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giovedì 17 luglio 2025

RECENSIONE: RYAN ADAMS (Changes)

RYAN ADAMS   Changes (Paxam, 2025)





cover me

Scorrendo tra le setlist del tour acustico di Ryan Adams in Europa, quello di questa primavera per festeggiare i venticinque anni di Heartbreaker, ci si può imbattere in serate durante le quali le cover presenti in scaletta sono state più della metà delle canzoni suonate. Vedi Stoccolma. A Milano ci siamo accontentati tra le sole tre proposte di una 'Idiot Wind' da favola ma tutto questo la dice lunga su quanto la bulimica passione di Adams per la musica non conosca confini e steccati di genere. È ancora un grande fan e non ne ha mai fatto mistero, tanto che molto spesso si lascia prendere la mano.

Passare da Taylor Switft agli Iron Maiden è veramente  un attimo, provateci voi, ti distrai un secondo e lo vedi con una t-shirt con raffigurato Eddie, la mascotte dei Maiden, (recentemente si presenta spesso con la felpa dei Corrosion Of Conformity) mentre un attimo prima indossava scarpe lucide e un completo in giacca e cravatta. Questo disco che prende il nome da 'Changes', canzone dei Black Sabbath, qui presente (che tempismo!), è una raccolta di venti cover che  ben rappresentano una parte dei suoi ascolti: da Neil Young (presente con ben tre canzoni: 'Powderfinger', 'Harvest Moon' e 'After The Gold Rush') ai Velvet Underground, da Bob Dylan ('The Man In Me') ai già citati Black Sabbath, da Bonjovi ai Replacements, dai Rolling Stones ('Sympathy For The Devil') agli Alice In Chains ('Nutshell'), dai Simple Minds agli Oasis, da Prince a Bruce Springsteen ('Atlantic City'), dai Doors ('The Crystal Ship') ai Soul Asylum ('Runaway Train') dai Pixies a Daniel Johnston,  dagli adorati Smiths a Juice Newton ('Queen Of Hearts').

Versioni acustiche per chitarra, armonica, pianoforte e talvolta con degli arrangiamenti d'archi a rendere tutto intimo e quasi  spettrale. Alcune versioni catturate live con tanto di pubblico.

Certo, un disco per completisti di Adams che esce per la sua etichetta Paxam, ma cercando bene ci si imbatte in qualche chicca veramente ben fatta tipo 'Don't You (Forget About Me)' dei Simple Minds o la stessa 'Changes'.





sabato 12 luglio 2025

RECENSIONE: BRUCE SPRINGSTEEN (Somewhere North Of Nashville)

BRUCE SPRINGSTEEN  Somewhere North Of Nashville (Columbia/Sony, 1995/2025)




uno dei sette

Dentro al monumentale box contenente sette dischi perduti ce ne sono almeno due o tre che mi sarei aspettato da Bruce Springsteen durante la carriera, prima o poi. Tra questi sicuramente  Streets Of Philadelphia Sessions e Inyo.

Lui ha preferito tenerseli e far uscire album come Working On A Dream e High Hopes (due dischi a caso). Questo la dice lunga su quanto spesso abbia "calcolato" troppo intorno ai suoi dischi o sia stato consigliato/indirizzato male. E farli uscire tutti così, in un sol colpo vista la varietà, a parte il costo assurdo, mi sembra  faccia un ulteriore sgarbo a certe canzoni. Uscite singole spalmate nel tempo avrebbero giovato di più a tutti. Qualcuno dice "arriveranno".

Alle tasche dei fan sicuramente, perché in fondo chi se ne fotte del librone che fa alzare il prezzo, sfogli una volta e metti via senza aprirlo mai più. Fatemi pagare la musica il giusto prezzo che non è sicuramente questo e io sono contento.

Quando qualche settimana fa uscì 'Repo Man', uno dei singoli scelti per lanciare il cofanetto, un divertente honky- tonk alla Chuck Berry, mi piacque subito e pensai " se il disco Somwhere North Of Nashville dal quale è uscito è tutto così ne ascolteremo delle belle".

 Somewhere North Of Nashville sarebbe dovuto uscire nel 1995 e fu registrato con i fidi Danny Federici, Garry Tallent e Gary Mallaber, il presentissimo Marty Rifkin alla pedal steel, Jennifer Condos, Jim Hanson, Charlie Giordano e Soozie Tyrell (violino) in registrazioni veloci, con poche takes, e senza troppi abbellimenti estetici intorno a togliere quella ruvidezza troppo spesso sacrificata per eccesso di perfezione.

E mi domando ancora una volta perché non l'abbia fatto uscire nei tempi giusti: avrebbe giovato ulteriormente ai suoi anni novanta. La parte country, honky-tonk, rockabilly, spensierata di The Ghost Of Tom Joad. Anche se sottotraccia la disperazione di quel disco fa capolino pure qui, smussata, a volte nascosta tra paesaggi, personaggi e sentimenti ma c'è.

"Quello che è successo è che ho scritto tutte queste canzoni country contemporaneamente a 'The Ghost of Tom Joad, quelle sessioni si sovrappongono completamente. Canto 'Repo Man' nel pomeriggio e 'The Line' la sera. Quindi il disco country è stato realizzato insieme a 'The Ghost of Tom Joad. 'Streets of Philadelphia' mi ha avvicinato al mio modo di scrivere canzoni socialmente impegnate o di attualità. Ecco da dove è nato 'The Ghost of Tom Joad'. Ma allo stesso tempo avevo questa vena country che pervadeva anche quelle sessioni e ho finito per realizzare un disco country parallelamente" ha detto Springsteen presentando il disco.

Un poker di canzoni si conoscono già, anche se qui sono presentate con diversi arrangiamenti: 'Stand On It' (già pubblicata, in diverse versioni, come lato B di 'Glory Days' nel 1985 e poi nel primo cofanetto Tracks) e 'Janey Don't You Lose Heart' qui in una versione bluegrass (lato B di 'I'm Goin' Down' nell'85, pure lei inclusa in Tracks), arrivano, insieme a 'Delivery Man' e 'Under A Big Sky'  dalle session di Born In The USA. Le altre conosciute sono: la title track che uscì in Western Stars ma qui è alleggerita dai sontuosi arrangiamenti che dettavano il mood di quell'album per trasformarsi in un honky- tonk, mentre 'Tiger Rose' uscì registrata da Sonny Burgess nel 1996 sotto l'intercessione di Garry Tallent, e  'Poor Side of Town'  cover del successo di Johnny Rivers del 1966 con la pedal steel di Marty Rifkyn a cucire note di malinconia. Tra i momenti top dell'album.

Ciò che resta sono canzoni semplici che svelano un'altra America con un lato a volte pure ironico ('Delivery Man', 'Detail Man'), alternando rock'n'roll con composizioni dai tratti più amari e malinconici come 'You're Gonna Miss Me When I'm Gone' e 'Under A Big Sky' che si apre in acustico, chitarra e armonica, per poi abbandonarsi al trascorrere del tempo e alla lontananza ("stasera sto inseguendo i randagi giù nel canyon, grido il tuo nome e ascolto mentre l'eco muore, sotto un grande cielo"),  e romantici ma con un finale che fa prevedere tragicità come 'Silver Mountain' ("mi incontrerai al fiume?, Ti prenderò per mia sposa, di' a tuo padre che sto arrivando, non me ne andrò finché non sarò soddisfatto") che si apre con un fischiettio per poi allungarsi in territori irish non lontani dalle Seeger Session.

Ma nel viaggio dentro a questa America non troppo esposta c'è anche lo spazio per la speranza come canta nella sognante 'Blue Highway':" un giorno mi costruirò una bella casa, sì, in alto su una collina, dove dolore e memoria, dolore e memoria sono stati placati". Visto dove è sprofondato il sogno americano in questi ultimi anni, la sua attualità non l'ha persa. Si continua a viaggiare verso una terra promessa anche se le nebbie sembrano più fitte del previsto.





martedì 24 giugno 2025

RECENSIONE: JAMES McMURTRY (The Black Dog And The Wandering Boy)


JAMES McMURTRY  The Black Dog And The Wandering Boy (New West Records, 2025)




parole al posto giusto


In questi giorni si fa fatica a pensare che Donald Trump e James McMurtry siano entrambi cittadini americani. Mentre uno in una spirale di delirio misto di demenza e onnipotenza dice cose e ne fa altre, fa cose e dice il contrario quasi fosse dentro a un reality tv da consumare di giorno e dimenticare di notte con l'unico grave difetto di tenere  sotto scacco l'intero mondo, McMurtry da seguito al precedente e ottimo The Horses And The Hounds mantenendo lo stesso livello di scrittura di sempre: alto, tendente all' altissimo. Uno di cui ci si può sempre fidare, insomma. Un candidato alla presidenza perfetto.

