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martedì 19 novembre 2024
RECENSIONE: WARREN HAYNES (Million Voices Whisper)
domenica 10 novembre 2024
RECENSIONE: CHUCK PROPHET with ¿QIENSAVE? (Wake The Dead)
CHUCK PROPHET with ¿QIENSAVE? Wake The Dead (Yep Roc Records, 2024)
che Cumbia!
Gli artisti non puoi certo imbrigliarli dentro a qualche schema, non puoi pretendere che ti diano quel che vuoi tu. Viaggiano, si muovono, cambiano, vivono, a volte molto più velocemente dei loro fan, fermi a un palo, legati da un'apertura mentale miope, tarata spesso sul "bel" passato.
Se poi l'artista in questione si chiama Chuck Prophet, uno che in carriera si è sempre comportato come una palla da flipper esploratrice ed indagatrice, devi accettare tutto quel che gli passa per la testa. E molto spesso sono cose fighissime.
"Ogni due anni, in un modo o nell'altro, mi imbatto in qualcosa che mi entusiasma e mi porta da qualche parte, dove sento di non essere mai stato prima. Tutti i miei dischi sono una specie di reazione a quello che è venuto prima, e poi una svolta a sinistra".
Wake The Dead si candida a diventare uno dei dischi più divertenti e trascinanti del mio anno musicale. E pensare che ha preso forma in uno dei periodi più critici e neri per Prophet: nel 2022 esattamente a cavallo tra la fine della pandemia e la diagnosi di una brutto linfoma al quarto stadio fortunatamente poi guarito, anche per merito di questa musica.
"Dopo che hanno scoperto che avevo una massa nell'intestino, sono stato in una specie di terra di nessuno per circa 14 giorni" ha raccontato.
In attesa di buone notizie per il futuro fu rapito da una band che sentì suonare per caso, si chiamano ¿Qiensave?, un gruppo di fratelli che non arrivano ai trent'anni di casa a Salinas, comunità agricola sulla costa centrale della California. I fratelli Gomez hanno una casa studio di registrazione in mezzo al bosco e dopo la conoscenza con l'ex Green On Red, incuriosito, è diventata la base di partenza di questo suo sedicesimo disco.
Ma cosa suoneranno mai questi ¿Qiensave? per aver ipnotizzato così tanto il buon Prophet? Risposta: la Cumbia, genere tradizionale della costa caraibica colombiana, una miscela musicale di culture indigene, africane ed europee fatta di congas, farfisa, kalimba, banjo, guiro a cui Prophet e i suoi musicisti (i Mission Express) hanno aggiunto la classica strumentazione del country, del rock'n'roll e del surf.
"È la musica dei weekend della classe operaia e del Miller Time. La cumbia è romanticismo, cibo, famiglia, musica, ballo, da soli nell'ombra o con il partner. La musica può farti piangere, ma sono tutte lacrime di gioia, ed è meravigliosa" ha raccontato Prophet. Ecco così undici travolgenti canzoni dove tutta l'esperienza di Prophet viene filtatrata dai ritmi latini, quasi in stile Los Lobos ('Wake The Dead', 'Betty's Song' invitano a muoversi) anche il trotto country di 'Give Boy A Kiss' , la ballata con arrangiamenti d'archi e voci femminili 'Red Sky Night' che richiama fortemente Van Morrison, il rock di 'First Came The Thunder', le influenze sixties di 'Sugar Into Water', il blues a ritmo di valzer 'One Lie For Me, One For You' che vede la partecipazione di Charlie Sexton alla chitarra (i due sono stati in tour insieme recentemente) flirtano con quei ritmi mantenendo il trade mark di Prophet.
Non mancano due incursioni nell'attualità: 'In The Shadows (For Elon)' si imbarca nei viaggi spaziali che si è inventato Elon Musk e poi c'è quella 'Sally Was A Cop', viaggio più terreno nella disperazione senza date di scadenza che scrisse con Alejandro Escovedo, disperata e con le chitarre in primo piano.
Quando tocchi con mano le prime lettere della parola "fine" capita di assaporare con più gusto quelle piccole cose quotidiane per cui vale la pena vivere e lo canta bene nella ballata finale 'It's Good Day To Be Alive' con la moglie Stephanie Finch che partecipa ai cori.
Prophet celebra la vita mettendo sul piatto della bilancia la consueta arguzia di scrittura, le speranze e le paure e ci mette sul piatto un disco piacevolissimo (che invoglia ad alzare il volume) e a suo modo originale ma che soprattutto guarda avanti con musica sempre stimolante e mai banale.
venerdì 8 novembre 2024
RECENSIONE: CROSBY, STILLS, NASH & YOUNG (Live At Fillmore East 1969)
CROSBY, STILLS, NASH & YOUNG - Live At Fillmore East 1969 (Rhino, 2024)
magia eterna
Quando escono questi dischi mi sorge sempre la stessa domanda: fino a dove possono spingersi in profondità i pozzi da cui poter attingere vecchia musica registrata in passato? Un giorno si sarà ascoltato tutto il possibile, ma soprattutto arriverà prima questo giorno o arriverà prima l'epoca abitata da generazioni alle quali di tutte queste canzoni con una certa età sul groppone non interesserà più nulla, tanto da rendere vane e inutili (che brutta parola in questo contesto) queste uscite? Forse solo allora tutto si fermerà. Dispiace per chi non ci arriverà mai ma egoisticamente mi godo ancora queste purissime vette.
Quindi godiamoci questo ennesimo scavo nel passato che porta alla luce uno dei concerti al Fillmore East di New York (quello del 20 Settembre 1969 tra i quattro eseguiti in due giorni), che seguirono il loro debutto live come quartetto in quel di Chicago e la epocale apparizione a Woodstock dove un Neil Young quasi fantasma non volle nemmeno farsi riprendere dalle telecamere.
E l'entrata di Neil Young nel trio che aveva già pubblicato un disco di debutto, inizialmente fu proprio vista quasi come un lusso, "noi possiamo anche dar forma all'album ma sarà Neil a darci quel tocco in più di cui c'è sempre bisogno" disse Stephen Stills poco prima che la band entrasse in studio per registrare il seguito Deja Vu. Quella spinta fu data e questo live anche se forse non riuscirà a rubare i cuori di chi si avvicinò a certa musica con il doppio live Four Way Street (eccomi! ma siamo in tanti lo so) in qualche modo può dirsi pure migliore di quel disco. Difficile dire chi eccelle su chi perché la combinazione tra David Crosby, Stephen Stills, Graham Nash e Neil Young, quattro artisti diversi ma incastrati alla meraviglia, era capace di emanare pura magia che andava gustata in blocco. L'ho sempre vista così.
