MONSTER MAGNET Mindfucker (Napalm Records, 2018)
Esplorato l’intero universo con lo space rock, pesante e stonato dei primi dischi, prima o poi era inevitabile la ricaduta sulla terra (avvenuta all’incirca con POWERTRIP, anno 1998 ), abbracciando con fervore il groove hard rock'n'roll con alti e bassi, dettati dell'umore del leader Dave Wyndorf, a sua volta dettato dagli agenti esterni più pericolosi per uomo . Oggi in ottima salute direi. Anche se qualche stella lontana riescono ancora ad acciuffarla (la lunga e acida ‘Drowning’, ‘All Day Midnight’), MINDFUCKER ha i piedi ben piantati al suolo del loro New Jersey e ampie zone limitrofe: ‘Ejection’ (sotto il video) e ‘Want Some’ potrebbero essere il parto tra Iggy Pop e Josh Homme se il loro matrimonio non fosse stato troppo fighetto ma avesse messo in gioco l’istinto più garage (siamo dalla parte degli Stooges) e selvaggio dei due. ‘I’m God’ è tutta lì in quel titolo quasi autobiografico di un’intera carriera, arrivata quasi al trentennale. L’iniziale triade (‘Rocket Freak’, ‘Soul’,’Mindfucker’) e la fine (‘When The Hammer Comes Down’) sono pure mazzate hard rock, le prime dirette, dall’istinto garage e psichedeliche il giusto, la seconda figlia cadenzata dello stoner dei novanta, campo da loro conosciuto e arato. E poi c'è ‘Brainwashed’ che fa storia a sé von il tiro e l’epicità da classico degli anni settanta, e la butto lì: un Nick Cave con baffi a manubrio (Grinderman) che prende il posto di Paul Di'Anno nei primissimi Iron Maiden figli diretti del punk. Pollice su. Un grande ritorno.
martedì 27 marzo 2018
lunedì 26 marzo 2018
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 56: BOB DYLAN (Planet Waves)
BOB DYLAN Planet Waves (1974)
Recentemente, ascoltando Southern Blood ,l’epitaffio di Gregg Allman, mi sono imbattuto ancora una volta in ‘Going Going Gone’, stupenda, oscura e sempre sottovalutata canzone di un album dalla copertina enigmatica quasi alla Picasso, dominato da tre misteriose figure in bianco e nero, due simboli ben chiari e quelle due scritte a margine “Moonglow” e “Cast-iron songs & torch ballads” che creano confusione sulla vera identità del titolo e che vorrebbero fare da introduzione a un disco che indicò, ancora timidamente ma più marcatamente rispetto al precedente NEW MORNING, la strada musicale del nuovo decennio. PLANET WAVES è il disco delle prime volte e dei grandi ritorni: il primo e unico disco ufficiale lavorato e registrato interamente insieme a The Band in studio di registrazione, il primo e unico disco che non uscì per la Columbia (l’etichetta si vendicò stampando gli scarti del periodo), il primo disco di Dylan a finire al primo posto in classifica dove rimase per quattro settimane trainato anche dalla pubblicità della nuova etichetta Asylum di David Geffen, anche se alla fine tutto durò poco e non in modo così entusiasmante come sperato in partenza. Fu anche il primo disco registrato in un luogo che non fu New York né Nashville, fu il disco che riportò Dylan in tour, il tour che Geffen vendette come “il più grande evento nella storia dello show business” (40 date in 25 città) cosa che non succedeva dal lontano 1966 e il tutto verrà impresso nell’album live BEFORE THE FLOOD. Il primo album live ufficiale di Dylan. Robbie Robertson: “Quando suonavamo dal vivo, la musica diventava dinamica, violenta ed esplosiva. Quando suonavamo in studio invece…”
Un tour che, conti alla mano, fece più successo del disco in promozione, che ironia della sorta finì pure per uscire a tour già iniziato.
Fu il disco che per molti sancì il vero ritorno di Dylan.