"Segui le parole dove ti conducono. Se riesci a creare un personaggio, forse puoi creare una storia. Se riesci a impostare una struttura strofa-ritornello, forse puoi creare una canzone" dice lui come fosse una delle cose più semplici da fare. Il manuale del perfetto songwtiter è aperto ma non sono tantissimi quelli che l'hanno studiato come ha fatto McMurtry durante la sua ormai lunga carriera, cosparsa di dischi usciti però con parsimonia temporale.

Togliendo il capo e la coda del disco, due canzoni non sue, la prima da tempo nelle  setlist, il tagliente rock 'Laredo (Small Dark Something)' dell'amico texano John Dee Graham che indaga sulle dipendenze e i confini, l'ultima 'Broken Freedom Song' un raggio di speranza per il futuro cotruito però dalle profonde  cicatrici della vita, è una rilettura omaggio di un altro texano sconparso recentemente, Kris Kristofferson, faro guida per le generazioni che arrivarono dopo, in mezzo, nelle restanti otto canzoni un campionario esaustivo della sua scrittura. Personali e lucide riflessioni sull'invecchiamento come 'South Texas Lawman' dove il protagonista ripete "non sopporto di invecchiare, non mi si addice" e il blues della title track, in crescendo con l'esplosione nell'assolo di chitarra, che in accoppiata con il disegno di copertina, schizzo di Ken Kesey, ricordano il padre Larry romanziere scomparso nel 2021 che ha vissuto gli ultimi anni di vita con la compagnia della demenza; stoccate politiche messe giù con arguzia (per chi preferisce  la pancia c'è Neil Young) come 'Annie' che ritorna indietro all'Undici Settembre e alla presidenza di George W. Bush (con l'aiuto vocale e il banjo della texana Sarah Jarosz), momenti più leggeri disegnati con sottile ironia dove a contare sono sempre i dettagli e l'incastro delle parole che donano il ritmo come succede in 'Pinocchio In Vegas' dove rilegge da par suo la favola di Pinocchio donandole attualità e rivestendola con suoni d'archi o la descrittiva e più leggera 'Back To Coeur D'Alene' viaggio lungo i sempre affascinanti, se raccontati bene,  paesaggi americani con l'organo suonato da Red Young in evidenza.

Si fa aiutare in produzione da una vecchia conoscenza come Don Dixon, i fidati musicisti di sempre (BettySoo alla fisarmonica e cori, Cornbread al basso, Tim Holt alla chitarra e Daren Hess alla batteria) più qualche ospite (Sarah Jarosz, Charlie Sexton, Bonnie Whitmore e Bukka Allen) in dieci canzoni forse poco omogenee nei temi trattati rispetto al passato, McMurtry affonda bene nel tempo e nella storia, da attento osservatore raccoglie personaggi noti e "qualunque", perdenti e finti vincenti, percorre strade spesso secondarie, dipinge fondali e visita paesaggi. Più omogeneo musicalmente, con poche vere stoccate elettriche, ma giocando preferibilmente tra le ombre elettro-acustiche delle radici.

'The Color Of Night' rappresenta bene quanto musica e parole tarate con minuziosità di particolari possano viaggiare bene insieme. Ed è un bel viaggiare.

Tornando all'inizio: in 'Sons Of The Second Sons' McMurtry sembra proprio rivolgersi alla recente presidenza Trump, quando scavando indietro nella breve storia degli USA porta a galla malesseri e malattie che nonostante il tempo trascorso, a questo punto un "invano" ci può stare, sembrano rimanere croniche.

No,  Trump e McMurtry non possono essere figli della stessa terra, ci dev'essere un errore. Cotanta cialtroneria non può correre in parallelo con questa limpida visione delle cose. 





sabato 21 giugno 2025

RECENSIONE: WILLIE NILE (The Great Yellow Light)

WILLIE NILE  The Great Yellow Light (River House, 2025)





sing me a song

Lo so, travolti da mille uscite il nuovo disco di Willie Nile, il ventunesimo della sua carriera, rischia di passare velocemente con il marchio "l'ennesimo disco" stampato sopra. Io invece ad ogni nuova uscita del piccolo uomo di Buffalo esulto perché so che dentro ci troverò ancora la passione e la coerenza che lo hanno seguito fin dal principio. Cose rare in tempi che vogliono che tutto scorra veloce, possibilmente diverso per poter stupire. Avanti il prossimo. Un debutto, il suo, uscito nel 1980, un disco di canzoni straordinarie, perfettamente in bilico tra il vecchio folk, sporco di polvere preziosa, tramandato dal Greenwich Village, i sixties marchiati da una Rickenbacker dei Byrds e l'assalto urbano del punk rock che visse sulla propria pelle in anni irripetibili che oggi sembrano veramente preistoria del rock. Quella da studiare a scuola.

Quando tra il CBGB e il Max's Kansas City potevi stringere amicizie, rubare consigli a Patti Smith, Ramones e Television, tenendo una radio sempre sintonizzata dall'altra parte dell'oceano, in UK. 

Sono passati quarantacinque anni, nel mezzo Nile, dopo anni di esilio forzato dalla musica, è tornato prepotentemente ad agitare le mille chitarre, scrivere canzoni, incidere dischi, girare il mondo, e camminare per le vie della sua amata  New York con lo stesso impeto e lo sguardo sempre curioso di allora, occhi penetranti che si posano su loser e marciapiedi poco frequentati e quando lo sono, calpestati da chi non ha più nulla da perdere.

Forse non è più disincantato come allora, c'è più consapevolezza, ma la sincerità è sempre la stessa. Come l'attitudine da rocker, ribelle e romantico insieme che si chiede qual è il colore dell'amore nella riflessiva 'What Color Is Love', canta inni che sono una sorta di chiamata alle armi per tutti quelli che vogliono un mondo migliore di questo, sotto il ritmo incalzante di 'We Are We Are' o dimostra che a 77 anni si possa ancora pestare duro in 'Electrify Me', punk rock nervoso e immediato che rincorre la giovinezza ma pare con il fiato ancora buono.

Allora sei sicuro che mettendo su queste nuove dieci canzoni ci puoi trovare ancora tutta la curiosità, l'impegno (fin dal classic rock d'apertura 'Wild Wild World') e l'ironia di sempre che esce prepotente in canzoni come 'Tryin' To Make A Livin' In The USA'.

"Le mie canzoni sono molto semplici, ma scrivo di cose che vedo. Adoro l'ampia tavolozza. Adoro questa enorme tela bianca. Puoi scrivere d'amore, di perdita, di feste il sabato sera, di dolore, di estasi..." ha detto recentemente in una intervista. 

E proprio da delle tele si è ispirato per la title track, ballata squarciata da fulmini elettrici: quelle di  Vincent Van Gogh venute in dono grazie alla luce mediterranea di Arles che ispirarono molte opere "luminose" durante il soggiorno francese del pittore e che in qualche modo la bella foto di copertina, scattata in un piccolo tendone da circo europeo  dalla moglie e fotografa Cristina Arrigoni, vuole rappresentare e sottolineare. 

Un invito a cogliere i migliori momenti della vita, anche in periodi cupi come questi, ben raccontati dall'accoppiata a fine disco formata una 'Wake Up America' , uscita già un paio di anni fa e cantata insieme a Steve Earle, uno che ha sempre viaggiato dalla parte giusta, dove si domanda dove sia finita l'America che conosceva ("anche se la nostra storia è costellata di dolore e ingiustizia e le divisioni tra noi sono più grandi che mai, so che possiamo fare di meglio" disse presentando la canzone) e le speranze di libertà affidate alla conclusiva 'Washington's Day' con la presenza di Rob Hyman e Eric Brazilian degli storici Hooters.