Basti l'ascolto di 'Helplessly Hoping' con quegli impasti vocali che spesso scivolano in risate e divertimento, una 'Guinnevere' che lascia gli stessi brividi della prima volta, la cristallina classe di Stills in 'Go Back Home', le voci ariose di 'You Don't Have To Cry' o una 'Our House' che Nash dedica a Joni Mitchell presente in sala nel set acustico o il blues di 'Long Time Gone', l'acidità elettrica di 'Wooden Ships' presa per mano da Crosby, l'espressività soul blues di Stills in 'Bluebird Revisited', quella chilometrica 'Down By The River' di Young dal set elettrico con l'aggiunta dei fedeli Dallas Taylor alla batteria e Greg Reeves al basso.
"Grandi momenti che non dimenticherò mai" dice Neil Young ricordando quelle serate. A chi lo dici...
domenica 20 ottobre 2024
RECENSIONE: GILLIAN WELCH * DAVID RAWLINGS (Woodland)
GILLIAN WELCH * DAVID RAWLINGS Woodland (2024)
in due è meglio
Gillian Welch e David Rawlings sembrano posare con orgoglio ma facce stanche sotto la scritta Woodland Studios, studi di registrazione a Nashville di loro proprietà che solo per un miracolo sono ancora in piedi dopo il terribile tornado che nel 2020, in piena pandemia, si è abbattuto sulla città. Lo studio è rimasto scoperchiato, tutto ciò che vi era all'interno è stato salvato con abnegazione e fatica, anni e anni di registrazioni e vita sotto la clemenza delle intemperie. Quattro anni dopo, ben tredici dall'ultimo disco di inediti insieme (The Harrow & the Harvest del 2011, in mezzo un album di cover All The Good Times) ritornano con dieci canzoni che per la prima volta vedono in copertina i loro nomi uniti, uno di fianco all'altro (anche se non ci sono), e per la prima volta decidono di colorare le liriche con nuove e tenui sfumature strumentali (una band dietro, lap steel, archi, violino, banjo) mantenendo però intonsa quella comunione d'intenti e spirituale che li accompagna da sempre. Compagni di musica e di vita, sono oggi tra i pochi a portare avanti con continuità, nonostante uscite discografiche ponderate, valori musicali che certi grandi songwriter americani si sono portati dietro nell'aldilà. Le loro canzoni viaggiano tra motel e parcheggi, lungo antiche ferrovie, sbirciano dentro le vite. Viaggiano in una continuità quasi senza tempo.
"Questo disco più di ogni altro nostro disco è un prodotto dei tempi in cui è stato creato" ha raccontato la Welch.
Guardano a un futuro quasi apocalittico con occhio critico e un po' satirico in The Day the Mississippi Died, stanno nel presente con le liriche della ipnotica Hashtag ma con il cuore aperto verso il compianto Guy Clark, Lawman entra nel blues di un omicidio, il fingerpicking costruisce e addolcisce The Bells And The Birds cantata con leggerezza impalpabile, in Turf The Gambler si insinua un'armonica, Empty Trainload of Sky scruta un panorama tutto americano dal finestrino di un treno, cantano della loro salda unione in What We Had (con l'ombra di Neil Young a fare ombra) e duettano nella finale Howdy Howdy, tutta la classicità del folk americano marchiato a fuoco in Here Stands A Woman tra Woody Guthrie e Bob Dylan racconta di passato, presente e futuro. È un per sempre.
Dieci canzoni di pura Americana tra folk e country a due voci, registrate in un studio di registrazione superstite e sopravvissuto e che sanno tanto di nuovo inizio.
Uno "splendido" nuovo inizio costruito, con quella pura limpidezza concessa a pochi, sopra alle macerie, un po' come quando vedi il tuo fiore preferito crescere forte e florido nel luogo più ameno e impensabile. C'è qualcosa di magico ma è tutto così estremamente naturale.
Nel suo universo uno dei dischi dell'anno.
giovedì 10 ottobre 2024
RECENSIONE: D-A-D (Speed Of Darkness)
sabato 5 ottobre 2024
RECENSIONE: THE CROWSROADS (Spaceship)
domenica 29 settembre 2024
RECENSIONE: JACK WHITE (No Name)
JACK WHITE No Name (Third Man, 2024)
assalto rock
Detroit, Nashville e Londra. Sono le tre città, le uniche tre al mondo ad ospitare negozi della Third Man Records, da cui si è iniziato a spargere il nuovo verbo che poi è un ritorno a una vecchia lingua lasciata decantare un po' di tempo a favore di altri strani e bizzarri svolazzi sul pianeta musica.
Capita che un giorno d'estate, esattamente il 19 Luglio del 2024, in contemporanea, i clienti che fecero un acquisto nei negozi della Third Man ricevessero un regalo in cassa, un vinile anonimo intitolato No Name con due sole scritte, una per lato: "heaven and hell" e "black and blue". Ogni riferimento è puramente "non casuale". Me li vedo una volta arrivati a casa, dimenticare i loro nuovi acquisti sul tavolo della cucina e incuriositi mettere subito sul piatto quel vinile misterioso. Non ci sono nemmeno i titoli ma appena appoggiata la puntina una scarica hard blues ha vibrato lungo la spina dorsale : è l'opener 'Old Scatch Bkues'. Perché i titoli poi, sono arrivati con calma. E se ti sei recato alla Third Man Records e fai 1+1 capisci che quella voce, quella chitarra selvaggia, che macina riff e assoli acidi sono di Jack White che ha deciso di promuovere così il suo nuovo disco in uscita. Il giorno dopo la notizia si è già propagata in tutto il mondo, l'invito a scaricarlo fa il suo "sporco" lavoro ma visto che Jack White è uno alla vecchia maniera, dopo un paio di mesi ecco anche la versione fisica per tutti. Ora si può dire: No Name è il nuovo disco di Jack White. Un'operazione di marketing che aleggia tra passato e presente, romanticismo e spavalderia, cose da sempre comuni al suo autore.
Che stia vivendo un periodo di grande ispirazione lo si era capito dall'ultima uscita Entering Heaven Alive (2002) che viaggiava in coppia con il più sperimentale Fear Of The Dawn. Ma se lì abbracciava l'intero universo musicale americano (spaziando tra rock e folk) su No Name a stagliarsi sopra tutto è l'urgenza elettrica di un hard blues ('Missionary') sporcato di garage punk (l'assalto di 'Bombing Out') e qualche seme crossover anni novanta ('Bless Yourself' potrebbe uscire da un disco dei Rage Against The Machine, 'Number One With A Bullet' batte ritmi funk metal). La fascinazione per i Led Zeppelin è la torcia accesa che tiene vivo il suono delle tredici canzoni: 'It's Rough On Rats (If You're Asking)', 'Tonight (Was A Long Time Ago)' e 'Underground' camminano sul terreno delle brughiere britanniche calpestato da Plant e Page. Pure il passato a strisce ritorna prepotente in tracce come 'What's The Rumpus'.