Registrato in poco più di una settimana e in tre sedute di registrazione nel Novembre del 1973, PLANET WEAVES prese forma a Los Angeles anche se molte canzoni vennero scritte a New York. L’idea originale racconta di un primo abbozzo di album che sarebbe dovuto uscire con il titolo Ceremonies Of The Horsemen.
“Era impressionante produrre qualcosa di così potente in così poco tempo” disse il co produttore e ingegnere del suono Rob Fraboni.
Nato dalla scintilla che scaturì tra Robbie Robertson e Bob Dylan che si ritrovarono quasi per caso a oziare a Malibu (ci fu lo zampino del furbo Geffen), a risentirne o beneficiarne (punti di vista) è l’umore generale che veleggia sulle canzoni: un senso di rilassatezza che fa convivere la semplice quotidianità che caratterizzò il periodo post incidente a Nashville (l’apertura ‘On A Night Like This’) con l’oscurità e il presagio di qualcosa che non stava andando per il verso giusto; ecco l’amore vissuto in modo contrastante (il folk di ‘Weeding Song’ dedicata indubbiamente a Sara scritta da Dylan in un batter d’occhio e che andò a sostituire la già pronta 'Nobody 'Cept You' poi comparsa sulle Bootleg series) con l’autobiografica, amara e dura analisi di se stesso: ‘Dirge’, voce e pianoforte è forse il capolavoro nascosto, una canzone dura, cruda e cinica come solo può essere una canzone che attacca con la frase “mi odio perché ti ho amato e per la debolezza dimostrata” e “sono felice che il sipario sia calato”, “ma sopravvivrò ” è il finale. E non sai mai quando inizia l’amore e quando il rimpianto: in ‘Something There Is About You’ si parla di amore, di morte e della sua vecchia Duluth. Non tutto è ancora bene a fuoco e la travagliata vita di un brano come ‘Forever Young’, il più famoso del disco che diventerà un classico del suo repertorio, quasi inno (suo malgrado), canzone che Dylan scrisse a Tucson e che dedicò a uno dei suoi figli (Jakob?), è l’esempio più significativo: gli girava in testa da cinque anni e dopo aver addirittura pensato di escluderla una volta scritta, sotto l’insistenza del co produttore Rob Fraboni ne inserirà addirittura due versioni, una per lato. Una annulla l’altra o inspessiamo il concetto? Una terza, in solitaria, si materializzerà su Biograph. Un disco nato in fretta che rincorre il poco tempo. Per questo rimane sempre affascinante, e nonostante sia stato registrato in California, nella mia testa è sempre stato avvolto in una strana foschia novembrina che galleggia intorno a foglie secche, fuochi accesi e il rassicurante, caldo suono della Band che accompagna lì dietro. Se non è autunno questo? Oggi è primavera!
Recentemente, ascoltando Southern Blood ,l’epitaffio di Gregg Allman, mi sono imbattuto ancora una volta in ‘Going Going Gone’, stupenda, oscura e sempre sottovalutata canzone di un album dalla copertina enigmatica quasi alla Picasso, dominato da tre misteriose figure in bianco e nero, due simboli ben chiari e quelle due scritte a margine “Moonglow” e “Cast-iron songs & torch ballads” che creano confusione sulla vera identità del titolo e che vorrebbero fare da introduzione a un disco che indicò, ancora timidamente ma più marcatamente rispetto al precedente NEW MORNING, la strada musicale del nuovo decennio. PLANET WAVES è il disco delle prime volte e dei grandi ritorni: il primo e unico disco ufficiale lavorato e registrato interamente insieme a The Band in studio di registrazione, il primo e unico disco che non uscì per la Columbia (l’etichetta si vendicò stampando gli scarti del periodo), il primo disco di Dylan a finire al primo posto in classifica dove rimase per quattro settimane trainato anche dalla pubblicità della nuova etichetta Asylum di David Geffen, anche se alla fine tutto durò poco e non in modo così entusiasmante come sperato in partenza. Fu anche il primo disco registrato in un luogo che non fu New York né Nashville, fu il disco che riportò Dylan in tour, il tour che Geffen vendette come “il più grande evento nella storia dello show business” (40 date in 25 città) cosa che non succedeva dal lontano 1966 e il tutto verrà impresso nell’album live BEFORE THE FLOOD. Il primo album live ufficiale di Dylan. Robbie Robertson: “Quando suonavamo dal vivo, la musica diventava dinamica, violenta ed esplosiva. Quando suonavamo in studio invece…”
Un tour che, conti alla mano, fece più successo del disco in promozione, che ironia della sorta finì pure per uscire a tour già iniziato.