Un disco corale, registrato all' Hoobo Sound nel New Jersey e prodotto insieme a Stewart Lerman, che oltre ai già citati ospiti, alla sua fedele band che lo accompagna live composta da Jimi Bones alle chitarre elettrica, Johnny Pisano al basso Jon Weber alla batteria, vede anche il cantautore irlandese Paul Brady in 'Irish Goodbye', folk non troppo lontano dai Pogues che proprio in questi giorni l'amico Little Steven dal suo programma radio ha proclamato canzone della settimana.

E allora speriamo che l'ultimo "arrivederci" scambiato con Willie Nile nell'ultimo suo viaggio in Italia, sua seconda patria, possa materializzarsi presto in qualche nuovo concerto dalle nostre parti, tanto per ribadire quanto il rock’n’roll non abbia bisogno di soli stadi pieni e sterminati luoghi pagati con un rene per espandere il proprio verbo, a volte non c'è bisogno di gridare troppo, il messaggio arriva chiaro e forte anche nei piccoli club delle periferie del mondo.


Foto: Enzo Curelli



giovedì 12 giugno 2025

RECENSIONE: NEIL YOUNG And The CHROME HEARTS (Talking To The Trees)

 


NEIL YOUNG And The CHROME HEARTS  Talking To The Trees (Reprise, 2025)




famiglia e politica

Ad ogni nuova uscita di Neil Young sembra quasi d'obbligo fare un punto su tutti i dischi che l'hanno preceduta. Bene, salto a piè pari questa pratica, lunga e dispendiosa di tempo e righe.

Talking To The Trees è un disco, il primo di inediti da World Record del 2022, che si infila dentro deciso ai suoi dischi dal piglio country e acustici anche se non mancano un paio di song rumoriste a disturbare l'atmosfera: 'Big Change' che fu il primo singolo, una chiara chiamata alle armi contro le mire espansionistiche  di Donald Trump. Il natio Canada nel mirino. Quando uscì, Young aveva appena annunciato il tour europeo che salta l'Italia ma che sarebbe dovuto passare addirittura in Ucraina per un concerto che avrebbe avuto il sigillo dell'epicità. Poi il peggiorare della situazione fece saltare il tutto.

"Esatto, gente, se dite qualcosa di negativo su Trump o sulla sua amministrazione, potreste essere esclusi dal rientro negli Stati Uniti.  Se siete canadesi ... Se avete la doppia cittadinanza come me, chi lo sa? Lo scopriremo tutti insieme...".

C'è poi 'Lets Roll Again': che a Neil Young stia particolarmente sul culo Donald Trump lo avevamo già capito cinque anni fa quando fece uscire l'Ep The Times che conteneva una versione riveduta e corretta della sua vecchia 'Looking For A Leader' dove cantava: "non abbiamo bisogno di un leader  che costruisce muri intorno alle nostre case, che non conosce Black Lives Matter, è ora di mandarlo a casa". Non solo Trump non andò a casa ma ritornò.

Ora, in 'Lets Roll Again', una riscrittura di 'This Land is Your Land' di Woody Guthrie ('Silver Eagle' che la precede pure ma in acustico con parole d'amore per il tour bus), che nel titolo rimanda anche alla sua vecchia 'Let's Roll' presente su Are You Passionate? non le manda a dire a  Elon Musk: "se sei un fascista, allora prendi una Tesla, se è elettrica, non importa, se sei un democratico, assapora la tua libertà, prendi quello che vuoi, e assapora la tua libertà”.

Ad accompagnarlo in questa nuova avventura ci sono i  Chrome Hearts, ossia: Micah NelsonCorey McCormickAnthony LoGerfo, tutti presenti nei Promise Of The Real, e il vecchio compare Spooner Oldham, gli stessi che lo accompagneranno in tour da inizio Giugno. A produrre l'aiuto del novantenne Lou Adler.

A fare da ponte verso i prevalenti momenti acustici, lo sferragliante blues 'Dark Mirage'  dove tira in ballo sua figlia Amber Jean e la ex moglie Pegi, scomparsa nel 2019. E sono proprio i quadretti famigliari a uscire con maggior frequenza tra i testi: Family Life', un  folk con armonica che la sua attuale voce rende sgangherato, tanto da sembrare uscita  da American Stars And Bars, 'First Fire Of Winter' è 'Helpless' con un altro testo, altro monumento alla vita domestica e bucolica con la moglie Daryl Hannah , quella che abbiamo ammirato durante il lockdown con i suoi video davanti al caminetto.

Sono però le quattro canzoni finali quelle più interessanti: 'Talkin To The Trees', un classico Neil Young acustico, ecologista, che cita pure Bob Dylan tra le righe, una speranzosa 'Movin Ahead', dove finalmente si sente  Spooner Oldham, canzone quasi inusuale nel suo repertorio, 'Bottle Of Love', ballata al pianoforte e la finale 'Thankful' un dolce e rarefratto country che trova la sua collocazione ideale su Comes A Time.

Il vecchio Neil, alla soglia degli ottant'anni, continua in qualche modo la sua battaglia, continuando a vivere la sua vita agreste che pare concedere poco ai lussi. Sì ok, il suo parco macchine è grande come quello di un concessionario però scarpe grosse, t-shirt e camicia a quadri sono quelle di sempre.  Sicuramente non è un disco epocale anche se uno dei migliori dell'ultimo decennio,  ma come sempre, ultimamente, per lui sembra contare più il messaggio (ricorda l'incompiutezza e la genuinità di Peace Trail) e Neil Young ci ha sempre messo la faccia con onestà, coraggio e un po' di quella sana ingenuità che ce lo fa ancora amare anche ora che la voce è debole, spesso copia se stesso,  nessuna di queste canzoni entrerà in un suo greatest hits ma il cervello sembra funzionare ancora molto bene, sia nel riparo della sua fattoria, sia quando mette fuori la testa osservando l'involuzione della società.




sabato 17 maggio 2025

RECENSIONE: COUNTING CROWS (Butter Miracle, The Complete Sweets!)

 

COUNTING CROWS  Butter Miracle, The Complete Sweets! (BMG, 2025)





il più classico dei ritorni


L' abitudine, la moda, la necessità di far uscire Ep di pochi pezzi con me non ha mai attecchito troppo. Mi sono perso tante uscite di tanti artisti costruite in questo modo. Così anche per i Counting Crows che quattro anni fa fecero uscire quattro nuove canzoni a distanza di sette anni dall'ultima uscita discografica, mi persi quelle canzoni. Come se non fossero mai veramente uscite. Sì ok, se non compro il supporto fisico, difficilmente ci torno su una seconda volta. Fortunatamente oggi è uscito Butter Miracle The Complete Sweets! che riprende quei quattro brani, a cui ne aggiungono cinque nuovi facendolo diventare a tutti gli effetti il vero successore del precedente Somewhere Under Wonderland.

 Un ritorno all'urgenza espressiva, ben in evidenza fin dall'apertura 'With Love, From A-Z', rock blues su cui Adam Duritz scolpisce l'autobiografico testo che i chitarristi  David Bryson, Dan Vickrey e David A. Immergluck rendono teso e vibrante il giusto.

"È strutturata come una canzone folk. Ma non volevo che fosse una canzone con la chitarra acustica" ha raccontato Duritz.

Momenti rock come 'Spaceman In Tulsa', la quintessenza del loro suono che pare uscire dai novanta ("parla di gente traumatizzata che trova un posto nel mondo grazie al rock o a qualche altra forma d’arte. In un certo senso è una celebrazione, dice che puoi sopravvivere e stare bene anche se vieni da un brutto posto"), anche più energici del solito come succede in 'Boxcars' con il suo riff dal piglio  hard glam che si alternano a ballate come 'Virginia Through The Rain'  con il pianoforte di Charles Gillingham a prendersi la scena e condurre il gioco. Nell'ariosa 'Under The Aurora' compare una sezione d'archi di memeroia beatlesiana mentre Duritz ci invita ad osservare il mondo da un'angolazione diversa: in fondo molte i queste nove canzoni sono nate durante la pandemia.

La seconda parte del disco, quella già conosciuta (ma riveduta e corretta), è a tutti gli effetti una lunga suite di quasi venti minuti che porta alla finale 'Bobby And The Rat-Kings' dove Duritz gioca a fare lo Springsteen, e la band lo asseconda dividendosi tra la E Street Band periodo The Wild The Innocent And The E Street Shuffle e gli Who di Next's Who, riferimenti palesi e dichiarati. Tra omaggio e continuità con un modo di intendere il rock che sa ancora di antica classicità nel suono compatto della band e nei testi narrativi di Duritz.