Un assalto sonoro (placato in parte nella finale 'Terminal Archenemy Endling') che mette in guardia tutti gli aspiranti rocker di questa terra. Una visione romantica di come si può lasciare ancora un segno nero e blu dopo averlo lasciato bianco e rosso. Se il rock vuole libertà e anarchia Jack White le indossa ancora con disinvoltura alle soglie dei cinquant'anni e in un mercato discografico che vivacchia grazie a uscite nostalgiche che guardano al passato (vecchi concerti come se piovesse), un'uscita del genere non può fare che bene. Una rinfrescata strabordante e sopra le righe. Che amiate o meno White: così è.
sabato 21 settembre 2024
RECENSIONE: BLUES PILLS (Birthday)
BLUES PILLS Birthday (BMG, 2024)
nuovi nati
Molto probabilmente nell'imminete tour dei Blues Pills che toccherà l'Italia l'8 Dicembre (al Magnolia di Milano), la cantante Elin Larson viaggerà di città in citta, di palco in palco, in compagnia del piccolo pargolo nato da poco. La gravidanza l'ha accompagnata durante la registrazione del loro quarto disco Birthday appena uscito e la copertina e le foto interne che ritraggono il pancione della Larson in bella evidenza non cercano di nascondere nulla, anzi testimoniano la nuova vita, anche musicale e perché no cercano di lanciare un messaggio chiaro a una società che vede nelle gravidanze un ostacolo alla produttività. Ecco una buona risposta.
Il chitarrista, ex bassista, Zack Anderson in una recente intervista: "la musica rock è dominata da band composte esclusivamente da uomini, quindi sembra una cosa fantastica avere una cantante solista super incinta in copertina".
Un disco importante per la loro carriera: per come è nato e si è sviluppato, per la libertà di scrittura che hanno adottato, per verificare se i vecchi fan accetteranno queste novità.
L'impianto blues (che da sempre sposa l'hard blues targato seventies con Janis Joplin) è lo stesso di sempre, anche se con l'uscita di Dorian Sorriaux, visto recentemente live con gli americani El Perro ha portato via la componente più heavy, eterea e psichedelica. Il calore soul della voce della Larson si è mantenuto intatto, le chitarre graffiano ancora anche se meno sovente rispetto al passato (l'apertura 'Birthday' è comunque d'impatto) ma in questa raccolta di undici canzoni si percepisce la voglia di sintetizzare al massimo la forma canzone, di arrivare prima al punto anche cavalcando nuovi suoni che a qualcuno potranno far storcere il naso: 'Piggyback Ride', che loro dicono ispirata addirittura dai Gorillaz, è la più moderna con un riff di chitarra in bella evidenza, sezione ritmica funky e chorus che straborda con tutto il suo peso nel pop, 'Holding Me Back' è rock ma di quello che le radio più commerciali da pomeriggi settimanali non disdegrerebbero, 'Don't You Love It' tocca invece quei territori boogie quasi danzerecci cari agli ultimi Black Keys.
Passate queste novità più spiazzanti i Blues Pills immergono le loro canzoni nel vecchio classico rock che include l'urgenza funky di 'Bad Choices', il blues in crescendo di 'Somebody Better' e quello acustico che va giù di slide ('Shadows') più due ballate ('Top Of The Sky' e 'What Has This Life Done To You') che sembrano spingersi indietro fino agli anni cinquanta. C'è pure una cover ('I Don't Wanna Get Back On That Horse') di un misconosciuto gruppo svedese, i Grande Roses, con interventi di pianoforte e dai forti richiami gospel.
Gli svedesi con questo disco si giocano la carta della notorietà su scala mondiale. Hanno perso le spigolosità hard, gli allunghi psichedelici, fumosi e jammati, hanno guadagnato le canzoni, tutte belle secondo me. Il disco è piacevole ma per chi ha amato i primi due dischi potrebbe essere veramente troppo. Aspetteremo il prossimo nato (disco naturalmente) per vedere quale sarà la loro strada futura.
giovedì 5 settembre 2024
RECENSIONE: RED SHAHAN (Loose Funky Texas Junky)
RED SHAHAN Loose Funky Texas Junky (Lemon Pepper Records, 2024)
la buona tradizione
Forse per molti basterà sapere che Marc Ford è il produttore del quarto disco del songwriter texano Red Shahan per avvicinarsi incuriositi. O forse basterebbe questa copertina che mi ha catturato ricordandomi il primo Little Feat, dove là c'era un muro qui c'è un vecchio vagone merci abbandonato.E sorpresa: ascoltando le canzoni lo spirito di Lowell George sembra avvolgerne molte, anche la voce di Shaham a volte ricorda George.
Se cresci nella desolazione del West Texas e in qualche modo ne esci fuori con le tue forze, qualche qualità dovrai pur averla. Red Shehan, che prima di scegliere la musica ha cercato la sua strada nel baseball, nei rodeo e perfino nel corpo dei pompieri, con Loose Funky Texas Junky cala tutte le sue carte vincenti confezionando un album profondamente americano giù fino alle viscere che potrebbe piacere a molti. La sbandata funky, promessa dal titolo, rispetto ai precedenti dischi (l'album è stato registrato nei leggendari Fame Studio, Muscle Shoals) è netta e preponderante fin dall'apertura Evangeline, dove serpeggia un po' dello spirito di Dr. John nell'uso di tastiere e piano, continua in canzoni come Wish Me Well e Ain't A Shame e nella più soul Desperate Company.
Uno stacco dal classico country texano che comunque continua là dove dominano chitarre e lap steel: Supernova è un country rock che ha l'incedere del Tom Petty dei tempi andati, Midnight Tiger un vivace honky tonk da consumare in strada, Room Full Of Desirée una ballata con il piano a dettare la falcata, Big Wide Open puro cantautorato texano.
Shehan canta di bar poco raccomandabili ma è anche molto introspettivo quando ci racconta le difficoltà famigliari post covid nel country folk di Clues.
Un album certamente piacevole che punta ad arrivare a più persone possibili senza svendersi. La firma di Marc Ford in produzione è la garanzia di qualità e la coda d'estate invita a salire su un'auto e viaggiare con queste canzoni a fare compagnia.
sabato 24 agosto 2024
RECENSIONE: RAY LAMONTAGNE (Long Way Home)
RAY LAMONTAGNE Long Way Home (Liula Records, 2024)
ma che film la vita
In una recente intervista Ray Lamontagne parlando di 'I Wouldn' t Change A Thing', canzone contenuta in questo bellissimo disco, che in qualche modo si e ci chiede "se siamo felici di dove siamo in questo momento" confessa che qualche anno fa ebbe la fortuna di chiacchierare con Bob Dylan: lo ringraziò e gli confessò che attraverso la sua musica aveva trovato un posto dove stare, un mondo che pensava non esistesse. Da allora trovò la sua strada di musicista. Se c'è un artista che in questi ultimi vent'anni è riuscito a farmi fare un giro intorno alla musica che amo quello è certamente Ray Lamontagne. Un antidivo che per continuare a mantenersi e mantenere la famiglia con la quale vive in una fattoria del Massachusetts (famiglia composta da sua moglie conosciuta quando entrambi avevano otto anni e i due figli nati dalla relazione) ha lavorato duro dentro e fuori la musica. Fece pure il falegname per qualche anno.