Fu il disco che per molti sancì il vero ritorno di Dylan.
© Barry Feinstein, 1974 |
© Neal Preston, 1976
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martedì 20 marzo 2018
It's Just Another Town Along The Road, tappa 6: GUY LITTELL (One Of Those Fine Days)
Ho conosciuto Gaetano Di Sarno (in arte Guy Littell) in occasione dell'uscita di LATER, album del 2011. Sono passati sei anni, nel frattempo è uscito l'album WHIPPING THE DEVIL BACK (2014) e finalmente quest'anno l'ho incontrato di persona al concerto di Ryan Adams a Gardone, eravamo pure seduti vicini. Già, Ryan Adams, uno dei suoi punti fermi musicali. Durante una vecchia intervista fatta per Impatto Sonoro a ridosso dell'album Later, gli chiesi se avesse qualche sogno nel cassetto. Mi rispose: "il mio sogno nel cassetto è quello di continuare quello che sto facendo, di suonare il più possibile e incidere dischi, non chiedo altro...". Bene, credo che quel modesto sogno si sia avverato: sta continuando a fare quello che più gli piace, suona ed ha inciso un altro bel disco, andando oltre il sogno, perché ONE OF THOSE DAYS, presentato dalla bella grafica di copertina credo sia un grande passo in avanti, un disco che mette sempre in mostra la peculiarità della sua scrittura che si nutre di forti contrasti ma questa volta sembra funzionare molto meglio che nel recente passato. Se da una parte troviamo canzoni con le chitarre a dominare l’urgenza della bella ‘New Records And Clothes’, di ‘Song From A Dream’, di una ‘Love It’ che sembra penetrare lo spettro sonoro più articolato dei REM o di 'Cheating Morning' che mette bene in fila i suoi gusti musicali dichiarati: c'è il Neil Young più rock, quello accompagnato dai Crazy Horse, ci sono le chitarre elettriche degli amati Dream Syndicate di Steve Wynn del quale ricordiamo la prestigiosa partecipazione nel precedente disco. Dall’altra parte, quella acustica e sensibile, intimista, dominata dalla luce e dalle ombre con queste ultime a prevalere, troviamo l’apparente leggerezza di ‘Better For Me’, ‘Twenty Six’, ‘Don't Hide’ e ’Old Soul’ con la chitarra ospite di Kevin Salem. Il disco, uscito solo pochi giorni fa (14 Dicembre) ha la sua forza nella variabile track list che alterna le montagne elettriche con le pianure acustiche: scaletta in grado di accontentare qualsiasi buon ascoltatore di classic rock.
Foto: Pasquale D'Orsi |
In viaggio con Guy Littell
1)I km nel tuo disco. Il viaggio ha influenzato le tue canzoni?
Viaggi immaginari soprattutto. Mi viene in mente 'Small American Town' dal mio album LATER del 2011. Non sono mai stato negli Stati Uniti ma ho guardato molti film e letto molti libri e ho sviluppato una mia idea che mi ha ispirato a scrivere quel brano, in cui la piccola città americana rappresenta uno stato d'animo preciso.
2)Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove torni spesso e volentieri?