Pur nato in due periodi diversi e distanti anni tra loro, è un disco che viaggia bene, dai toni caldi e avvolgenti, buona scusa per caricare ancora una volta  valige e strumenti e ripartire in tour, dove non deludono mai.





martedì 13 maggio 2025

RECENSIONE: CRISTIANO GODANO (Stammi Accanto)

CRISTIANO GODANO  Stammi Accanto (Al-kemi Records, 2025)




dentro le ferite

Mi Ero Perso Il Cuore, il precedente disco solista di Cristiano Godano, il primo, uscito nel 2020 è stato per me una delle più belle sorprese di questi ultimi anni. Un disco di ballate molto intime, poetiche, rarefatte, dall'anima folk, acustiche con l'America di Neil Young e Bob Dylan  come faro guida e lontanissime da quanto proposto dalla sua band madre. 

 A cinque anni di distanza ecco il seguito che percorre le stesse strade. Non più una sorpresa ma una conferma. Otto canzoni scritte durante la pandemia, accantonate, messe a riposo, lasciate a decantare per qualche anno e ora riportate in superficie, nella penombra di questi tempi duri e difficili. Il periodo che stiamo vivendo non è così diverso da quella assurda parentesi che ci ha coinvolti tutti, e queste canzoni figlie di quelle incertezze non hanno perso la loro attualità. Canzoni dalla profondità abissale ma dai tratti gentili, tanto quanto cariche di speranza ("eppure so che devo continuare a cercare poesia e bellezza per noi" canta in 'Eppure So'), guidate ora da un organo, da un pianoforte ('Stammi Accanto'), dalla chitarra acustica, dagli archi (una 'Eppure So' che sembra richiamare Eugenio Finardi). Tra citazioni (Battiato in 'Cerco Il Nulla'), intricate incursioni nei rapporti ('Ti Parlerò), i lenti passi di valzer country di 'Vacuità', si sente ancora tutto l'amore per Neil Young in 'Nel Respiro Dell'Aria' (quel banjo), nel frattempo portato in scena nei bellissimi e intimi concerti (Journey Through The Past) eseguiti in compagnia di Alessandro "Asso" Stefana negli ultimi anni. E proprio Stefana che con i suoi Guano Padano hanno accompagnato Godano nei primi concerti di presentazione di questo nuovo disco dove invece hanno suonato Vittorio Cosma e gli Ustmamò, Luca Rossi (anche co-produttore), Ezio Bonicelli e Simone Filippi. Ah dimenticavo: 'Dentro La Ferita', altra canzone che pare uscire da Harvest, ospita Samuele Bersani. Fragile, intimo e a suo modo potente e penetrante.





martedì 22 aprile 2025

RECENSIONE: MESSA (The Spin)

 

MESSA  The Spin (Metal Blade, 2025)



tutto gira

Ma che bello! Erano anni che non mi succedeva: mi sembra di essere tornato negli anni novanta quando aspettavo l'uscita di un disco con quella ingenua carica di aspettative che poi in un modo o nell'altro venivano rispettate, spesso a forza di tanti ascolti. The Spin, il quarto disco dei Messa è uscito da una settimana e si sta rivelando per quello che mi aspettavo: un disco importante che segnerà un prima e un dopo. 

Per di più di un gruppo italiano. Cosa volere di più?

Sono determinati i quattro veneti, sanno cosa vogliono ma allo stesso tempo sono una band che sembra non porre limiti alla propria ispirazione e crescita artistica. Dove vorranno mai arrivare? Intanto il mondo si è accorto di loro, prima di noi naturalmente, e il contratto con la Metal Blade è il sigillo di garanzia.

Ad oggi credo siano la più importante band rock italiana di questi ultimi anni ( chi può vantare una cantante come Sara  e un chitarrista come Alberto di questi livelli? E i loro live rapiscono. Sempre) e The Spin seppur diverso, mantiene saldamente la loro identità, un pò come l'uroboro (la ruota di motocicletta) raffigurato in copertina, svisa e si apre in mille direzioni, verso blues, jazz, hard rock, metal e dark wave targata eighties (la maggior novità) per poi tornare all'origine doom. Difficile oggi appiccicare loro delle etichette. Tanti spunti, tanta bravura, tanta sana ambizione, cura dei dettagli, professionalità con i piedi ben a terra, songwriting eccelso (Void Meridian, The Dress), idee mai scontate (Immolation, At Races), e canzoni che funzionano anche se non capisci bene dove finisca la loro semplicità (Reveal) e inizi la complessità (Fire On The Roof, Thicker Blood).

Tutto gira a meraviglia. Non fermatevi.





domenica 13 aprile 2025

RECENSIONE: ELTON JOHN & BRANDI CARLILE (Who Believes In Angels?)

 

ELTON JOHN & BRANDI CARLILE   Who Believes In Angels? (EMI, 2025)



in due è meglio

Quando finisce 'When This Old World Is Done With Me', ultima canzone in scaletta delle dieci, la sensazione di trovarsi di fronte al testamento finale della coppia artistica formata da Elton John e Bernie Taupin è forte, tangibile, quasi dichiarata con firme in calce, che se davvero dovesse esserlo di meglio davvero non si potrebbe fare. Elton John si stacca, rimane solo con il suo pianoforte e poco altro (un synth e alcuni fiati nel finale) a cantare, con voce segnata dal tempo,  la summa di una carriera, unica, trionfale senza eguali. "Quando questo vecchio mondo avrà finito con me, quando chiuderò gli occhi, rilasciatemi come un'onda dell'oceano, restituitemi alla marea". 

Ma questo disco non è un matrimonio a due ma uno di quelli allargati, quelli che vanno di moda oggi direbbe qualcuno, ma  funziona benissimo, certo meglio di alcuni matrimoni "classici", quelli "normali" direbbe sempre quel qualcuno. Un vero matrimonio a quattro. Da una parte chi ci mette voce, volto, corpo e talento:  Elton John e Brandi Carlile. Dall'altra: chi ci lavora dietro con eguale talento, ossia il paroliere Bernie Taupin e il produttore, musicista (suona un po' tutto) e autore Andrew Watt, uno che ci sa fare e qui lo fa bene, nonostante sia diventato come il prezzemolo, portandosi sempre dietro alcuni amici fidati. Questa volta sono della famiglia i due Red Hot Chili Peppers Chad Smith (batteria) e Josh Klinghoffer (chitarra ma più impegnato con le tastiere) più  Pino Palladino (basso), session man con il curriculum lungo e di spessore (The Who, NIN, Eric Clapton, Jeff Beck).

Ma se il disco finisce con un velo di malinconia per ciò che è stato, l'inizio non è da meno, sembra di tornare indietro a quei fine anni sessanta quando Elton John e Taupin iniziarono il loro sodalizio artistico, aggiungete una Brandi Carlile sempre sul pezzo (spesso è lei in prima linea) e una canzone dedicata a Laura Nyro ('The Rose Of Laura Nyro', dopo una lunga intro strumentale, è piena di riferimenti alle sue canzoni nel testo) e il disco potrebbe già stare in piedi con i suoi due estremi. 

In mezzo invece c'è tutto il resto: una giostra colorata, a tratti kitsch come la copertina, di pop rock frizzante, nato in soli venti giorni da fogli completamente bianchi e da imbrattare liberamente di parole e musica. La missione è riuscita particolarmente bene.

Un omaggio alla California musicale degli anni settanta dove rock’n’roll ('Little Richard's Bible' è l'omaggio a uno dei miti  di Elton John che va oltre la musica, concentrandosi anche alla vita personale, dura e piena di insidie dell'architetto del rock and roll), il country (l'accopiata formata da 'A Little Light' e 'The River Man', una delle migliori dell'album) e gli anni cinquanta alla Everly Brothers ('Someone To Belong To') si incontrano, trovando la sublimazione nella title track che sembra iniziare là dove finiva Goodbye Yellow Brick Road.

