lunedì 29 giugno 2020

RECENSIONE: RAY LAMONTAGNE (Monovision)

RAY LAMONTAGNE  Monovision (RCA Records, 2020)




nudo, puro, libero e solitario
Ultimamente ci aveva abituato ad album sempre più coraggiosi con produttori dal nome importante, ricchi e sfaccettati che si spingevano in territori psichedelici e sperimentali (prima Supernova poi il culmine in Ouroboros del 2016), quasi pinkfloydiani e con la voce spesso sacrificata, ma questa volta Ray Lamontagne per il suo ottavo album sembra veramente essersi stancato di tutti i contorni che girano intorno alla musica. Si sveste completamente, ritorna in terra e in qualche modo riparte da Trouble (forse irraggiungibile per l'intensità delle canzoni), il suo primo album uscito nel 2004 quando l'età bussava già ai trenta e lavorare in una fabbrica di scarpe prima e da carpentiere poi erano stati i suo maggior impegni fino a quel momento.
È un ritorno all'essenzialità primordiale della folk music bagnata dal soul e per farlo sembra fidarsi solo di una persona che conosce meglio di tante altre: sé stesso. Qualcosa lo aveva già anticipato nel precedente Part Of Light uscito nel 2018 ma qui estremizza ancor di più la sua voglia di libertà compositiva. Scrive, canta - con quella voce inconfondibile tanto profonda quanto inarrivabile - suona tutti gli strumenti e si produce. Un dialogo con sé stesso senza interferenze esterne.
"È stato un processo di apprendimento, ma è stato stimolante, divertente, tutto allo stesso tempo. Essere colui che sceglie il microfono e lo posiziona nel punto desiderato per ottenere quel suono. Mi piace lavorare sulle cose" ha raccontato al sito americansongwriter.
Inizia con l'arpeggio di 'Roll Me Mama, Roll Me' che sembra addirittura chiamare in causa i fantasmi dei Led Zeppelin più bucolici mentre la sua voce si inerpica su tonalità black. Non ci sono trucchi e inganni da studio di registrazione (a parte che fa tutto lui, naturalmente), tutto esce limpido e puro come il trascorrere dei giorni della sua vita nella fattoria nel Massachusetts insieme alla compagna di sempre. Come in 'I Was Born To Love You', ballata acustica in puro stile west coast con una elettrica a ricamare dietro e richiamare il suo primo idolo Stephen Stills e quel disco Still Alone che lo fece correre al primo negozio di strumenti musicali per acquistare la prima chitarra, come nella delicata 'Summer Clouds' che dietro alle nubi pare di intravedere gli illuminati sixties di Tim Buckley, mentre in 'Weeping Willow' con la voce doppiata con un multitraccia gli anni sessanta sono quelli dei grandi gruppi vocali come Everly Brothers e Simon And Garfunkel, mentre l'armonica potrebbe fare di 'We'll Make It Through' una delle tante canzoni perdute di Neil Young degli anni giusti. 'Rocky Mountain Healin' è un omaggio a John Denver già dal titolo, country arioso e malinconico che fa pace con la natura del Colorado.
Il ritmo, ereditato da John Fogerty, aumenta in 'Strong Enough' quasi autobiografica nel raccontare la forza di una madre single che cresce da sola i propri figli (sua madre lo era dopo che il padre alcolizzato li abbandonò, cambia solo il luogo: il Maine), in 'Misty Morning Rain' invece c'è tutto il Van Morrison, tanto, che si nasconde dentro di lui. Il disco si chiude nel dolce amaro e malinconico viaggio di 'Highway To The Sun' dove canta "voglio solo provare qualcosa di reale prima di morire".
Intanto lo fa provare a noi: qui tutto è reale, nessun trucco, nessun inganno. Lunga vita a lui e a noi tutti. Ben tornato sulla terra.









giovedì 25 giugno 2020

RECENSIONE: COUNTRY WESTERNS (Country Westerns)