Long Way Home ha un sottile filo conduttore che vuole portarci a cercare la serenità dentro di noi (la contemplazione di 'Yearning') lasciando fuori da corpo e mente tutto ciò che potrebbe fare da ostacolo. Un viaggio dalla fanciullezza all'età adulta che viene ben spiegato nella title track raccolta di ricordi d'infanzia dove canta di prati verdi, ruscelli di montagna e frutteti sulla collina. Mi è impossibile non riportare alla mente polaroid di certe mie estati in campagna quando l'unico pensiero della giornata era cavalcare una bicicletta con una rudimentale canna da pesca in mano e raggiungere il fiumiciattolo in mezzo al bosco, sperando che qualche pescetto di acqua dolce si lasciasse fregare da un bambino di dieci anni.
"Ogni canzone di Long Way Home in un modo o nell'altro onora il viaggio. I giorni languidi della giovinezza e dell'innocenza. Le innumerevoli battaglie dell'età adulta, alcune vinte, più spesso perse. È stata una strada lunga e dura, e non cambierei un minuto. Mi ci sono volute nove canzoni per esprimere ciò che Townes è riuscito a dire in un verso. Immagino di avere ancora molto da imparare" spiega Lamontagne. Il verso della canzone di Townes Van Zandt a cui di riferisce è "when here you been is good and gone, all you keep is the getting there" da 'To Live Is To Fly'.
All'uscita di Ouroboros (2016) pensavo che il vecchio Lamontagne dei primissimi dischi lo avessimo perso definitivamente, dentro a album, sì sempre più coraggiosi che si spingevano in territori psichedelici e sperimentali (salutando i Pink Floyd) ma che in qualche modo tradivano quelle origini così semplici costruite su folk, country, soul e blues che ci aveva donato agli esordi. Poi arrivò Monovision (2020) che tornava alla semplicità di un tempo, e ora questo Long Way Home che mette nuovamente in fila i suoi primi grandi amori musicali: da Van Morrison che influenza il giubilio musicale di 'My Lady Fair' arricchito dai fiati, la west coast dei settanta e il Neil Young bucolico di Harvest rivivono in 'And They Called California', il soul e il gospel marchiato Stax nell'apertura 'Step Into Your Power'.
Registrato e prodotto nel suo studio di registrazione insieme al fidato Seth Kauffman con l'aiuto di pochissime persone tra cui le Secret Sisters ai cori e Carl Broemel (My Morning Jacket) alla pedal steel e Ariel Bernstein alla batteria. La sua incredibile voce e i tanti strumenti che suona.
Se tutti fossimo in grado di trovare bellezza e pace interiore negli accadimenti della vita come ha fatto Ray Lamontagne nelle nove canzoni di Long Way Home (poco più di mezz'ora tra cui la strumentale 'So, Damned, Blue') il mondo sarebbe un posto migliore per tutti. Bentornato, anzi no, perché in fondo Lamontagne non se n'è mai andato e se oggi è qui è perché ha onorato tutto il suo passato. Bello e brutto.
Positivo, riflessivo, introspettivo. Semplice. L'album di questo quieto fine Agosto. Comunque il fatto che la mia canna da pesca di legno non tirò mai su nessun pesce poteva già mettermi in guardia su cosa potesse essere la vita che avevo davanti a soli dieci anni.
lunedì 12 agosto 2024
RECENSIONE: CEK & THE STOMPERS (Mr. Red)
CEK & THE STOMPERS Mr. Red (Gulf Coast Records, 2024)
salto americano
Il Cek (Andrea Franceschetti) ha iniziato il tour per presentare il nuovo album Mr. Red nel biellese, aprendo per la Fabio Treves Band. E io non c'ero, quella sera ero emigrato in quel di Torino ma sempre per la buona causa musicale. Peccato: per una volta che lo avevo sotto casa...
Discograficamente lo avevo invece lasciato sulle rive del suo lago d'Iseo sulle sponde di Pisogne, paese che lo ha visto crescere, l'ultimo che si specchia sul lago prima di salire in Valcamonica. Era in attesa dell'arrivo della Sarneghera, tempesta che nelle giornate estive porta scompiglio e che diede il titolo all' ultimo album Sarneghera Stomp uscito nel 2021. Un disco segnato fortemente dalle cicatrici (anche personali) lasciate dal lockdown.
Lo ritroviamo tre anni dopo con un progetto completamente diverso, quasi corale, che si avvale dell'aiuto dei suoi Stompers formati da Luca Manenti (chitarre, mandolino e co autore di dieci pezzi insieme a lui), Pietro Ettore Gozzini dai Slick Steve and The Gangsters (contrabbasso), Federica Zanotti (percussioni) e Andrea Corvaglia dei Crowroads (armonica), l'aiuto di Annalisa G. Favero ai cori e della cantautrice, amica e conterranea Laura Domeneghini, autrice di 'Please Me'. L'altra cover è 'Thirteen Days' di JJ Cale che chiude il disco registrato ai Poddighe Studio di Brescia, saga sulla vita on the road dei musicisti e arrangiata in linea con lo stile molto roots che aleggia su tutto il disco.
L'importante firma per l'etichetta americana Gulf Coast Records, prima band europea a entrare nel rooster, con una distribuzione che coprirà anche l'America naturalmente è solo uno dei tanti pregi di cui si fregia questo disco.
L'album Mr. Red prende il titolo dall'omonima canzone, un veloce blues'n'roll, dedicata a Lousiana Red, bluesman e chitarrista americano scomparso nel 2012, vero mago della slide che visse una buona parte degli ultimi suoi anni in Germania. Molti tour in Europa e in Italia quindi e proprio durante questi viaggi di città in città che il Cek ebbe modo di incontrarlo e passarci molto tempo insieme. La canzone è un po' un diario di quegli incontri ricchi di scambi musicali.
Uno dei dischi più vari della sua carriera, ricco di sfumature musicali come insegnato da Ry Cooder, dal blues dell'iniziale 'The Peach And The Snake' e di 'Seventh Heaven', alle atmosfere autunnali che accompagnano 'The Heat' a quelle irish che soffiano dentro 'Fairy Tales', al contrasto vincente che contrappone l'elettrica 'Once Upon A Time In The South' alla folkie e solitaria 'Going To The Circus'.
C'è poi 'Juanita', storia di un ragazzo innamorato del blues che molla tutto e va nel sud degli Stari Uniti, a New Orleans, per realizzare il suo sogno: finirà in Spagna, innamorato, dove sposerà la sua Juanita. Storia che accomuna.