Brandi Carlile, una carriera in continuo crescendo la sua, che già aveva contribuito a riportare sulle scene Joni Mitchell, corona il sogno di duettare con uno dei suoi miti: "è sempre stato il mio super eroe e abbiamo fatto un disco fantastico", e per lui scrive il testo di 'Never Too Late' che compare nella colonna sonora del documentario dedicato a Elton John, dallo stesso titolo e uscito per Disney Channel. I due hanno molte cose in comune: l' omosessualità, i figli, le famiglie. "Ho iniziato pensando: io sono una donna gay, Elton è un uomo gay e entrambi abbiamo figli e famiglia. I nostri sogni sono diventati realtà". Ecco allora la contagiosa e liberatoria 'Swing For The Fences', un invito a essere sempre se stessi e 'You Without Me', neo folk, dedicata alla figlia undicenne.

 Un disco, corto (lungo il giusto nei suoi 44 minuti), essenziale, che pare riportare le lancette indietro agli anni settanta e Elton ad una forma artistica che gli ultimi due dischi parevano aver un poco annebbiato. Gioia, armonia e freschezza senza tempo.

"Questo disco verte esattamente alla ricerca di gioia ed euforia" chiosa la Carlile. Mentre scrivo l'ennesima bomba russa fa strage di civili ucraini. E allora sotto che di questi tempi ne abbiamo bisogno: schiaccio il tasto play, faccio ripartire il tutto. 






lunedì 7 aprile 2025

RECENSIONE: TENNESSEE JET (Ranchero)

TENNESSEE JET   Ranchero (TJ Music, 2025)

non ci resta che l'America musicale 

L'adolescenza di Tennessee Jet (il cui vero nome è TJ McFarland) potrebbe essere uguale a quella di tanti altri ragazzini americani che grazie al lavoro dei genitori hanno potuto girare in lungo e in largo gli Stati Uniti. Sua madre e suo padre bazzicavano per rodei con un pick up  Ford Ranchero (ecco titolo e copertina di questo nuovo disco) e i cavalli al seguito mentre ad accompagnare il susseguirsi dei paesaggi c'era sempre una radio accesa che passava Bob Dylan, Willie Nelson, Waylon Jennings, Steve Earle e se si cambiava canale uscivano pure le chitarre '90 del grunge che influenzeranno i suoi primi due dischi.

Ecco che quegli ascolti hanno lasciato un segno indelebile venuto utile quando il giovane TJ ha iniziato a imbracciare una chitarra seguendo le orme di quelli che nel frattempo erano diventati per lui importanti quanto e più dei cavalli dei rodei. Iniziò a svrivere canzoni, anche per gente come i Whiskey Myers e Cody Jinks.

"Una volta che ho iniziato a fare la mia musica, ho capito che anche se avessi imparato quei suoni, avrei comunque emulato qualcun altro. Ho dovuto fare musica tutta mia. Per sapere cosa puoi apportare a un genere, a volte è bene fare l'opposto di quel genere, così puoi provare quei vestiti e vedere come ti stanno. Le cose che sono autentiche per te, le conservi. Le cose che non vanno, le scarti" racconta. 

Lo avevamo lasciato nel 2021 con il suo quarto disco South Dakota, un disco folk minimale, armonica, chitarra e voce, figlio diretto del lockdown, lo ritroviamo con questo Ranchero che invece ci mostra più lati della sua personalità musicale, legata comunque all'America.

A prevalere questa volta sembra il lato più elettrico: 'The Oklahoma Rose', hillbilly arricchito da un violino che apre l'album in quarta,  un altro singolare omaggio allo stato del Midwest e a un suo grande artista come Ray Wylie Hubbard, nella canzone omonima che avanza fiera e baldanzosa ricordando 'Come Toghether' dei Beatles,  una  tenebrosa e tagliente 'The Only High', il country rock di To Know Her, l'honky tonk di 'Poetry In Blood' con un banjo a condurre la marcia.

Ma la tensione non cala nemmeno nei momenti più soft: 'Bury My Bones' ha tutta l'epicità delle migliori ballad southern rock, 'From To River To The Sea' è l'episodio più folkie di tutto il disco con un testo "importante" che punta l'occhio alle guerre in medio oriente, la finale 'Love & Anarchy' chiude il disco con sottile fantasia di psichedelico country.

Nei suoi brevi 37 minuti di durata c'è anche il tempo per la cover di 'Runaway Train' dei Soul Asylum, passati poche settimane fa in Italia.

Anche se in giro da una decina di anni, ormai, anche se è un forte conservatore musicale, Tennessee Jet è uno dei giovani cantautori americani  più promettenti degli ultimi anni, sa scrivere mantenendo una freschezza invidiabile dentro alla tradizione.





domenica 23 marzo 2025

RECENSIONE: BLUES FACTORY feat. Fabio Drusin (III)

 

BLUES FACTORY feat. Fabio Drusin  III (ArteSuono, 2024)




music satisfie my soul


Quattordici anni fa (ma come passa il tempo!?) intervistando Fabio Drusin, voce e basso dei W.I.ND. storica band friulana e musicista in tanti altri progetti e collaborazioni di rilievo ( Alvin Youngblood Hart’s Muscle Theory), in occasione dell'uscita di Walkin In A New Direction gli chiesi come si potesse definire la loro musica e lui mi rispose così: "Una parola: Rock. Non amo particolarmente le etichette, che non dovrebbero essere date dai musicisti, i generi sono stati inventati dai giornalisti, per meglio etichettare una o l'altra band, che ovviamente è comodo e in certi casi serve; nel Rock, specie quello di un tempo, trovi un pò di tutto: il Blues, il Soul, il Funk. Mi piace ricordare una frase di Gregg Allman: "Non siamo una Jam Band, siamo una band che fa Jam". 

Oggi siamo nel 2025 e ritrovo Drusin come ospite speciale dei Blues Factory, un altro power trio friulano e quella parola "rock" si applica sempre bene per definire il progetto Blues Factory, messo in piedi dal cantante e chitarrista Cristian Oitzinger che vede lo stesso Drusin al basso e armonica e Daniele Clauderotti alla batteria.

Registrato all'Artesuono di Sefano Amerio a Udine, III è un disco per chi ama l'antica attitudine del rock blues suonato con competenza, rispetto e vigore, qui non si inventa nulla ma si porta avanti il verbo con antica passione e devozione. 


Oitzinger, autore di sette pezzi su otto  vanga nella tradizione mettendoci davanti il suo vissuto. E tutto sembra ruotare intorno al torrido riff di  'Mountain Man' composizione centrale dal tiro zztopiano, dedicata al padre Giovanni, ispirazione di vita: dall'iniziale e sorniona 'Unhappy Girl' che gira intorno ai territori cari a Gov't Mule e Warren Haynes, alle rockeggianti 'Rolling Man' e 'The Love You Brought' dalla ritmica dinamica tra i Free e gli Stones di metà anni settanta, con il testo scritto dall'amico di Nashville Mike Cullison. Belle anche le due ballate: 'Time To Make Mistake' e 'Like A Winter Night', dai sapori southern. 

'What You Wanna Do' è un rock blues dal basso pulsante e la slide di Oitzinger in grande evidenza, cantata dalla voce più sporca di  Drusin che si allunga in una jam finale con l'armonica.

In conclusione 'Music Satisfie My Soul', che inizia come un vecchio gospel ma si elettrizza subito mantenendo i piedi in tre scarpe, tra Led Zeppelin, southern rock e gospel con i cori femminili delle The Nuvoices Project e un Hammond B3 suonato da Rudy Fantin a tenere unito il tutto nella composizione più articolata e variegata in scaletta.

E torniamo a quella parola "Rock" con la quale ero partito: qui si va sul sicuro! Un disco caldo e avvolgente che tra alti quindici anni si potrà rimettere su, ritrovando tutta l'antica magia della musica suonata con cuore e passione. Naturalmente spero che i Blues Factory nel frattempo facciano uscire tanti altri dischi. "Music satisfie my soul" mi sembra una buona conclusione.





sabato 15 marzo 2025

RECENSIONE: JASON ISBELL (Foxes In The Snow)

 

JASON ISBELL  Foxes In The Snow (Southeastern, 2025)




altro inizio

Jason Isbell non si è mai nascosto dietro a nulla. Ha sempre messo in musica la sua vita, che si accompagnasse dietro al suono elettrico di una band (i suoi 400 Unit, messi in piedi dopo l'esperienza con i Drive- By Truckers) o viaggiasse da solo, nei suoi testi ha messo  davanti  fragilità, errori, redenzione, morte, la raggiunta sobrietà e i suoi amori, come cantò  nel superbo Southeastern uscito nel 2013, sicuramente il suo picco cantautorale.  Ai tempi cantava di un amore salvifico, l'incontro decisivo con Amanda Shires, musicista e compagna di band, che diventò sposa e madre della loro figlia di nove anni, la Shires lo prese per mano e lo tirò fuori dall'alcolismo e lo rimise in careggiata. Da allora Isbell non si è più fermato, celebrando la sua carriera con il recente live album Live From The Ryman Vol.2.