Di positivo c'è sempre il bello del viaggiare e suonare. Quello non cambierà mai. L'aspetto negativo è che può capitare la serata dove il pubblico non sia particolarmente attento e non vorresti ritrovarti a chiedere di fare silenzio. Ti accorgi quindi che la location non è adatta, non è colpa del pubblico se il locale ha deciso solo da un paio di giorni di fare serate di un certo tipo. Se il pubblico non è stato 'educato' a certe atmosfere è difficile fargli prestare attenzione, fargli smettere di conversare da un giorno all'altro. Quindi sarebbe bello avere più locali che propongono con assiduità certa musica. Se invece sei con band è diverso, la comunicazione di solito funziona meglio, almeno questa è la mia percezione. Mi sono sempre trovato bene al Mamamu, locale storico di Napoli, spero di suonarci presto con i ragazzi.
3)Radici o vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita?
Radici, anche se ascoltando la mia musica non si direbbe. Però ho sempre amato il concetto di vagabondaggio e credo di vagabondare molto, anche nel percorso di 20 minuti che faccio a piedi dal centro di Torre del Greco fino a casa, in alcune sere.
4)Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni?
Beh sicuramente mi sarebbe piaciuto aprire per Neil Young e Replacements/Paul Westerberg o Afghan Whigs o Ryan Adams, di nessun tour in particolare, ma e' qualcosa che mi piacerebbe ancora fare, nel presente.Tra vent' anni? Non ne ho la minima idea, spero però di essere sempre in buona salute, innanzitutto.
5)La canzone da viaggio che non manca mai durante i tuoi spostamenti.
Non ne ho una fissa, al momento mi viene in mente 'Cast No Shadow' degli Oasis
RECENSIONE:GUY LITTELL: Later (2011)
INTERVISTA 2011
RECENSIONE: GUY LITTELL (Whipping The Devil Back) & INTERVISTA a GUY LITTELL Giugno 2014
RECENSIONE:GUY LITTELL: Later (2011)
INTERVISTA 2011
RECENSIONE: GUY LITTELL (Whipping The Devil Back) & INTERVISTA a GUY LITTELL Giugno 2014
It's Just Another Town Along The Road
tappa 1: GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS/HERNANDEZ & SAMPEDRO
tappa 2: LUCA MILANI
tappa 3: PAOLO AMBROSIONI & THE BI-FOLKERS
tappa 4: MATT WALDON
tappa 5: LUCA ROVINI
tappa 4: MATT WALDON
tappa 5: LUCA ROVINI
giovedì 15 marzo 2018
RECENSIONE: NATHANIEL RATELIFF & THE NIGHT SWEATS (Tearing At The Seams)
NATHANIEL RATELIFF & THE NIGHT SWEATS Tearing At The Seams (Stax Records, 2018)
cuore, attributi e cervello
Nella vita si cambia per non morire. Nathaniel Rateliff era destinato a soccombere sotto un canonico suono folk rock inflazionatissimo, quello su cui erano costruiti i suoi primi tre dischi solisti. Tutto questo fino all’incontro con una masnada di sette brutti ceffi (i Night Sweats) che, a suon di ipervitaminico R&B e southern soul con una sezione fiati che fa la differenza, hanno estrapolato il suo vero punto di forza: una voce baritonale che ama mettersi in competizione con quella dei migliori esponenti del genere. Anche se la partita è dura fin dalla partenza, Rateliff sa scrivere canzoni, esaltare e far muovere le gambe: il crescendo di ‘S.O.B.’ (sì, proprio Son Of A Bitch) è sconsigliato con un volante tra le mani. Ho già provato io per voi. Prendete un po’ di Otis Redding , Wilson Pickett e di Sam Cooke, mischiatelo ad un’attitudine garage rock da band del sud e avrete le vivaci, arrembanti e genuine canzoni di questo nuovo inizio. La rinata Stax, infine, ci mette il sigillo di qualità. Poi, a meno di un anno dall’uscita, ecco l’appendice A LITTLE SOMETHONG MORE FROM… . Come le copertine vogliono dimostrare: dopo il cuore, ecco serviti gli attributi. Ma, in verità, poco cambia e l’EP di otto canzoni, trainato dal singolo ‘Out On The weekend’ e da una versione live di ‘Wasted Time’ registrata allo Stax Museum Of American Soul Music (dove altrimenti?), è la riconferma del nuovo, ora già collaudato, talento che cerca di battere il chiodo finché caldo. E il chiodo penetra con gran piacere… 2018, dopo il cuore e gli attributi, giustamente, ecco il cervello. Anche se sostanzialmente non