Storpiando un vecchio detto possiamo dire "non si possono insegnare nuovi trucchi a un vecchio bluesman", e il Cek raggiunta la mezza età è a tutti gli effetti uno dei migliori alfieri del blues italiano che potrebbe insegnare un po' di cose a tanta gente. Sempre unico e inimitabile.
lunedì 5 agosto 2024
RECENSIONE: EELS (Eels Time!)
sabato 27 luglio 2024
RECENSIONE: MDOU MOCTAR (Funeral For Justice)
MDOU MOCTAR Funeral For Justice (Matador Records, 2024)
mondi lontani sempre più vicini
Da alcuni anni è ormai palese: chi ha voglia di trovare quell'urgenza limpida, genuina e viscerale che scorreva nel vecchio rock’n’roll occidentale e che ora chiamiamo vintage o solo revival per farcelo piacere ancora, chi vuole trovare dei veri testi di denuncia combattivi e incazzati con ragione, mica per finta per fare solo un po' di scena, deve guardare in basso e puntare occhi e tutto quanto verso l'Africa. Mdou Moctar, chitarrista del Tuareg di casa in Niger, con Funeral For Justice si conferma, insieme alla sua band, un vero combattente del desert blues. E non è il solo. Missione: far conoscere all'Occidente la condizioni del popolo Tuareg. Quando non suona porta avanti la sua missione umanitaria, quando imbraccia la chitarra smuove le coscienze con il suo blues che questa volta sembra farsi meno psichedelico per diventare più hendrixiano e incazzato. Un assalto sonoro ipnotizzante e con poca tregua: ritmi magnetici e persuasivi tra gioia e consapevolezza, triste realtà e radiosa speranza. Ed è forse quest'ultima, che spesso manca dalle nostre parti a rendere tutto così fresco e dannatamente stimolante.
Basterebbe l'attacco al fulmicotone, punk e rabbioso, della title track per portare a casa tutto:"Dear African leadership, hear my burning question, Why does your ear only heed France and America?", cantato in inglese per arrivare a tutti, il resto del disco è quasi tutto cantato in Tamasheq.
La psichedelia, distorta e velocizzata di 'Imouhar' o i ritmi desertici di 'Takoba' per capire quando la band sappia lavorare dentro al pianeta musica con straordinaria naturalezza. 'Oh France' per capire quanti dsnni abbiano procurato i vecchi "padroni". Produce l'americano Michael Coltun.
“La gente qui non guadagna nemmeno 2 dollari al giorno, eppure viene bombardata da missili che costano milioni. A mio avviso, tutti i leader mondiali sono responsabili di ciò che sta accadendo in Niger” dice Mdou Moctar. Uno stile chitarristico tutto suo: costruì la sua prima chitarra a dodici anni con un pezzo di legno e dei freni di biciletta, è mancino, adora Hendrix ma ancor di più Van Halen dal quale rubò qualche segreto imparando dai video in rete ma soprattutto è in grado di riaccendere quella fiammella del rock un po' assopita alle nostre latitudini. Per vedere come brucia basterà presenziare al concerto di fine Agosto al Magnolia di Milano.
sabato 20 luglio 2024
RECENSIONE: DAVE ALVIN & JIMMIE DALE GILMORE (Texicali)
DAVE ALVIN & JIMMIE DALE GILMORE Texicali (Yep Roc Records, 2024)
buon viaggio
È ancora il tema del viaggio ad unire Dave Alvin e Jimmie Dale Gilmore proprio come avvenne nel precedente disco Downey To Lubbock uscito nel 2018.
In mezzo tra Dave Alvin proveniente da Downey, California, e Jimmie Dale Gilmore da Lubbock, Texas, c’è la grande America “centinaia di miglia, deserti, montagne e fiumi” come dice Dave Alvin, in profondità, giù radicate, le radici musicali comuni, quelle che si sviluppano verso il vecchio blues, il folk, il R&B di New Orleans, la country music, le border songs, il rock’n’roll dei ‘50, persino il reggae come avviene nella rilettura di 'Roll Around' brano del vecchio amico Butch Hancock datato 1997.
"Veniamo da posti diversi, ma musicalmente veniamo dallo stesso posto" dicono.
Seppur con qualche anno di differenza, esattamente dieci, anni di stima reciproca e un'amicizia nata nei primi anni novanta hanno trovato sfogo in alcune date live suonate insieme nel 2017. Da lì a incidere il primo disco, il passo fu veramente corto, veloce e senza sforzo alcuno. Due passati importanti da ricordare, uno nei Blasters, l’altro con i Flatlanders, entrambi vecchi frequentatori del folk club The Ash Grove a Los Angeles, entrambi con le stesse canzoni nel cuore.
Questa volta rivisitano loro canzoni ('Borderland' è una vecchia canzone di Gilmore), omaggiano Alan Wilson dei Canned Heat con 'Blind Owl' canzone scritta da Dave Alvin, riprendono un vecchio blues di Blind Willie McTell ('Broke Down Engine'), viaggiano placidamente nel folk 'Trying To Be Free' e sopra ad un treno nell'ariosa ballata 'Southwest Chief'. 'Down the 285' di Austin Josh White affronta la libertà del viaggio in solitaria, mentre il rock’n’roll di 'Why I'm Walking' infiamna e alza polvere e sudore.
Celebrano la loro resistenza nella finale e autobiografica 'We're Still Here', sopravvissuti alla malattia (un cancro per Alvin), al Covid che ha fermato questo secondo progetto per un paio di anni, a tanti amici incontrati lungo la strada e passati a miglior vita.
Potrebbe essere il disco da viaggio di questa estate: che stiate percorrendo la Interstate 10 che unisce la California al Texas o la congestionata A4 sotto il sole rovente di un'estate italiana.
mercoledì 10 luglio 2024
RECENSIONE: LIFE IN THE WOODS (Looking For Gold)
LIFE IN THE WOODS Looking For Gold (Moletto/Universal, 2024)
born in Italy
Ache l'Italia ha i suoi Rival Sons! Detta così potrebbe essere una boutade pretenziosa che sa di revival del revival. Fermi tutti: il trio romano composto da Logan Ross (chitarra e voce), Frank Lucchetti (basso) e Tomasch Tanzilli (batteria) è al momento la miglior band di classic rock italiana così come i californiani lo sono a livello mondiale ormai. La partita è per ora chiusa.
Esordirono nel 2019 con Blue prodotti da Gianni Maroccolo che col senno di poi si può dire abbia visto giusto e lungo. La pandemia non aiutò certo quel disco fatto di poche canzoni a raggiungere il grande pubblico anche se chi doveva accorgersi del loro talento l'ha fatto: critici e colleghi musicisti con più anni alle spalle avevano alzato le antenne di fronte al trio romano.
Ora è arrivato il momento che tutti si accorgano di loro. Eccoli qua con un disco d'esordio fresco, elettrico ma anche crepuscolare e poetico, appassionato e genuino che raccoglie tutto il meglio del passato per sputarlo fuori in forma alquanto attuale, moderna e internazionale. Quello che sorprende di più è proprio la capacità di rendere fresche e contemporanee canzoni con un DNA attaccato al collo che pesca nel pozzo quasi ottuagenario del rock'n'roll tutto.
