: l'esperienza di Ronnie Amighetti che produce nei suoi studi e tanti amici che hanno lasciato il loro segno e bevuto un bicchiere. Dal grande bluesman della valcamonica Cek Franceschetti che si aggira come un diavolo tentatore lungo le canzoni lasciando la sua benedizione, la chitarra e la voce in ‘The Devil’s Blues’, a Andy MacFarlane che i più anziani ricorderanno negli Hormonauts ora nei Rock and Roll Kamikazes presente nell'alcolica 'The Devil, The Reaper & The Saloon-Keeper', a Andrea Bresciani dei concittadini Hell Spet che suona il contrabbasso in due brani. Se vi capitano a tiro, andate loro incontro senza timore e con un bicchiere in mano. Anche vuoto, a riempirlo ci penseranno loro. L'importante è fidarsi.
 

 

 

domenica 3 febbraio 2019

STEVE FORBERT live@Chiari (BS), 2 Febbraio 2019







STEVE FORBERT live@Chiari (BS), 2 Febbraio 2019

 “Nel disco suono la mia musica”. Fu più o meno la frase che un ventiquattrenne  ma già deciso Steve Forbert disse ai signori incravattati della Epic quando nel 1978 si guadagnò un contratto discografico per il suo debutto Alive On Arrival. Era un ragazzo carico di speranze proveniente dal lontano Mississippi che a New York cercò e trovò la sua strada tra le strade del Greenwich village e le stanze del CBGB. Ieri sera mi è capitato spesso di guardare la sua faccia, e dietro agli inevitabili segni del tempo vederci ancora quella ritratta nelle copertine dei suoi primi tre dischi: la stessa espressione e due occhi che sembrano non mentire sulla determinazione ma anche sulla romantica bontà delle sue canzoni.
Fuori dal salone Marchetti di Chiari, messo a disposizione dall'associazione ADMR, diluvia, dentro Forbert snocciola la sua carriera con il mestiere del folksinger navigato dove le due anime contrastanti vengono bene in evidenza: il suo modo di suonare la chitarra acustica, così sgraziato e impetuoso tanto da mandare all'aria le corde a ogni fine canzone ( accorda la chitarra prima di ogni canzone, inganna il tempo perso con qualche battuta), i potenti battiti dello stivale sulla stomp box, il soffio deciso sull’armonica, contrastano con i quadri poetici delle canzoni, caricate di ritornelli spesso facili (che cerca di far cantare anche a noi come su ‘All I Nedd To Do- JESSICA’) e ombre nostalgiche ('Tonight I Feel So Far Away From Home') e malinconiche che si allungano tra marciapiedi lontani e delicati petali di rose. Il mio debole per alcune ballate del suo debutto è stato appagato. Anche una bella ‘I’m An Automobile’ dal sempre dimenticato terzo disco Little Stevie Orbit . Partendo dall’iniziale ‘Thinkin’ fino a ‘Romeo’ s Tune’ (accompagnato dal bravo Paolo Ercoli alla dobro, ma anche mandolino, che ha arricchito di sfumature la seconda parte di concerto), le due canzoni capaci di fargli guadagnare un po’ di notorietà a inizio carriera, in mezzo ci mostra quanto il suo folk sia in verità anche figlio del blues della terra natia (bella ‘What Kinda Guy? ‘), ma soprattutto ci mostra la ritrovata serenità dopo l'ultima battaglia vinta contro la malattia ben testimoniata dall’ ultimo disco

The Magic Tree, infarcito di ottime canzoni raccolte nel tempo ('The Magic Tree', 'Let' s Get High') e dall’autobiografia che lo accompagna. E questa è la cosa più bella. Una nota di merito anche per i due fratelli bresciani Corvaglia che sotto il nome Crowsroads hanno aperto il concerto e di cui ho già avuto modo di parlare in altre occasioni. (Recensione: THE CROWSROADS-Reels 2016)
 Faranno sicuramente strada. Forse non hanno scelto la via più semplice da percorrere per dei ventenni catapultati alla ribalta musicale in questi anni duemila, ma sicuramente la più appagante e la bella storia artistica di Forbert, sicuramente non bagnata dal grande successo ma dall'onestà é certamente un buon esempio da seguire. Bella serata.







The CrowsRoads



RECENSIONE: STEVE FORBERT-The Magic Tree (2018)