Oggi, dodici anni dopo, di quell'amore rimangono queste undici canzoni, le prime scritte dopo il divorzio avvenuto nel 2023.

"Il punto per me è che avevo bisogno di esprimere come mi sentivo in queste canzoni. E a volte non provo metafore. A volte, provo emozioni dirette proprio come tutti gli altri".

Ma se tra le righe di 'Gravelweed', della romanzata 'Eileen' e della dura 'True Believer', la rottura è ben evidenziata ("all your girlfriends say I broke your fucking heart" canta), nelle restanti canzoni ad affiorare con più fervore sembra essere la rinascita, il rinnovato sentimento d'amore per la  nuova compagna, la pittrice Anna Weyant (la copertina dell'album è opera sua) nella splendida 'Foxes In The Snow', in 'Ride To Robert's' (descrizione di una serata al Robert's Western World, bar vecchio stile di Nashville) e nel positivo finale 'Wind Behind The Rain'. Non mancando di rinsaldare il suo  attaccamento alla vita nell'apertura 'Bury Me', una canzone western ("non sono un cowboy / ma so cavalcare" canta), dove affiora il passato da alcolista, qualche accenno politico e sociale guardando indietro alla sua Alabama ('Crimson And Clay'), i consigli di vita che mette in fila in 'Don't Be Tough', l'inesorabile trascorrere del tempo della malinconica 'Open And Close'.

Per registrare il disco sceglie la via che potrebbe sembrare la più semplice ma che non lo è affatto, essendo forse la prova più difficile per un cantautore: tenere alta la soglia per quaranta minuti di canzoni costruite per sola voce e chitarra. Un disco acustico, cantato e suonato, divinamente, in completa solitudine con il solo ausilio di una vecchia chitarra acustica Martin 0-17 del 1940. In giorni in cui il Greenwich Village è tornato prepotentemente di moda grazie al film su Bob Dylan, Isbell si è chiuso per soli cinque giorni dentro agli Electric Studios di New York con la produttrice Gena Johnson e tra superbi e fluidi giochi di finger picking e virtuosismi chitarristici resi ancor più evidenti dal carattere intimistico delle canzoni di matrice  folk, country blues d'altri tempi, e una voce calda che non tradisce le sue origini del Sud, sembra mantenere fede alle parole che David Crosby lasciò su di lui, indicandolo come "il miglior cantautore moderno d'America". Non so se lo è veramente, ma questo disco è una buonissima candidatura che gli apre pure nuove (vecchie e battute) strade per il futuro.






giovedì 6 marzo 2025

RECENSIONE: CHRIS ECKMAN (The Land We Knew The Best)

 

CHRIS ECKMAN  The Land We Knew The Best (Glitterhouse Records, 2025)




luoghi e cuore

Il nuovo album di Chris Eckman è una lenta e riflessiva passeggiata tra i paesaggi naturali della Slovenia, paese dove ha scelto di vivere da alcuni anni. Un dialogo interiore che si nutre di solitaria bellezza tra silenzi, grandi spazi incontaminati e continue meraviglie per gli occhi. Da quando abita da quelle parti, a Lubiana, oltre a tenere in piedi la sua casa discografica Glitterbeat, ha iniziato a camminare in quei luoghi, trovando rifugio, ispirazione e tante risposte. Lo posso capire.

Girata la pagina dei suoi Walkabouts, band di casa a Seattle nata a metà anni ottanta e che divideva con Carla Torgerson, mai  lodata abbastanza, una di quelle band che "potevano essere" ma che alla fine, aprì strade ma trovò la propria sempre impervia, il suo percorso artistico da solista ha iniziato a riempirsi di pagine impressioniste legate a quella profonda America lasciata indietro come un ricordo da spolverare ogni tanto.

Qui invece si addentra totalmente tra montagne, radure e boschi intorno a Lubiana cercando parole che diano un senso alla perdita, al perdono, cercando la forza di ricostruire se stessi dai cocci delle rovine.

Un tutt'uno che accomuna copertina, titolo (preso dal testo della prima canzone "Genevieve. The heart, the land, we knew the best") e foto interne scattate da lui stesso. Nei suoi profili social se ne possono trovare molte.

Dark folk dal passo lascivo, a tratti greve ('Running Hot' con i suoi archi) che riporta a nomi come Nick Cave, Leonard Cohen, Mark Lanegan. Gente che non c'è più o che da anni gira da altre parti.

Dall'iniziale 'Genevieve', elaborazione di una perdita, (Le guerre sono vinte / da coloro che si arrendono / e lasciano sogni morti alle spalle..." canta) fino a giungere alla finale 'Last Train Home' si è avvolti dentro a melodie che ti sbattono in faccia nostalgia e sogno, scavano nelle profondità dell'animo, riportano in superficie pezzi di vita, da dimenticare o solo bisognosi di cure e ricostruzione.

Tutto si adagia su chitarre acustiche, contrabbasso, pianoforte, archi e pedal steel suonate da fidi amici (Alastair McNeill) ma anche da musicisti sloveni, molti di estrazione jazz, con la voce di Eckman spesso doppiata da Jana Beltran.

Un arricchimento notevole se confrontato alle sole voce e chitarra su cui aveva costruito il precedente Wnen Thr Spirit Rests uscito nel 2021.

Un disco che trae forza da una costante omogeneità di fondo anche se non mancano un paio di episodi a briglia sciolta piazzati  a centro disco come 'Buttercup' e 'Laments' dove compaiono in superficie prima influenze alla Giant Sand  di Howe Gelb e poi i Crazy Horse di Neil Young. Una parentesi subito chiusa che porta a 'Haunted Nights' e 'The Cranes', la prima, dolorosa sequenza country  disegnata sulla pedal steel, la seconda, atmosferica e carica di suggestione.

Un album vissuto dalla prima all'ultima parola che riesce nel suo nobile intento di unire musica, paesaggi e interiorità.

"I luoghi creano determinate atmosfere ed esplorare questo aspetto è sempre stato importante per la mia musica". Impresa più che riuscita.





domenica 23 febbraio 2025

RECENSIONE: PENTAGRAM (Lightning In A Bottle)

 

PENTAGRAM  Lightning In A Bottle (Heavy Psych Sounds Records, 2025)




ossi duri

Mentre questa estate in Inghilterra i padri  saluteranno la musica con un mega evento, i Pentagram del sopravvissuto Bobby Liebling festeggiano i cinquantaquattro anni di carriera con il loro decimo disco in studio. I cugini americani dei Black Sabbath (from Virginia dal 1971), pur con la pesante assenza della chitarra di Victor Griffin, non intendono abbandonare la scena, anzi, firmando per la nostrana etichetta Heavy Psych Sounds Records sembrano voler garantirsi anche un nuovo futuro. Liebling, 71anni, occhi spiritati e una vita riacciuffata diverse volte (eroina, alcol, centri di riabilitazione, carcere, non si è fatto mancare nulla) continua a mettere in musica le sue (dis)avventure e il lato più oscuro del suo cervello. Non certo una condotta di vita da prendere ad esempio.

 Un disco che abbandona parzialmente il primordiale doom (parola odiata dal buon Liebling, che ha sempre preferito usare un semplice "hard rock pesante"), che però  fa ancora la voce grossa e lenta  come nella finale 'Walk The Sociopath' o in  'I Spoke To Death' e 'Lightning In A Bottle' preferendo però un approccio carico di groove: lo stoner con parentesi psichedeliche ('Live Again', 'In The Panic Room'), il blues dei sevienties di 'Spread Your Wings', quello più possente e moderno alla Clutch di 'Thundercrest'.

 Anche se poi a colpire è l'autobiografica caduta negli inferi dell'eroina raccontata da Liebling nel  lento, acido e lisergico viaggio di 'Lady Heroin' ("Sono caduto nel tuo gioco. Ho incolpato me stesso. Guarda cosa mi hai fatto passare "). Una confessione, un'ammissione di colpa. Un pentimento arrivato fuori tempo massimo?