COUNTRY WESTERNS 
 Country Westerns (Fat Possum Records, 2020)





l'ultima scommessa di David Berman

Non fatevi ingannare troppo dal nome, nel suono dei Country Westerns si nascondono le chitarre, i germi e l'influenza di gruppi come Replacements, Green On Red, Dream Syndicate o meglio ancora dei Drive By Truckers, the Bottle Rockets, dei Son Volt, o i Lucero più recenti, piuttosto che paglia, violini, banjo, mandolini e sterco da ranch di campagna.
Un suono minimale ereditato dal punk rock ma caldo e completo come sapeva essere certo indie rock americano degli anni ottanta. Come spiega bene il loro produttore Matt Sweeney "l'idea era di catturare l'urgenza del loro spettacolo dal vivo". La missione sembra riuscita molto bene.
Anche se nati proprio a Nashville nel 2016, dall' incontro tra il chitarrista Joseph Plunket dei The Weight (che nella città del country ci era andato per aprire un bar) e il batterista ma anche attore Brian Kotzur con un passato nei Silver Jews. Dopo mesi di prove dentro al garage di Kotzur, la vera svolta arrivò proprio grazie al l'intuizione del compianto David Berman che si innamorò di loro li spedì a New York dove incontrarono il produttore Matt Sweeney. Le canzoni iniziano a prendere forma fino a diventare realtà quando entra in formazione Sabrina Rush al basso, musicista che fino ad allora aveva sempre suonato il violino nei State Champion.
Il risultato sono queste dodici brevi canzoni, dirette e ruvide ma anche evocative nei testi dove lo spirito dell'indie rock americano, il paisley sound e l'americana trovano una via comune tra l'asperità di chitarre tarate in stile Crazy Horse (riff e assoli), il calore delle radici americane strappate come i Old 97's sapevano fare e la voce ruvida ma calda di Plunket che spesso mi ricorda il miglior Ben Nichols dei Lucero. L'iniziale 'Anytime' è un buon lasciapassare che detta l'anima di questo debutto, passando per 'Times To Tunnels' e una 'I' m Not Ready' che il cantante presenta così "nessuno ci accuserà mai di essere una band Kraut rock, ma i dischi dei Can, Neu, Harmonia e Amon Duul II ecc. Sono sempre vicini al mio giradischi. Il nostro batterista Brian Kotzur è in grado di fare un perfetto motorik tutto il giorno. Volevamo solo un po' di quella sensazione per questa traccia", anche se poi il tutto si conclude quasi ironicamente con 'Two Characters In Search Of A Country Song'.
Una band da tenere d'occhio e certamente uno dei debutti dell'anno a certe latitudini rock.





martedì 23 giugno 2020

RECENSIONE: ANDREA VAN CLEEF (Q Sessions Vol.2, Johhny Cash Tribute)

ANDREA VAN CLEEF   Q Sessions Vol. 2, Johnny Cash Tribute (2020)