cambia nulla, TEARING AT THE SEAMS è però il disco della maturità, e si sente, il più personale a livello di testi “quando mi sono seduto a scrivere canzoni, sapevo quello che stavo scrivendo e la mia fissa era ‘quanto onesto ho intenzione d’essere’?” e pure musicalmente, perché qui non c'è un’altra ‘SOB’ a trascinare ma semplicemente dodici canzoni (14 nella deluxe edition) che partono tutte dallo stesso scalino, costruite con grande classe e perizia sia quando Rateliff gioca a fare Otis Redding (il micidiale groove di ‘Intro’, ‘Coolin Out’) sia quando ripercorre gli ultimi quarant’anni di musica americana inseguendo gli imprendibili The Band (‘Hey Mama’, ‘Say It Louder’) e Paul Simon con una ‘Still Out There Running’ che ricorda il genio di uno dei più grandi autori americani di sempre. Rallenta la velocità rispetto ai precedenti lavori ma la notturna soul ballad ‘Babe I Know’ conquista al primo ascolto come la più scatenata delle canzoni potrebbe fare. Pure se esce leggermente dal recinto che si è costruito con le più moderne ‘Shoe Boot’ che apre il disco e con il singolo ‘You Worry Me’, in grado di giocarsi le sue astute carte nelle charts odierne, tutto gira che è un piacere.
cuore, attributi e cervello
Nella vita si cambia per non morire. Nathaniel Rateliff era destinato a soccombere sotto un canonico suono folk rock inflazionatissimo, quello su cui erano costruiti i suoi primi tre dischi solisti. Tutto questo fino all’incontro con una masnada di sette brutti ceffi (i Night Sweats) che, a suon di ipervitaminico R&B e southern soul con una sezione fiati che fa la differenza, hanno estrapolato il suo vero punto di forza: una voce baritonale che ama mettersi in competizione con quella dei migliori esponenti del genere. Anche se la partita è dura fin dalla partenza, Rateliff sa scrivere canzoni, esaltare e far muovere le gambe: il crescendo di ‘S.O.B.’ (sì, proprio Son Of A Bitch) è sconsigliato con un volante tra le mani. Ho già provato io per voi. Prendete un po’ di Otis Redding , Wilson Pickett e di Sam Cooke, mischiatelo ad un’attitudine garage rock da band del sud e avrete le vivaci, arrembanti e genuine canzoni di questo nuovo inizio. La rinata Stax, infine, ci mette il sigillo di qualità. Poi, a meno di un anno dall’uscita, ecco l’appendice A LITTLE SOMETHONG MORE FROM… . Come le copertine vogliono dimostrare: dopo il cuore, ecco serviti gli attributi. Ma, in verità, poco cambia e l’EP di otto canzoni, trainato dal singolo ‘Out On The weekend’ e da una versione live di ‘Wasted Time’ registrata allo Stax Museum Of American Soul Music (dove altrimenti?), è la riconferma del nuovo, ora già collaudato, talento che cerca di battere il chiodo finché caldo. E il chiodo penetra con gran piacere… 2018, dopo il cuore e gli attributi, giustamente, ecco il cervello. Anche se sostanzialmente non cambia nulla, TEARING AT THE SEAMS è però il disco della maturità, e si sente, il più personale a livello di testi “quando mi sono seduto a scrivere canzoni, sapevo quello che stavo scrivendo e la mia fissa era ‘quanto onesto ho intenzione d’essere’?” e pure musicalmente, perché qui non c'è un’altra ‘SOB’ a trascinare ma semplicemente dodici canzoni (14 nella deluxe edition) che partono tutte dallo stesso scalino, costruite con grande classe e perizia sia quando Rateliff gioca a fare Otis Redding (il micidiale groove di ‘Intro’, ‘Coolin Out’) sia quando ripercorre gli ultimi quarant’anni di musica americana inseguendo gli imprendibili The Band (‘Hey Mama’, ‘Say It Louder’) e Paul Simon con una ‘Still Out There Running’ che ricorda il genio di uno dei più grandi autori americani di sempre. Rallenta la velocità rispetto ai precedenti lavori ma la notturna soul ballad ‘Babe I Know’ conquista al primo ascolto come la più scatenata delle canzoni potrebbe fare. Pure se esce leggermente dal recinto che si è costruito con le più moderne ‘Shoe Boot’ che apre il disco e con il singolo ‘You Worry Me’, in grado di giocarsi le sue astute carte nelle charts odierne, tutto gira che è un piacere.