Il "One, two, three, four" che apre 'Caravan' e il disco sono i numeri che trascinano l'hard rock in questo 2024 con convinzione da veterani (e loro sono giovanissimi), 'Trick Man' abbassa i toni addentrandosi nel soul, 'Nothing Is' rende doveroso pegno al vecchio blues, 'Mad Driver' è una dinamitarda fast song che sembra esulare dal resto ma ha il compito di dividere il disco mostrando il lato più diretto e selvaggio, in netto contrasto con la epica coralità della title track che vede la partecipazione del soprano Olivia Calò e i momenti acustici come 'Without A Name', americana nel suono, e 'Hey Blue' dal sapore più british.
E poi una canzone come 'Fistful Of Stones' non è da tutti: Logan Ross unisce in un solo colpo Jeff Buckley e Robert Plant, avvicinandosi in modo impressionante alla voce di Jay Buchanan dei Rival Sons e il suono hard rock dei seventies porge la mano al grunge degli anni novanta.
Non hanno il look stereotipato di chi cerca di emulare le grandi rockstar del passato, il disco è confezionato nei minimi dettagli e avvolto dentro all'evocativo disegno di copertina creato dall'artista Mark Kostabi (Guns N'Roses, Ramones). Insomma tutte le prerogative per fare il botto anche fuori dall'Italia anche se sarebbe molto bello se i Life In The Woods aprissero veramente le porte del vero rock nel nostro paese, cosa che si pensò potesse avvenire con il successo planetario dei Maneskin poi rivelatasi più facciata che sostanza. Qui di sostanza c'è n'è da vendere: la finale 'Manifesto' basti per avvalorare questa tesi...pardon: verità.
domenica 7 luglio 2024
RECENSIONE: JOHNNY CASH (Songwriter)
JOHNNY CASH Songwriter (Mercury, 2024)
canzoni ritrovate
Scaricato a metà anni ottanta da una Columbia delusa dalle scarse vendite di un personaggio che i loro occhi con pupille a forma di dollaro consideravano ormai perso in un lento declino se non finito del tutto, anche lo stesso Johnny Cash non nascose delusione e stanchezza di fronte all'etichetta che da circa trent'anni pubblicava i suoi dischi, un odio reciproco: "ero stufo di sentirli parlare di statistiche, ricerche di mercato, di nuove evoluzioni del genere country e di tutta una serie di tendenze che remavano contro la mia musica…". Avevano ragione entrambi.
Ma in quegli anni le cose che andavano storte erano maggiori di quelle positive nella vita di Cash: scosso dalla morte del padre Ray a ottantotto anni con il quale dopotutto aveva dei rapporti non troppo idilliaci, Johnny Cash trova un tetto apparentemente sicuro sotto la Mercury Records che inizialmente sembra lasciargli l'illusione della migliore carta bianca su cui scrivere il proprio futuro. Sei dischi incisi, tanto freschi e ispirati quanto ignorati dal grande pubblico e dimenticati troppo in fretta, complice la scarsa promozione dell'etichetta (allora è un vizio!). Se ci mettiamo alcuni problemi di salute tra cui un ricovero per aritmia cardiaca nel 1987 che lo porterà all'inserimento di un bypass due anni dopo (Roy Orbison morì per lo stesso motivo in quei mesi) e anche la morte della madre avvenuta nel 1991, ne esce un quadro generale non troppo esaltante per un personaggio in cerca di riscatto in un mondo musicale che stava viaggiando veloce lontano dalle sue rotte.
Anche questa parentesi verrà archiviata velocemente e lo stesso Cash che nonostante tutto considerava questo periodo "il più felice della mia carriera discografica", sconfortato, dirà: "per un po' mi sentii sollevato ma i vertici della Mercury a New York cambiarono opinione e scivolai lentamente nel dimenticatoio. I miei dischi non meritavano di essere promossi nel migliore dei modi. Jack (Clement) e io ci impegnammo a fondo in sala di registrazione e abbiamo prodotto brani di cui sono molto orgoglioso ma era come se avessi cantato in un teatro vuoto. I miei singoli non passavano alla radio e non c'era nessun investimento pubblicitario per promuovere i miei album".
Un disco rotto che gira.
Entra negli anni novanta con un tentativo di tornare ai suoni delle origini con Boom Chicka Boom (1990) e al suono dei Tennessee Two, prodotto da Bob Moore e che inizia con la classica intro live "Hello, I'm Johnny Cash" a introdurre la giocosa 'A Backstage Pass', scherzosa rappresentazione del backstage di un concerto di Willie Nelson, con 'Hidden Shame' scritta per l'occasione da Elvis Costello e 'Cat' s In The Cradle' di Harry Chapin, con alcune B-side aggiunte e la forte identità che lo porta a essere il suo miglior disco targato Mercury, e poi The Mistery Of Life (1991) con in scaletta vecchi successi consolidati e alcune riletture tra cui 'The Hobo Dong' di John Prine, disco fresco e da rivalutare che chiude la parentesi Mercury e che include anche 'The Wanderer' insieme agli U2, "del mio ultimo album per la Mercury sono state realizzate solo cinquecento copie. Anche da parte loro mi sono sentito propinare le solite storie su statistiche e ricerche di mercato". La solita vecchia storia.
Fortunatamente dietro l'angolo c'era già uno scalpitante Rick Rubin pronto a dare inizio all'ultima incredibile parte di carriera di Johnny Cash, questa volta sì baciata da successo e pubblico.
Ma immediatamente prima di Rubin Johnny Cash registrò alcune demo in solitaria negli studi LSI di Nashville, versioni grezze di canzoni scritte anche molti anni prima da proporre a qualche nuova etichetta discografica per raccimolare un contratto. Con l'arrivo di Rubin furono accantonate e dimenticate per essere riportate alla luce solo recentemente dal figlio John Carter che con l'aiuto di David Fergie Ferguson, vecchio ingegnere del suono di Cash, uno che conosce bene il man in black, hanno costruito intorno alla voce di Cash undici nuove canzoni complete e finite cercando di rimanere il più possibile fedeli alle originali o comunque cercando di immaginare come le avrebbe completate Cash in vita. Se due abbiamo avuto il tempo di conoscerle sotto la cura Rubin, trattasi di 'Driven On' e 'Like A Soldier' (ma qui in versioni diverse), le altre grazie all'intervento di navigati musicisti che con Cash avevano già lavorato come la chitarra del pupillo Marty Stuart già con i Tennessee Three, il bassista Pete Abbot e il batterista Dave Roe hanno raggiunto una forma finale che veste sulla voce di Cash come un abito di alta sartoria vestirebbe uno sposo all'altare. Sembra fatto tutto con rispetto e delicatezza e si sa quanto queste operazioni siano sempre un'arma a doppio taglio non troppo amate dai puristi del rock.
Il titolo dell'album Songwriter vuole proprio sottolineare e portare s galla quanto Johnny Cash, oltre a essere un grande interprete, fu anche un paroliere dalla scrittura incisiva pungente e ironica, a volte anche molto semplice e popolare nei temi trattati come l'amore per la famiglia ('I Love You Tonite' è una lettera d'amore indirizzata a June), il rispetto della propria terra ('Have You Ever Been To Little Rock'), la redenzione, le perdite (di un amore in 'Spotlight' dove compare la chitarra di Dan Auerbach), le vittorie sui propri demoni che ne hanno segnato gran parte della vita ('Like A Soldier' dove compare pure la voce di Waylon Jennings).