Durante il lockdown dai nostri bollenti schermi abbiamo visto e assistito di tutto da parte di cantanti solitari, imbonitori, band, rockstar e cantanti improvvisati.
Alcune cose sono capitate davanti ai nostri occhi a sorpresa (le scenette di Robert Fripp e consorte), altre stavano avvenendo di nascosto (registrazione di nuovi interi album). Abbiamo visto i Rolling Stones suonare separatamente ognuno dalla propria casa (anche un nuovo singolo per loro), Bob Dylan regalarci alcune canzoni inedite piovute dal nulla dopo otto anni di silenzio (ecco un nuovo disco nelle nostre mani!), Neil Young suonare antiche canzoni alla vecchia maniera in mezzo al fienile del suo ranch con cani e galline come unici spettatori, artisti di tutti i generi improvvisare concerti in diretta streaming. Quelli di Jesse Malin li ho apprezzati più di altri. Nel frattempo c'era anche modo da parte loro di raccimolare qualche soldo donato dai fan. Il loro settore è stato, e lo è ancora-lo sappiamo tutti o quasi, il più colpito.
Il bresciano Andrea Van Cleef ha vinto una iniziale riluttanza e si è prestato alle dirette streaming con molta parsimonia e la consueta dedizione, proponendo set a tema e assecondando anche richieste. Il set dedicato a Johnny Cash è stato certamente uno dei più riusciti. Da qui, credo, l'idea di farne un vero e proprio disco  di ben dodici canzoni pescate dallo sterminato repertorio di Johnny Cash. Si va da 'I`m An Old Cowhand' alle American Recordings di 'Rusty Cage', 'Hurt', '13' e 'Personal Jesus' passando per le immancabili 'Ring Of Fire', 'I Walk The Line', 'Cry Cry Cry' e 'Folsom Prison Blues'.
Chi già conosce Andrea, sa quanto il suo timbro vocale ben si adatti al 'man in black' così come si adattava alla vocalità di Mark Sandman dei Morphine, gruppo che qualche anno fa "coverizzava" in modo sublime. Ecco proprio quel timbro lì, senza sforzarsi o cadere in ridicole parodie.
Ma c'è di più, perché allentato il lockdown, Andrea ha pensato di personalizzare e  colorare la sua performance registrata il 21 Maggio da casa sua nel bel pieno di un trasloco con alcuni overdub aggiunti da lui successivamente (percussioni, synth e chitarra elettrica) e gentilmente altri offerti da amici musicisti: Pietro Ettore Gozzini  ci ha messo il suo double bass, Marcello Milanese e Diego Potron  le loro chitarre elettriche, Ottavia Brown (voce) e Matteo Rossetti (piano) intervengono in una riuscitissima versione di 'Jackson'.
Per chi volesse ascoltare queste dodici tracce presentate da una copertina che più vintage non si può (vi ricordate la serie Linea tre?), potrà farlo acquistandole all'indirizzo PayPal qui sotto. Attenzione c'è tempo fino a fine mese di Giugno.  PayPal.me/andreavancleef
Naturalmente siete tutti invitati a scoprire Andrea Van Cleef attraverso i suoi dischi solisti (l'ultimo disco pre Covid che acquistai fu proprio il suo cofanetto con il nuovo progetto Fuzz Resistance) e a quelli con la band Humulus se amate anche sonorità più dure e stoner. La loro ultima fatica discografica  The Deep è una delle tante vittime del lockdown ma i ragazzi avranno modo di presentarla ugualmente come si deve nei prossimi mesi.



RECENSIONE: ANDREA VAN CLEEF- Tropic Of Nowhere (2018)
RECENSIONE: HUMULUS-The Deep (2020)


sabato 20 giugno 2020

RECENSIONE: SUPERDOWNHOME (Blues Case Scenario)

SUPERDOWNHOME
   Blues Case Scenario (Warner, 2020)



un salto in major
Di loro ho ampiamente parlato in occasione dell'uscita dei precedenti tre dischi. (Sotto vi lascio i link). 
Si potrebbe liquidare tutto con: questa è una semplice raccolta, esercizio di routine per tracciare un primo bilancio di carriera (ancora breve ma concentrata e intensa) o buona esca per attirare nuovi adepti dentro alle maglie della loro rete blues intrecciata sapientemente con suoni grezzi e viscerali, entusiasmo da eterni debuttanti e esperienza da carta di identità che canta e che conta e ancora tanta voglia di shakerare il blues con il rock a loro somiglianza. 
Invece no, perché, ancora una volta nell'arco di brevissimo tempo il duo bresciano composto da Beppe Facchetti e Enrico Sauda ha fatto passi da gigante, coadiuvato da Slang Music e Giancarlo Trenti che li hanno condotti verso uno step inizialmente inaspettato. 
Dall'uscita del precedente Get My Demons Straight, hanno infilato uno dietro l'altro due colpi da gran giocolieri che potrebbero portarli  verso risultati ancor più sorprendenti in futuro: in Gennaio anche se sembra già un secolo fa, in tempo massimo pre Covid, sono riusciti a partecipare all'International Blues Challenge a Memphis in rappresentanza del blues made in Italy, riuscendo anche a girare gli States per sondare il terreno, allacciando nuove amicizie e prenotando nuove future collaborazioni che certamente segneranno il prossimo disco. 
Lì è uscita anche la bella copertina, opera del fido Ronnie Amighetti
Il lockdown ha invece portato la notizia del contratto con la major Warner e il risultato è questo vinile (un regalo, un premio meritato, un oggetto da collezione, chiamatelo come volete ma è una cosa figa e ben fatta), uscito per questo Record Store Day estivo, nipote di quello primaverile vittima pure lui del lockdown come se i dischi non avessero già troppi problemi loro: dieci canzoni prodotte da Marco Franzoni e scelte dal loro repertorio, rimasterizzate per l'occasione e ben rappresentative del loro approccio alla musica dove la tradizione e il presente giocano a carte allo stesso tavolo. Nessuno ha la meglio sull'altro ma tutti giocano per vincere. 
Naturalmente i nomi di Charlie Musselwhite e Poppa Chubby incastrati dentro alle parentesi come featuring sono un sigillo di qualità che non tutti possono permettersi ma l'esplosione che avviene posando la puntina dello stereo sul nero vinile è il vero valore aggiunto del duo che non vede l'ora di tornare sopra a un palco. E chi li ha già visti all'opera sa cosa aspettarsi.