Forse non il loro miglior disco ma certamente un segno di vita dopo dieci anni di assenza discografica e innumerevoli cambi di formazione che oggi insieme al despota Liebling vede Tony Reed alla chitarra, Scooter Haslip al basso e Henry Vasquez alla batteria. Un monumento vivente per certa musica pesante e faro non ancora spento per molte band arrivate dopo. Cult band dal libro ancora aperto.





sabato 8 febbraio 2025

RECENSIONE: JOE ELY (Love And Freedom)

 

JOE ELY  Love And Freedom (2025)





la voce del Texas

Il 30 Gennaio, Sharon, la moglie di Joe Ely, attraverso i social ha reso pubbliche le critiche condizioni di salute del marito: ad Agosto dopo essere uscito da una brutta polmonite, è stato colpito da un ictus che ha richiesto un urgente consulto medico e altri ancora in futuro ne necessiteranno. Durante la degenza però, Joe Ely con la moglie non hanno smesso di frugare tra i numerosi archivi musicali dei suoi Spur Studios ad Austin, estraendo queste tredici canzoni, nove originali e quattro cover, che in qualche modo, con tematiche comuni, sembrano dipingere bene questi tempi: "un promemoria dei tempi in cui viviamo adesso" dice Ely. Tematiche che Ely ha sempre toccato nelle sue canzoni, rendendolo uno dei migliori songwriter americani impressionisti in vita: l'immigrazione, la deportazione, la povertà, la giustizia, le guerre, i confini. Gli ultimi.

E bisogna dire  che ne è uscito un disco di carattere, coeso nelle tematiche, vario musicalmente, chiamato Love And Freedom che nel titolo sembra pure riportare al fortunato Love And Danger del 1992.

Dal lockdown in avanti, Ely non è nuovo nel mettere in piedi album con vecchie registrazioni dai misssggi approssimativi lasciate nei cassetti, partì con Love In the Midst Of Mayhem (2020), proseguì con i ricordi d'infanzia di Flatland Lullaby, l'ultimo Driven To Driven uscì solo pochi mesi fa. Un modo per attenuare l'assenza forzata dai palchi. Per mettere la quadra a queste nuove tredici canzoni sono stati chiamati i fidi Lloyd Maines e l'ingegnere Pat Manske, David Grissom ha aggiunto la sua chitarra mentre la fisarmonica di Joel Guzman era già presente nelle registrazioni originali dove la maggioranza degli strumenti furono  suonati dallo stesso Ely. Se nel precedente a farsi notare fu la presenza di Bruce Springsteen (nella traccia 'Odds Of The Blues'), qui spicca Ryan Bingham, uno dei suoi figli artistici, che duetta nel classico di Woody Guthrie, 'Deportee (Plane Wreck At Los Gatos)'. Le altre cover sono 'Magdalene' di Guy Clark e 'Waiting Around To Die' e 'For the Sake Of The Song' di Townes Van Zandt.

 Il taglio rock dell'apertura 'Shake'Em Up', i confini messicani cantati nella border song dai sapori  tex mex di 'Adios Sweet Dreams', il talkin 'Sgt. Baylock' con la bella slide dietro (pare sia un agente di polizia che  "mi buttava in prigione ogni volta che mi vedeva"), il country folk di 'Band Of Angels', il pianoforte che accompagna 'Here's ToThe Brave', il blues di 'What Kind Of War', una 'No One Wins' nata dopo l'undici Settembre si susseguono ricordandoci la grandezza compositiva di Joe Ely.        Anche se costruito con canzoni raccolte dall'archivio, questi tempi hanno dannatamente bisogno di dischi come questo. Canzoni che dicano le cose come stanno. Dischi che non fa più nessuno. È un disco politico? Sì lo è! Una voce fuori dal coro. L' unità in tempi divisivi.

Domani, 9 Febbraio, Joe Ely compirà 78 anni, miglior regalo non poteva farci. Forza Joe.




domenica 2 febbraio 2025

RECENSIONE: HELLACOPTERS (Overdriver)

THE HELLACOPTERS  Overdriver (Nuclear Blast, 2025)




cambiare per restare

Con la consapevolezza di aver scritto una pagina importante per lo scandinavian rock degli anni novanta, gli Hellacopters di ritorno, la reunion è datata 2016 e Eyes Of  Oblivion è stato il bel disco documento dell'avvenimento, hanno voltato pagina pur restando loro stessi. Lo avevano comunque già fatto in tempi non sospetti con High Visibility del 2000.

"Prendiamola un giorno alla volta e non facciamo un piano quinquennale o cose del genere" dichiarò Nicke Andersson, un bulimico del rock'n'roll, nel momento del ritorno.

Se sporie di vecchio garage rock sono ancora presenti in tracce veloci e dirette che recuperano la grinta della gioventù come 'Wrong Face On' e 'Faraway Looks', la band di Nicke Andersson pare ora divertirsi un mondo pescando tra le ricche pagine di settant'anni di rock'n'roll. La doppietta d'apertura formata da 'Token Apologies' e 'Don't Let Me Bring You Down' valga come buon biglietto da visita.

Forse pesa la mancanza del rientrante Dregen messo momentaneamente fuori gioco da un serio infortunio alla mano, ma gli Hellacopters targati 2025 sono un gruppo che sa sopperire all'esuberanza della gioventù con la classe di chi è cresciuto con le basi musicali giuste, altrimenti non si spiegherebbero numeri come il power pop sporcato soul di '(I Don't Wanna Be) Just A Memory', il blues con il pianoforte rimbalzante di 'The Stench' o una canzone come 'Do You Feel Normal' dove anthem appiccicosi alla Kiss sembrano accoppiarsi con lo Springsteen devoto al rock'n'roll del periodo The River. O una canzone come 'Soldier On' che difficilmente sarebbe uscita in dischi come gli epocali SupershittyTo The Max, Payin The Dues o Grande Rock. La macchina è la stessa, trent'anni di chilometri macinati hanno il loro peso ma non è detto che siano sempre negativi. Cambiano le prospettive, prima ti aspettavi la prestazione, ora ami le sfumature e l'abbraccio di chi ancora non ti tradisce.

A conclusione una 'Leave A Mark' a mischiare ancora una volta le carte, toccando  territori Thin Lizzy e dimostrando di saper anche superare i canonici tre minuti spingendosi oltre i cinque in quella che è la canzone più lunga di un disco ancora imperdibile per chi ama il rock’n’roll, i seventies, la buona musica, forse solo più educata ma ugualmente ispirata.






mercoledì 29 gennaio 2025

RECENSIONE: ANGELA BARALDI (3021)

 

ANGELA BARALDI  3021 (Caravan/Sony, 2025)






la donna del futuro

Forse è arrivato il momento. Angela Baraldi con questo album così intimo, avvolgente e dai tratti malinconici, proiettato al futuro ma dannatamente con i piedi sulla terra, con sprazzi di pazzia in mezzo, si gioca una carta importante, anche se credo a lei importi assai poco: 3021 è un disco così poco mainstream che per strane dinamiche, ne sono certo, riuscirà ugualmente a fare breccia anche su chi conosce ancora poco la cantautrice bolognese, il cui debutto risale al 1990 con l'album Viva. 

Io mi innamorai di lei dopo aver visto il video della super funky  'Mi Vuoi Bene O No?' uscito nel 1993. Un video semplice ma dirompente nella sua sensualità con il suo viso sempre in primo piano. A volte basta poco.

Le otto tracce, brevi ed essenziali di 3021 hanno un grosso potere: contengono una micidiale ipnoticità in grado di conquistare, una forza intrinseca in grado di far tendere le orecchie verso le casse per carpirne le parole.

Arrangiamenti minimali per scelta, strumentazione rock essenziale, testi nati dopo la parentesi pandemica (le canzoni sono scritte in parte con il suo chitarrista Federico Fantuz), l'esperienza come attrice, le antiche amicizie (Lucio Dalla su tutti, Francesco De Gregori che pare l'abbia spronata per far uscire il disco, pure per la sua etichetta Caravan), le parentesi musicali che l'hanno coinvolta durante la sua carriera, su tutte quelle con gli ex CSI Massimo Zamboni, Gianni Maroccolo e Giorgio Canali, convergono in queste otto canzoni, che sanno di antico, di vecchi dischi dove il superfluo  era assente. C'erano solo le canzoni: quattro per lato e via, meno di venticinque minuti che ti rimanevano tutti in testa e si ricominciava da capo perché le canzoni erano belle e tutte da scoprire ascolto dopo ascolto. Era il passato ma qui anche il presente e un po' il futuro.