lunedì 12 marzo 2018
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 55: CHRIS WHITLEY (Living With The Law)
CHRIS WHITLEY Living With The Law (1991)
Quando uscì questo debutto, la rivista Rolling Stone, ma un po’ tutta la critica musicale, non si risparmiò in elogi e lo premiò, tanto da dichiararlo la migliore opera prima dell’anno 1991. Whitley riuscì pure, grazie all’etichetta Columbia (che però lo scaricò al terzo disco) e al suo scopritore Daniel Lanois, a girare in tour con pezzi grossi come Bob Dylan e Tom Petty, ma era scritto nel destino che il suo futuro non potesse convivere con un certo star system già avviato e ben oliato: anima selvaggia, troppo tormentata e testarda per affrontare un eventuale successo che comunque mai avvicinò (suicida la scelta di uscire con il seguito, DIN OF ECSTASY, a ben quattro anni di distanza), nonostante canzoni come ‘Kick The Stone’ contenuta qui e nella colonna sonora del film campione d’incassi Thelma & Louise e il buon potenziale di ‘Big Sky Country’ avessero tutte le carte in regola per vincere più mani. Insomma, c’era tutto quello che un artista al debutto avrebbe sognato. L’infanzia da vagabondo seguendo i continui pellegrinaggi dei genitori (nato a Houston, si trasferì a Dallas, Connecticut, Mexico, Vermont) e i tormentati rapporti con il padre dopo il divorzio dei genitori furono i primi ostacoli di una vita vissuta sempre sull’orlo del precipizio, a cui si aggiunsero in seguito la continua ricerca di una stabilità esistenziale (da New York finì in Belgio, fino al ritorno in patria), il fallimento del matrimonio da cui nacque la figlia Trixie (che seguì le orme del padre, debuttando nel mondo discografico nel 2013), l’alcolismo che lo accompagnò fino alla precoce morte in totale solitudine a soli 45 anni per un male incurabile ai polmoni. Nonostante abbia sempre dichiarato di non amare il modo troppo pulito con cui furono registrate queste dodici canzoni prodotte da Malcolm Burn-l’album fu registrato nello studio casalingo di Lanois a New Orleans-LIVING WITH LAW rimane uno dei più importanti start di carriera degli anni novanta: la National steel guitar in bella evidenza, la voce calda e sanguinante era a proprio agio sia nei momenti più elettrici (‘Dust Radio’, ‘Bordertown’) che nei momenti acustici (‘Make The Dirt Stick’) e desertici. In seguito Whitley riuscì anche a raggiungere quella perfezione musicale che stava inseguendo, fatta di tanti spigoli, blues scarnificato fino all’osso, sperimentalismi (difficile inquadrarlo) ma sempre lontano dal grande pubblico e da un mondo che non lo metteva a proprio agio. Mai. Una parte della sua vena poetica pompata direttamente da un cuore sempre debole ma caldo come pochi, è cicatrizzata nei solchi di questo disco. A lui, però, non fatelo sapere.