curelli enzo




mercoledì 17 giugno 2020

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Homegrown)

NEIL YOUNG     Homegrown  (Reprise Records, 1975/2020)




affetti personali

Chissà se quella notte al Chateau Marmont Hotel di Hollywood, al bungalow Belushi, come lo chiama Neil Young e come è conosciuto dopo la scomparsa di John Belushi avvenuta il 5 Marzo del 1982 proprio tra quelle mura per overdose, girava la stessa "roba" presente durante le registrazioni di Tonight's The Night avvenute circa un anno prima sotto l'effetto di tequila Jose Cuevo e chissà quali altre corroboranti sostanze? In quel hotel star, rockstar e presunte tali andavano per sballarsi. Luogo di incontri tra simili: tutto era lecito, tutto era consentito.
Tonight's The Night, un album (che album!) registrato e messo da parte per tempi migliori che non tarderanno troppo ad arrivare. In quei mesi a cavallo tra il 1974 e il 1975 Neil Young è un fiume in piena di ispirazione, difficile stare dietro alla sua vena creativa, ingrossata a dismisura di umori, di alti e bassi in continua e rapida successione. La vita lo mette continuamente  di fronte a prove da superare. E lui scrive, collabora, registra.

"Sembrava che ogni giorno avessi una nuova canzone. Con tutti i cambiamenti che stavano avvenendo nella mia vita, scrivevo canzoni quotidianamente trasformandoli in qualcosa. Considero sempre le vicende della vita come fonte di ispirazione".




Dentro alle bobine di Tonight's The Night già registrato riposavano i fantasmi di Danny Whitten (scomparso il 18 Novembre del 1972) e Bruce Berry (il roadie scomparso il 4 Giugno del 1973), gli amici volati via troppo presto. Aveva appena pubblicato On The Beach ma quella notte al bungalow Belushi voleva far ascoltare ai suoi amici, quelli ancora in vita, altre nuove canzoni che aveva appena registrato. Canzoni dall'impronta acustica, country, "molto personali" come dirà, più vicine ad Harvest piuttosto che al blues tinto di nero che inquina  la spiaggia di On The Beach, l'ultimo album inciso, uscito nel 1974. Con lui nella stanza ci sono Ben Keith e tanti musicisti tra cui Rick Danko della Band. Ascoltano tutte le nuove canzoni che Young aveva catalogato sotto il titolo Homegrown, poi i nastri continuano la loro corsa e in rapida successione partono le canzoni di Tonight's The Night, quell'album messo da parte. La storia è tutta nella sentenza di Rick Danko: "dovresti farlo uscire! Che diavolo è?" riferendosi all'ultimo blocco di canzoni ascoltate. In quel periodo Neil Young aveva preso in affitto una casa a Broad Beach Road vicino a Zuma Beach ed era entrato in contatto con Danko e Levon Helm che con tutta la Band (con la maiuscola davanti) trascorrevano molto tempo nello studio di registrazione che si erano costruiti poco lontano.
Ecco: dopo la sentenza di Danko, le canzoni di Homegrown che erano già state impacchettate dentro una copertina pronte per invadere il mercato, iniziano una loro seconda vita fatta di scatole, polvere e scaffali.

"Così l`ho tenuto per me, nascosto nel caveau, sullo scaffale, in fondo alla mia mente.... ma avrei dovuto condividerlo. In realtà è bellissimo" sono le recenti parole di Neil Young.

Tonight's The Night uscirà il 20 Giugno del 1975.