Il disco parte da lontano, immaginando quel che resterà di noi tra mille anni: "ho scelto come titolo il 3021 come un salto temporale difficile da immaginare, molti mi dicono che non ci saremo più, ma io penso che ci sarà ancora la razza umana e che continuerà ancora a innamorarsi" spiega. Ed è difficile non immarorasi di questa traccia, di quella slide cosmica e del suo testo quasi cinematografico che mette da parte ricordi. Uno per uno, condivisibili per tutti o quasi.

"Parlo di te senza fare il tuo nome" canta in 'Cosmonauti', traccia dall'incedere rock che cita Lucio Dalla fino a quel "a modo mio" finale che non lascia più dubbi. Grande spazio alle ballate come 

'Bellezza Dov'è', che avanza sorniona alla Neil Young con De Gregori a fare ombra, l'umanità, le vicinanze e le distanze in 'La Vestizione' e 'Cuore Elettrico', ma non mancano antichi graffi rock come 'La Preghiera Della Sera', una tesa e vibrante 'Corvi' che combatte l'esclusione e l'inadeguatezza ("solo di spalle puoi tagliarti la pelle"), una finale

'Saturno' che si impossessa del demone glam, orbitante tra l'infinito spazio e un sax a disegnare traiettorie sbilenche tra le stelle. Siamo dalle parti di Bowie e la foto di copertina lo ricorda pure.

Un disco che la conferma come una mosca bianca all'interno del cantautorato rock femminile made in Italy. Le canzoni di 3021 rispecchiano la sua grande personalità che però non ha mai avuto bisogno di scendere a patti con nulla e nessuno per venire a galla. Nel video che accompagna il singolo '3021' c'è il suo volto in primo piano come in quel video del 1993, questa volta rotea come un pianeta. Un cerchio che si chiude? Assolutamente no. Quanto manca al 3021?





domenica 26 gennaio 2025

RECENSIONE: ENRICO RUGGERI (La Caverna Di Platone)

ENRICO RUGGERI - La Caverna Di Platone (Sony Music, 2024)




la caverna del musicista

Enrico Ruggeri con questo album ci fa capire quanto la vecchia guardia cantautorale italiana quando ci si mette sappia fare ancora la voce grossa nel panorama un po' asfittico della musica italiana odierna . Il problema sembra che predichi un po' nel deserto: Fossati si è chiamato fuori,  De Gregori celebra solo più il passato in tour... Quasi facile uscirne vincitore con almeno un poker, forse più, di canzoni di altissimo livello: 'Gli Eroi Del Cinema Muto',  'Il Poeta', 'Zona Di Guerra', 'La Bambina di Gorla', 'Il Problema', 'La Caverna di Platone', 'Le Notti Di Pioggia'. Un disco a suo modo politico (l'attacco a un Europa che doveva essere ma non è in 'Das Istmir Wurst' sembra chiaro), che se ne fotte un po' di tutto, viaggiando libero tra realtà, passato, poesia e l'oggi, cose che hanno sempre contraddistinto il suo cammino artistico. Prendendo pure posizioni scomode, a volte criticate ma seguendo sempre il libero pensiero, quello che canta nel 'Il Poeta': "il libero pensiero ha un prezzo da pagare". 

C'è molto bisogno di qualcuno che sappia mettere in fila le parole, dosandole, senza shakerarle a cazzo. Un disco suonato (c'è l'antico chansonnier, il rock, l'elettronica, il pop) e chi ha visto ultimamente dal vivo Enrico Ruggeri sa quanto sia ancora importante per lui l'impatto live degli strumenti. Nelle note di copertina, tra l'altro bella come tutto il packaging (contano anche queste cose oggi in epoca di streaming selvaggio), ci tiene a precisare, con un filo di ironia, che non è stato utilizzato l'autotune (e recentemente non le ha mandate a dire a chi di dovere). Far suonare una band è basilare.

È un po' il personaggio del momento Ruggeri: in TV sta portando cose di peso nella sua trasmissione Gli Occhi Del Musicista, è rispettato dai musicisti ospiti, lui rispetta la buona musica spesso invisibile in palinsesti sbilanciati  sui talent e ora questo album che a pochi giorni dalla beffarda scomparsa di Paolo Benvegnù sembra oro che luccica per chi cerca ancora emozioni da quell'antico mestiere di saper metter giù storie musicandole. E 'La Bambina di Gorla' dedicata ai 184 bambini uccisi nella strage della scuola elementare di Milano nel 1944 valga per tutte. Un bel disco che serve da matti a quest'epoca tarata, un po' in tutti i campi,  verso il basso.





venerdì 10 gennaio 2025

RECENSIONE: RINGO STARR (Look Up)

RINGO STARR  Look Up (Lost Highway, 2025)




e poi arriva Ringo Starr che inizia il 2025 nel migliore dei modi possibili. Che bel disco!

Guardando Ringo Starr è veramente difficile credere alla data di nascita riportata sulla sua carta d'identità: chi non vorrebbe arrivare a 84 anni in quella forma (ricordando sempre la tubercolosi che superò da bambino), vestito così e con quell'umore che lo ha sempre contraddistinto fin dalla prima volta che Pete Best gli lasciò le bacchette per diventare il batterista del più leggendario gruppo rock'n'roll di sempre. Oggi è uscito questo Look Up che rinnova il mai negato amore di Ringo per la country music, dai tempi di Rory Storm and the  Hurricanes, passando da  'Act Naturally' di Buck Owens a  'Don't Pass Me By' presente nel White Album, con il culmine toccato con il suo album del 1970, Beaucoups Of Blues, registrato a Nashville e proseguito a fasi alterne durante tutta la carriera ma mai così dichiarato come ora.

"Prima del rock ascoltavo country e blues, tanto che volevo emigrare in Texas per vivere vicino al mio preferito che era Lightnin’ Hopkins. Quello che i fan hanno vissuto per i Beatles, io l’ho provato per lui».

Look Up è  un disco piacevolissimo scritto quasi interamente con il produttore e amico di vecchia data T-Bone Burnett. Doveva essere un Ep, Burnett l'ha fatto diventare un signor disco e ci ha messo i suoi fidi musicisti: "stavo realizzando degli EP e quindi pensavo che avremmo fatto un EP country, ma quando mi ha portato nove canzoni sapevo che dovevamo fare un album! E sono così contento di averlo fatto" ha dichiarato Ringo.

Suonato e cantato insieme a tanti ospiti come Alison Krauss, nella chiusura quasi commovente 'Thankful', commiato agreste da "peace and love" tra un campo di pedal steel. Tanti i giovani come il chitarrista trentenne Billy Strings nei rockabilly 'Breathless' che apre il disco e 'Never Let Me Go' e nella più elettrica dagli accenti southern 'Rosetta' insieme alle Larkin Poe.  

C'è la cantautrice Molly Tuttle nel rock più moderno della title track, nella folkie 'I Live For Your Love', nel country alla Johnny Cash/June Carter di 'Can You Her Me Call' e in  'Strings Theory' ancora con le Larkin Poe ospiti, infine i Lucius nel country dall'aria pionieristica 'Come Back'. 

Ringo Starr si canta da solo, in modo magnifico, due numeri sopraffini come la stupenda 'Time On My Hands' adagiata su un tappeto di archi e pedal steel con la presenza di David Mansfield e 'You Want Some', scritta da Billy Swan, dove l'ascolto diventa difficile senza  immaginarla suonata insieme ai suoi vecchi compagni Paul, John e George. Country meets Beatles all'ennesima potenza.

Dimenticavo: Ringo suona la batteria su tutti i brani e contribuisce a lasciare sulle undici canzoni una ampia pennellata di ottimismo sopra a questi tempi moderni dai toni neri e cupi. Uno dei suoi dischi più belli di sempre che rompe anche l'abusato cliché che vuole i grandi del rock (perché lo è) a dare il meglio di loro stessi solo in giovane età. Ascoltate qui. L' ennesima rivincita di Ringo.