Quando uscì questo debutto, la rivista Rolling Stone, ma un po’ tutta la critica musicale, non si risparmiò in elogi e lo premiò, tanto da dichiararlo la migliore opera prima dell’anno 1991. Whitley riuscì pure, grazie all’etichetta Columbia (che però lo scaricò al terzo disco) e al suo scopritore Daniel Lanois, a girare in tour con pezzi grossi come Bob Dylan e Tom Petty, ma era scritto nel destino che il suo futuro non potesse convivere con un certo star system già avviato e ben oliato: anima selvaggia, troppo tormentata e testarda per affrontare un eventuale successo che comunque mai avvicinò (suicida la scelta di uscire con il seguito, DIN OF ECSTASY, a ben quattro anni di distanza), nonostante canzoni come ‘Kick The Stone’ contenuta qui e nella colonna sonora del film campione d’incassi Thelma & Louise e il buon potenziale di ‘Big Sky Country’ avessero tutte le carte in regola per vincere più mani. Insomma, c’era tutto quello che un artista al debutto avrebbe sognato. L’infanzia da vagabondo seguendo i continui pellegrinaggi dei genitori (nato a Houston, si trasferì a Dallas, Connecticut, Mexico, Vermont) e i tormentati rapporti con il padre dopo il divorzio dei genitori furono i primi ostacoli di una vita vissuta sempre sull’orlo del precipizio, a cui si aggiunsero in seguito la continua ricerca di una stabilità esistenziale (da New York finì in Belgio, fino al ritorno in patria), il fallimento del matrimonio da cui nacque la figlia Trixie (che seguì le orme del padre, debuttando nel mondo discografico nel 2013), l’alcolismo che lo accompagnò fino alla precoce morte in totale solitudine a soli 45 anni per un male incurabile ai polmoni. Nonostante abbia sempre dichiarato di non amare il modo troppo pulito con cui furono registrate queste dodici canzoni prodotte da Malcolm Burn-l’album fu registrato nello studio casalingo di Lanois a New Orleans-LIVING WITH LAW rimane uno dei più importanti start di carriera degli anni novanta: la National steel guitar in bella evidenza, la voce calda e sanguinante era a proprio agio sia nei momenti più elettrici (‘Dust Radio’, ‘Bordertown’) che nei momenti acustici (‘Make The Dirt Stick’) e desertici. In seguito Whitley riuscì anche a raggiungere quella perfezione musicale che stava inseguendo, fatta di tanti spigoli, blues scarnificato fino all’osso, sperimentalismi (difficile inquadrarlo) ma sempre lontano dal grande pubblico e da un mondo che non lo metteva a proprio agio. Mai. Una parte della sua vena poetica pompata direttamente da un cuore sempre debole ma caldo come pochi, è cicatrizzata nei solchi di questo disco. A lui, però, non fatelo sapere.
sabato 3 marzo 2018
RECENSIONE: JONATHAN WILSON (Rare Birds)
JONATHAN WILSON Rare Birds (Bella Union Records, 2018)
La musica come guarigione
Non si presenta benissimo agli occhi RARE BIRDS, il nuovo
disco di JONATHAN WILSON: la copertina è assai brutta e non sembra promettere
nulla di buono! Ma dura poco: il tempo di uno sguardo, perché tutto il grosso è
racchiuso nei settantotto ispirati minuti del disco (doppio in vinile) e c’è
bisogno delle orecchie bene aperte per andare avanti, nonostante il nostro
abbia creato un libretto assai ricco da sfogliare con tanto di testi e
disegnini creati dalla sua fervida mente. Bisogna prendersi un po’ di tempo per cercare di seguire la
magniloquente visione musicale di Wilson che ondivaga dentro la musica
generando un complesso ma liquido e spesso soffice vortice che ingloba sia le
recenti e segnanti collaborazioni con Roger Waters (le pinkfloydiane ‘Me’ e ‘Sunset Blvd.’ dove vengono citati pure i Creedence Clearwater Revival), e Father John Misty, ospite in ’49 Haiflips’, quanto un inaspettato
salto indietro o in avanti, dipende dai punti di visti, negli anni ottanta
musicali, gli stessi amati dai War On Drugs, con ‘Over The Midnight’ (“un
immaginario luogo sacro per gli amanti”), il primo singolo che vede la massiccia presenza di synth e drum machine. (Qualcuno non gradirà).