Le canzoni che componevano Homegrown erano invece tante, visto che in origine doveva essere un doppio album. Tante di loro finiranno su album seguenti, alcune faranno capolino solo in concerto, altre vedono la luce solo ora. Finalmente! Altre ancora chissà quando?
Registrate tra il Broken Arrow Ranch, al Quadrafonic Sound Studios di Nashville e al Village Recorders di Los Angeles, sotto la produzione di Elliot Mazer e Ben Keith con l'accompagnamento di musicisti come lo stesso Ben Keith (steel guitar), Tim Drummond (basso), Levon Helm e Karl Himmel alla batteria.
Le canzoni già pubblicate ufficialmente in precedenza le conosciamo tutti, anche se alcune differiscono dalle versioni già pubblicate: 'Love Is A Rose', suonata dal solo Young insieme al basso di Drummond vedrà la luce su Decade, il prezioso greatest hits uscito nell'Ottobre del 1977, la lap slide di Ben Keith che guida una versione più grezza ed elettrica della già conosciuta 'Homegrown', un non troppo velato invito alla coltivazione casalinga di "erbe miracolose" finirà insieme alla ballata acustica 'Star Of Bethlehem', impreziosita dall'intervento di Emmylou Harris, su American Stars 'N Bars (1977), il delicato quadretto acustico, chitarra e armonica, di 'Little Wing' l'abbiamo già ascoltata su Hawks And Doves (1980), mentre 'White Line' rimpolperà Ragged Glory ma qui possiamo ascoltarla in una inedita versione registrata ai Ramport Studios di Londra insieme ai ricami chitarristici di  Robbie Robertson, certamente tra le migliori tracce del disco.

Il disco inizia con una classica ballata sbilenca 'Separate Ways', la prima delle canzoni inedite, che indugia sul rapporto che stava andando a rotoli con Carrie Snodgress, attrice americana e madre di loro figlio Zeke, e quel "era un po' troppo personale ... mi ha spaventato" riferito al disco trova subito riscontro in una canzone. Sarà così fino alla fine. Dentro a Homegrown c'è un po' il sunto del Neil Young pensiero anni settanta: quello country di 'Try', perfettamente in linea con Harvest, che continua a rimuginare sul rapporto amoroso arrivato al capolinea rimane uno dei più affascinanti: "abbiamo avuto molto tempo per riuscire a stare insieme, se avessimo provato" canta Young.
C'è quello solitario, voce e pianoforte della brevissima 'Mexico', in cui si chiede "perché è così difficile tener stretto il tuo amore?", quello solitario, chitarra e armonica di 'Kansas', quasi un sussurro appeso tra sogno e realtà, canzone che lui stesso definirà "allucinogena", quello blues di 'We Don' t Smoke It No More' la canzone più lunga del disco nei suoi quasi cinque minuti, pigra, sbilenca, elettrica, quasi interamente strumentale tolto il chorus.
Quello sballato dei tre minuti di 'Florida', uno spoken portato avanti insieme a Ben Keith, due bicchieri di vino, un pianoforte, rumori stridenti, vecchi ricordi d'infanzia, mistero e chissà cos'altro che forse piazzato lì in mezzo al disco non fa una grande figura, spezzando l'atmosfera fin troppo presto.
Quello elettrico di 'Vacancy' con Stan Szelest all'organo Wurlitzer che ha il passo deciso di 'Ohio' e un riff di chitarra accattivante che ci ribadisce ancora una volta perché il movimento grunge degli anni novanta gli abbia voluto così tanto bene.
Ci sono voluti quarant'anni per fare pace con sé stesso e ricucire vecchie ferite, Homegrown potrebbe essere il Blood On The Tracks di Neil Young che non è mai arrivato al mittente (intanto Carrie Snodgress si è spenta il primo Aprile del 2004) anche se solo pochi anni dopo con Comes A Time il sole sembrava risplendere nuovamente, tanto da indurre Young ad accennare un sorriso in copertina.
Intanto godiamoci Homegrown, uno dei dischi "perduti del rock" più suggestivi e tristi di sempre, perché dentro ai cassetti degli archivi altre canzoni stanno già scalpitando per uscire.
Rimane il solo rammarico di avere tra le mani poco più di mezz'ora (37 minuti) di un progetto che aveva ben altri confini.