A partire da una 'Hello Out There', canzone ispirata dall'astronave Voyager che pare volare direttamente nel futuro trainata da un effetto echo nella voce, straniante quanto suggestivo cosmic country che non ti aspetti ma che funziona, fino al rockabilly anni cinquanta di 'Well Allright', un semplice quanto cinematografico quadretto d'amore dipinto dentro a una lavanderia a gettoni, i suoi testi scrivono un immaginario popolare in parte scomparso ma in grado di arrivare ancora oggi giocando sulla suggestione. 'Poor Valley Girl' è un country, atto d'amore verso June Carter e la mamma di lei Maybelle, in 'She Sang Sweet Baby' racconta di una madre che per addormentare il proprio piccolo si affida alla canzone di James Taylor.
Sentire nuovamente la straordinaria voce di Johnny Cash in canzoni nuove, mai sentite prima mi fa superare e dimenticare il modo in cui ci sono arrivate in questa estate del 2024, ventuno anni dopo la morte. Molti non la penseranno così ma riesco a sentirci dentro tutto l'amore e il rispetto di chi ha voluto questo disco di un gigante della musica americana.
domenica 30 giugno 2024
RECENSIONE: STEVE CONTE (The Concrete Jangle)
STEVE CONTE The Concrete Jangle (Wicked Cool Records, 2024)
rock'n'roll solo rock'n'roll
Sarebbe veramente un delitto lasciar passare questo 2024 senza nominare uno dei migliori dischi di schietto e spavaldo rock'n'roll usciti in questi mesi. Sappiate che Ian Hunter che partecipa ai cori in una canzone scrive nello sticker che accompagna la copertina:"grandi voci, armonie, arrangiamenti, produzione e chitarre", sembra tutto perfetto per il vecchio Ian! Steve Conte, con una mamma jazzista e battezzato in giovanissima età da un concerto di Chuck Berry, non ha bisogno di troppe presentazioni: chitarra nella seconda vita dei New York Dolls, dell'attuale band di Michael Monroe e di altre decine di artisti con i quali ha collaborato e suonato. In questo disco che esce per la Wicked Cool Records di Steve Van Zandt (anche questa è una garanzia visto i gusti "vintage" del piccolo Steven) che inizialmente fu anche il primo prescelto come produttore ma alla fine ha fatto tutto Conte. Ma le sorprese non finiscono visto che il disco si divide in due facciate abbastanza distinte. Un lato A che vede la partecipazione di Andy Partridge degli XTC come co-autore nelle cinque canzoni che battono la strada del rock'n'roll stradaiolo ('Fourth Of July', 'Hey, Hey, Hey (Aren't You The One)'), del glam dal chorus contagioso ('We Like It'), del power pop ('Shoot Out The Stars') e delle strade più ardite come in 'One Last Bell' con la tromba di Chris Anderson a disegnare traiettorie. La collaborazione con Partridge sembra un sogno che di avvera per Steve Conte, da sempre fan degli XTC: "Andy è il mio eroe del rock 'n' roll e del cantautorato".
Il lato B si apre con uno scatenato omaggio alla musica uscita dalla città di Detroit ('Motor City Love Machine'), una 'Girl With No Name' omaggio al r&b sixties, la melodica 'All Tied Up' sembra uscire dalla migliore stagione del Jersey Sound caro a Little Steven e al suo "capo", ma poi a prevalere sono due esercizi beatlesiani come 'I Dream Her' e 'Decomposing A Song For You' con i suoi fiati che soffiano vento british.
Peccato siano solo 34 minuti perché di sano e vecchio rock'n'roll così non ci si stufa mai. Ottimo disco.
sabato 22 giugno 2024
RECENSIONE: MIKE CAMPBELL & The DIRTY KNOBS (Vagabonds, Virgins & Misfits)
MIKE CAMPBELL & The DIRTY KNOBS Vagabonds, Virgins & Misfits (BMG, 2024)
atto terzo
Il terzo disco di Mike Campbell si apre come se stesse finendo un concerto. Un concerto di Tom Petty naturalmente. 'The Greatest' è l'ultima jam prima di salutare un pubblico entusiasta e plaudente: "tu sei il più grande, guarda questo posto, guarda queste facce..." canta Campbell con quella sua voce nasale che racchiude un terzo di Bob Dylan, un terzo di Ozzy Osbourne e un terzo di Tom Petty. Io il "più grande" me lo persi in quel Giugno del 2012 a Lucca: davanti a una scelta, scoprii di aver fatto quella sbagliata, non immaginando minimamente cosa potesse riservare il futuro. So solo che rimane uno dei più grandi rimpianti musicali della mia vita. Ok, andiamo avanti.
Oggi però non c'è nessuno al mondo che possa fare Tom Petty come sa fare Mike Campbell. "Tutto quello che ho fatto da quando Tom è morto, incluso nell'album con i The Dirty Knobs, è nello spirito di onorare ciò che abbiamo fatto insieme" raccontò Mike Campbell all'uscita del debutto della band che mise in piedi per divertimento quasi vent'anni fa, tra un tour degli Heartbreakers e l'altro.
Vagabonds, Virgins & Misfits si candida, a pochi giorni dall'uscita, a diventare il migliore dei tre album pubblicati da Campbell con i Dirty Knobs (Chris Holt alle chitarre e tastiere, Lance Morrison al basso, Matt Laug alla batteria).
Oltre al fantasma di Petty che si aggira indisturbato tra le note di 'Angel Of Mercy' e 'Hands Are Tied' ("se ci penso troppo, divento triste" ha lasciato detto recentemente Campbell), si percepisce tutta la voglia del chitarrista di lasciarsi andare, suonare e divertirsi, portando avanti si un' eredità pesante ma segnante e significativa negli ultimi cinquant'anni di american music: che sia l'hard rock veloce e guizzante di 'So Alive', il blues di 'Shake These Blues' con quel finale di chitarre veloci, tutto l'amore per i Byrds che permea 'Innocent Man' o il tanto alcol versato nel country 'My Old Friends' che contiene nel testo più nomi di bevande alcoliche del menù del peggior bar della città.
Piacciono poi gli interventi discreti ma di spessore di tre amici ospiti: con la presenza di Graham Nash in 'Dare To Dream', Campbell corona il sogno di fare una canzone nello stile degli amati Hollies con Nash ai cori, affida a Lucinda Williams 'Hell Or High Water' una ballata folk arricchita da archi e fiati con un testo scritto con occhio femminile e si catapulta in uno scatenato honky tonk da fine serata ('Don't Wait Up') in compagnia di Chris Stapleton e con Benmont Tench a saltellare sul pianoforte.