Meno Laurel Canyon quindi-lui stesso ha dichiarato di essere stufo del continuo paragone con CSN&Y seppur li ami follemente e la title track ha il passo chitarristico di Neil Young-più viaggi di guarigione e riconciliazione nei grandi spazi della mente generati da una recente rottura amorosa ("c'è un giardino nella distesa della tua mente" canta in 'There's A Light') e negli anni ottanta musicali di Peter Gabriel, Kate Bush, Arthur Russell e Mark Hollis ma pure inseguendo i Beatles psichedelici di Sgt Peppers nel crescendo di archi in 'Miriam Montague'.
“Penso che abbiamo bisogno di viaggiare nel suono per raggiungere la speranza e la positività” dice. Liquidità espressiva ben impressa in una canzone come ‘Loving You’ con i vocalizzi ambient new age di Laraaji e di Lana Del Rey (ospite anche in 'Living With Myself' ). Certamente il lavoro più personale e ambizioso fino a qui. E chi lo aveva amato per quei suoni californiani che riportavano direttamente alla stagione d’oro della west coast psichedelica (sprazzi ariosi e pop in 'There's A Light' e di country cosmico in ‘Hi-Ho The Righteous' con la pedal steel di Greig Leisz) dovrà in parte ricredersi e provare a seguirlo in questo nuovo lungo e altrettanto non facile viaggio che parte con una sostenuta camminata per 'Trafalgar Square' e si conclude con il quieto pianoforte di ‘Mulholland Drive’ dalle parti di Bel Air e Topanga Creek. Artista a tutto tondo, produttore e, ora come ora, uno dei pochi ponti lisergici e credibili tra passato e presente, USA e UK, tra rock e sogno. Tanto sogno. Lo avevo già scritto. Qui Wilson lo conferma in modo diverso ma lo conferma.
Meno Laurel Canyon quindi-lui stesso ha dichiarato di essere stufo del continuo paragone con CSN&Y seppur li ami follemente e la title track ha il passo chitarristico di Neil Young-più viaggi di guarigione e riconciliazione nei grandi spazi della mente generati da una recente rottura amorosa ("c'è un giardino nella distesa della tua mente" canta in 'There's A Light') e negli anni ottanta musicali di Peter Gabriel, Kate Bush, Arthur Russell e Mark Hollis ma pure inseguendo i Beatles psichedelici di Sgt Peppers nel crescendo di archi in 'Miriam Montague'.
“Penso che abbiamo bisogno di viaggiare nel suono per raggiungere la speranza e la positività” dice. Liquidità espressiva ben impressa in una canzone come ‘Loving You’ con i vocalizzi ambient new age di Laraaji e di Lana Del Rey (ospite anche in 'Living With Myself' ). Certamente il lavoro più personale e ambizioso fino a qui. E chi lo aveva amato per quei suoni californiani che riportavano direttamente alla stagione d’oro della west coast psichedelica (sprazzi ariosi e pop in 'There's A Light' e di country cosmico in ‘Hi-Ho The Righteous' con la pedal steel di Greig Leisz) dovrà in parte ricredersi e provare a seguirlo in questo nuovo lungo e altrettanto non facile viaggio che parte con una sostenuta camminata per 'Trafalgar Square' e si conclude con il quieto pianoforte di ‘Mulholland Drive’ dalle parti di Bel Air e Topanga Creek. Artista a tutto tondo, produttore e, ora come ora, uno dei pochi ponti lisergici e credibili tra passato e presente, USA e UK, tra rock e sogno. Tanto sogno. Lo avevo già scritto. Qui Wilson lo conferma in modo diverso ma lo conferma.
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