★★★★ (5)






RECENSIONE: NEIL YOUNG With CRAZY HORSE-Colorado (2019)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Hitchhiker (1976/2017)
RECENSIONE: NEIL YOUNG and STRAY GATORS-Tuscaloosa (2019)



venerdì 12 giugno 2020

RECENSIONE: DATURA4 (West Coast Highway Cosmic)

DATURA4   West Coast Highway Cosmic (Alive Naturalsound Records, 2020)






…evitando le buche più dure. Sulle strade australiane con Dom Mariani

Il messaggio sembra chiaro: alzate le chiappe da quel divano ormai sfondato, chiudete la porta di casa avendo l'accortezza di lasciarvela dietro e mettete in moto l'auto arrugginita ferma in garage o almeno la vostra migliore fantasia che forse arrugginita non è ancora. Alla colonna sonora ci pensa il quarto album degli australiani DATURA4 guidati dalla vecchia volpe Dom Mariani (chitarra e voce), leggenda del garage rock australiano con i suoi Stems, i suoi Someloves e le altre sue creature.
Ad accompagnarlo Warren Hall alla batteria e Stu Loasby al basso.
L'ultima creatura sono i Datura4, attivi da una decina di anni. Alcuni cambiamenti ne hanno segnato la formazione come l'entrata del tastierista Bob Patient che con il suo Moog inaugura la prima traccia 'West Coast Highway Cosmic' rinfrenscando la 'Highway Star' di purpleiana memoria, indicando però il sentiero da seguire lungo le dieci tracce del disco, costruito su ciottoli di pesante porfido hard stoner rock, umida terra blues e alte nubi psichedeliche. Non c'è tempo di annoiarsi lungo i tornanti hendrixiani di 'Wolfman Woogle' arricchita dall'armonica di Howie Smallman, nei cadenzati e più pesanti blues di 'A Darker Shade Of Brown' e 'You Be The Fool', e nel boogie alla ZZ Top di 'Rule My World' che instancabili solcano la terra dalle prime luci dell'alba fino alle ore del crepuscolo, là nei campi che fiancheggiano la highway.
Anche la siesta come la più pigra delle lucertole sotto il sole durante la pausa lisergica di 'You're The, Only One', e nel gioioso pop sixties di 'Give' assume la sua giusta importanza.
Almeno fino alla ripartenza lungo il rettilineo dove vecchi sassi di garage rock'n'roll colpiscono a mitragliate i cerchioni delle ruote in 'Mother Medusa' che ha pure in dote la pesantezza dello stoner e in 'Get Out' con quel pianoforte alla Jerry Lee Lewis che tiene il tempo meglio di un qualunque orologio: non lo fa passare. La sospensione su cui vive la finale 'Evil People, Pt. 1' conferma il tutto.








martedì 9 giugno 2020

RECENSIONI: BLACK RAINBOWS (Cosmic Ritual Supertrip) BRANT BJORK (Brant Bjork)


BLACK RAINBOWS  Cosmic Ritual Supertrip (Heavy Psych Sounds Records, 2020)




Mentre il pop italiano si riunisce per omaggiare Rino Gaetano con la scusa del Covid (o viceversa) con un risultato alquanto imbarazzante ma raggiungendo con un clic le prime pagine, ricordiamoci che in Italia ci sono realtà, nascoste ai più ma ben note alla piccola e ristretta schiera dei seguaci, che girano l'Europa, e pure gli States in questo caso, facendo tour, festival e anche buoni numeri con fatica e sudore d'altri tempi. Oggi parlo di loro perché è appena uscito il nuovo disco, ma sono tante le band che in qualche modo tengono a galla il rock (italiano) in giro per il mondo con concerti e una cura dei particolari che sa di antico, vedere grafiche e merchandising. Si intitola Cosmic Ritual Supertrip, il ritorno dei BLACK RAINBOWS, band guidata da Gabriele Fiori, anche a capo dell'etichetta Heavy Psych Sounds Records che vanta nel proprio rooster pezzi da novanta come Brant Bjork, Geezer, prossimamente anche Mondo Generator e tantissime altre band. Più di dieci anni di carriera concentrati dentro al loro album più centrato, meglio registrato e completo fino a qui. Nel titolo c'è pure la miglior recensione al disco. Non sbagliano praticamente nulla in queste dodici canzoni. Chitarre fuzz, riff pesanti ereditati da Tony Iommi ('Universal Phase'), stoner rock anni novanta ('Snowball'), psichedelia e space rock alla Hawkwind ('Hypnotized By The Solenoid') come se piovessero pianeti, non manca il pezzo acustico ('Searching For Satellites'), riff selvaggi che richiamano il proto punk dei seventies ('At Midnight You Cry') e l'attitudine hard rock'n'roll presa in prestito dai Monster Magnet di Dave Wyndorf sono sempre i riferimenti ben amalgamati e stampati nel loro colorato biglietto da visita. Basta solo allungare una mano e ritirarlo.