Ecco, la presenza di Tench e di Steve Ferrone in un paio di canzoni, alcune di queste recuperate dal passato e lasciate riposare fino ad oggi (decisivo l'invito della moglie Marcie che compare pure ai cori in 'Hands Are Tied') sembrano ricompattare quei cuori spezzati ma non ancora smarriti che a questo punto potrebbero essere l'ultima mia salvezza per alleviare un rimpianto che esce ogni qual volta il nome di Tom Petty compare fuori. Tipo ora. A rincarare la dose è appena uscito un tributo della scena Country americana a Tom Petty a cui partecipano tra i tanti anche Steve Earle, Chris Stapleton, Margo Price, Dolly Parton, Willie & Lukas Nelson, Marty Stuart, Rhiannon Giddens e Mike Campbell e Benmont Tench appunto.
domenica 16 giugno 2024
RECENSIONE: THE DECEMBERISTS (As It Ever Was, So It Will Be Again)
THE DECEMBERISTS As It Ever Was, So It Will Be Again (Thirty Tigers, 2024)
perdersi nel loro mondo
Bentornati ai Decemberists. Oggi piove, non è certo una novità di questi tempi, ma il nuovo As It Ever Was, So It Will Be Again sembra viaggiare proprio bene tra vetri schizzati di gocce d'acqua (da immaginare come una foto in bianco e nero), foglie ormai verdi, verdissime, che dondolano pigre sotto il cadere incessante dell'acqua e nubi color grigio che non lasciano intravedere troppo in lontananza. Si può giocare di fantasia. Il dipinto di copertina disegnato dalla illustratrice Carson Ellis, popolato da esseri viventi (animali e uomini, ci siamo anche se in lontananza, giustamente ce lo aggiungo io) sembrano vivere felicemente insieme, in posa per un ritratto che cerchi di dare un senso al titolo "com'è sempre stato, così sarà ancora". Si può continuare a giocare di fantasia.
Sono passati sei anni dall'azzardo modernista del precedente I'll Be Your Girl , ma qui la creatura di Colin Meloy riprende il discorso interrotto dallo splendido, americano e rurale The King Is Dead aggiungendo quell'onirica scia progressive che abitava l'ambizioso The Hazards Of Love.
Mai banali i Decemberists. I quasi venti minuti della finale 'Joan In The Garden' riassumono bene tutte le molteplici parentesi della loro carriera: una prima parte folk, la metà ambient indie-rumorista, la seconda metà liberatoria tra chitarre cavalcanti al limite dell'hard e fughe tastieristiche verso le stagioni del prog.
I Decemberists hanno l'innato dono di rapirti dentro al loro mondo, a tratti surreale, popolato da santi, figure letterarie, oniriche, tra passato e attualità, tra racconti popolari e il presente che ti passa davanti, dove però incontri il caldo vecchio abbraccio delle chitarre byrdsiane ('Burial Ground'), il country americano sognante attaccato a una pedal steel, i colori del folk ('The Reapers') spesso occhieggiante al Regno Unito , lo sbuffare dei fiati che ti consegnano nelle mani del sergente beatlesiano ('America Made Me'), il gusto profondo e avvincente del pop sixties.
E visto che in questi giorni si parla tanto di REM, la presenza di Mike Mills fa più che piacere. C'è pure James Mercer degli Shins.
È un disco lungo (un doppio d'altri tempi se si pensa al vinile, diviso in quattro facciate) ma si sta prenotando senza difficoltà alcuna un posto tra i dischi dell'anno. Qui dentro la musica svolge degnamente il suo compito.
sabato 8 giugno 2024
RECENSIONE: KING HANNAH (Big Swimmer)
KING HANNAH - Big Swimmer (City Slang, 2024)
avanti tutta
Le prospettive su alcuni artisti cambiano radicalmente dopo averli visti sopra un palco. I King Hannah sono delle anti-rockstar per eccellenza. L'ho appurato l'anno scorso quando suonarono prima dei Wilco al Todays Festival di Torino. La loro musica che su disco arriva con poca immediatezza ma arriva, live mi prese prima la testa per arrivare solo dopo alle gambe, senza trucchi e nessun inganno.
Hannah Merrick, chitarra e voce e Craig Whittle, chitarra elettrica, accompagnati dalla loro sezione ritmica salirono sul palco timidamente senza lo straccio di un look e con toni quasi dimessi ma piano piano dopo la mente iniziarono a impossessarsi dei corpi grazie alla loro idea di rock: molto basica, lo fi, senza inutili sovrastrutture, diretti e genuini dove il mood ipnotico, melodico e intrigante dei testi dalla penna cinematografica cantati o quasi recitati con voce salmodiante dalla Merrick vengono accompagnati e poi squarciati dell'elettricità delle chitarre che irrompono e allungano ('The Mattress' e 'Milk Boy' qui presenti sono buoni esempi) con fare grezzo, spesso imperfetto come farebbe la old black del caro vecchio Neil Young.
Un'onda che da calma si fa tempestosa per poi smorzarsi nuovamente e riprendere vigore con la base ritmica che fa da accompagnamento senza mai prevaricare.
Presentarono il debutto I'M Not Sorry , I Was Just Being Me (2022) a cui aggiunsero la cover di 'State Trooper' di Springsteen presa da quel Nebraska che sembra dettare la via della sottrazione.
Questo Big Swimmer è il loro american dream che in qualche modo si è avverato e materializzato molto presto in undici canzoni che riescono a darne una cifra stilistica più concreta e personale rispetto al primo disco, certamente più vario. Anche se non mancano divagazioni come la più spensierata 'Davey Says', la title track che apre il disco in acustico per poi virare nell'elettrico (pure manifesto del loro pensiero) e l'ambient di 'This Wasn't Intentiobal'.
Pensato e scritto durante i mesi di tour negli States è un vero e proprio diario di viaggio da nord a sud, da una giornata tipo a New York trascorsa tra i locali ('New York, Let's Do Nothing') fino a raggiungere i pericolosi confini con il Messico ('Somewhere Near El Paso') di due musicisti di Liverpool che caricano di suggestioni le ore di quotidianità trascorse in viaggio, spiando fuori dai vetri e vivendo in diretta il proprio sogno americano anche citando altri artisti viventi e non ('John Prine On The Radio') e invitando la cantautrice Sharon Van Etten a collaborare in un paio di pezzi.
Inquietudine ed esuberanza che si tengono per mano. Ci sento la strada battuta dal sole e ci vedo le luci al neon in piena notte.
In questi giorni stanno avendo grande hype tra le riviste di settore e nel web, tanti cori di positivo entusiasmo ma naturalmente anche parecchi detrattori che ritengono eccessiva questa sovraesposizione (ho letto pure tante sciocchezze gratuite). Come sempre la verità sta nel mezzo.
Io dico solo che se in un disco di oggi ci trovi tracce di Neil Young con i Crazy Horse, Lou Reed, i Velvet Underground, Kim Gordon, Sonic Youth, Patti Smith, Lucinda Williams e Slint un disco brutto non può esserlo. Poi mi è venuto in mente Daniel Lanois: qui ci sarebbe materiale per lui. Chissà cosa riserverà il futuro?