BRANT BJORK   Brant Bjork (Heavy Psych Sounds Records, 2020)

La cosa migliore sarebbe indossare gli occhiali da sole che riposano lì sul mobile da circa tre mesi, mettere in moto la macchina con il pieno di benzina fatto ancora a inizio Marzo (quanto risparmio però!) e partire per un lungo viaggio senza meta, passando pure da regione in regione. Così, tanto per infrangere anche le regole. Regole?!? O anche solo per il gusto di abbassare il finestrino, mettere un braccio fuori, alzare l'autoradio e sentirsi un po' liberi. Là fuori non ci saranno il sole e i deserti di Joshua Tree, ma BRANT BJORK è un buon padrone di casa. Uno che fa tutto da solo, ci racconta un po' di sé e si inventa un po' di storielle bizzarre. Sa sempre come farti sentire a casa sua. Accomodatevi. Ci riesce bene anche questo nuovo album che cattura, grazie al suo ipnotico groove dove desert rock, stoner, chitarre fuzz e psichedelia amano più del solito bagnarsi tra le acque calde del soul e del funky. Caldo, sudato, sexy, avvolgente. E allora per un attimo ci si sente un po' come quel Gesù eretico ed errante protagonista di 'Jesus Was A Bluesman' .








giovedì 4 giugno 2020

RECENSIONE in pillole: THE COFFIS BROTHERS (In The Cuts)

THE COFFIS  BROTHERS In The Cuts (Blue Rose Music, 2020)




leggera brezza
IN THE CUTS è quarto disco dei californiani THE COFFIS BROTHERS, gruppo nato dieci anni fa, creatura dei fratelli Jamie e Kellen Coffis e del bravo chitarrista Kyle Poppen.
Come si potrebbe intuire dalla copertina siamo in territori soleggiati, pieni di luce: la west coast morbida, quella più gentile, pop e musicalmente educata di America ('In My Imagination') e Jackson Browne, ci sono i sixties dei Byrds e il country rock dei nineties alla Jayhawks ('Real Thing') ma non mancano anche buone rock song con chitarre elettriche in primo piano che chiamano in causa Tom Petty, i suoi cuori spezzati e le strade del sud ('Too Goog To Let Go').
Già Petty, insieme a Neil Young, Beatles, Buddy Holly, ELO sono i loro punti fermi, orgogliosamente dichiarati.
Da quelle parti, sulle montagne di Santa Cruz (fino al precedente disco il nome era The Coffis Brothers And The Mountain Men) e giù fino al mare, paradiso per i surfisti, sanno come scrivere buone canzoni, ariose e accattivanti, guardando, omaggiando e rispettando i padri.
Le loro influenze musicali le spiegano così : "siamo cresciuti nella valle di San Lorenzo sulle montagne di Santa Cruz, e c'è sicuramente qualcosa di vecchio nella zona… alcuni hippy si trasferirono qui negli anni '70, avendo figli da metà alla fine degli anni '80 e quindi influenzarono pesantemente i nostri gusti musicali".
Non a caso il tutto si conclude con la citazione più in vista degli Everly Brothers nella finale 'Bye Bye Susie'.
Un disco dai sapori antichi, di buone armonie vocali e vibrazioni positive, di juke box sulla spiaggia e barbecue nei prati, di van sull'asfalto che attraversano pini e sequoie su strade in discesa per raggiungere il mare che si scorge dall'alto.
Leggera brezza per i prossimi mesi estivi.