STRAY CATS 40 (SurfDog, 2019)
i loro primi 40 anni
I gattacci randagi sono tornati. Graffiano, miagolano, amoreggiano, si aggirano baldanzosi e sereni in mezzo ai cerchioni cromati della pink Cadillac parcheggiata in fondo la via, segnano il loro territorio tra la luce fioca di un lampione storto, un bidone dell'immondizia abbandonato in strada da qualche giorno e un tombino semiaperto. Suonano i loro tre strumenti e sono pronti per ripartire live (Italia esclusa): uno con la fiamm...eggiante chitarra Gretsch, uno salta davanti a piatti e rullante, l'altro sale a cavalcioni sopra al contrabbasso.
Potrebbero sembrare gli anni 50 o il 1981, poco importa, l'importante è divertirsi, far divertire, e festeggiare i 40 anni di carriera con un disco che mancava al loro jukebox personale da ben 26 anni. Qualche ruga in più contorna il loro viso ma le chitarre, le basette, la brillantina nei capelli e la Chevrolet parcheggiata sono le stesse di sempre.
Brian Setzer, Lee Rocker e Slim Jim Phantom sono in buona forma e legano insieme tutte le loro vecchie influenze (ecco: Gene Vincent, Bill Haley e The Comets, Chuck Berry, Link Wray, Eddie Cochran, Carl Perkins, Buddy Holly, Elvis e Dick Dale) in 12 canzoni originali che viaggiano forse meno veloci dei bei tempi dell' esilio a Londra, ma senza intoppi o brusche frenate, prevedibili ma divertenti da cima a fondo, tra rock'n'roll e rockabilly ('Cat Fight (Over a Dog Like Me)', 'Rock It Off', 'That' s Messed Up'), fresche e salate ondate di surf rock ('I Attack Trouble'), swing ('Three Time' s A Charm'), citazioni (in 'Cry Danger', scritta insieme a Mike Campbell, chitarra degli Heartbreakers di Tom Petty, compaiono i Beatles), country and roll (' Mean Pickin'Mama'), strumentali da spaghetti western ('Desperado' cita invece gli Shadows e la loro intramontabile 'Apache') e arcigne cavalcate psycho billy ('Devil Man').
Sembra che tutto sia uscito fuori in modo naturale negli studi di registrazione Blackbird a Nashville, suonando live, insieme, con i volumi tarati al massimo. La loro musica cura anche il più banale dei raffreddori, dicono, e si impossesserà delle vostre serate estive mentre seduti sullo sgabello e con i gomiti sul bancone del chiosco sulla spiaggia ordinerete l'ennesimo drink, vi aggiusterete il ciuffo che non avete più, loro sì, e alzerete il bicchiere su cui è rimasto appiccicato il sottobicchiere che troverete, insieme a cartoline, adesivi e due canzoni live in più ('Cry Baby', 'Double Talkin' Baby'), nella Deluxe edition inscatolata.
Buoni (primi) 40.
martedì 28 maggio 2019
domenica 26 maggio 2019
RECENSIONE: SHOTGUN SAWYER (Bury The Hatchet)
SHOTGUN SAWYER Bury The Hatchet (Ripple Music, 2019)
la corsa all'oro...
“Registrato dal vivo e utilizzando solo tecnologie analogiche, il risultato è la presentazione più onesta possibile della nostra band ". Così il batterista David Lee che insieme a Brett "The Butcher" Sanders al basso e Dylan Jarman alla voce / chitarra solista, formano i SHOTGUN SAWYER presenta Bury The Hatchet, il secondo album della band californiana. Un concentrato micidiale di stoner rock (il riff iniziale di ‘Ain’t Tryin To Go Down Slow’ è un'apertura killer che può far venire in mente i primi Queens Of The Stone Age, in ‘Hombre’ giocano ad appesantire i ZZ Top, in ‘Shallow Grave’ suonano lenti e crudi in odor di Sabbath ), blues ipervitaminico, ora acustico e giocoso (‘Blackwood Bear’), ora più selvaggio e diretto (‘You Got To Run’) poi meditativo e psichedelico (‘When The Sun Breaks’). Cresciuti ad Auburn (California), l’amore per i Led Zeppelin e Jimi Hendrix è stato il primo collante, ma da lì a sbirciare indietro l'indice del blues nero il passo è stato breve e determinante per arricchire il loro sound.
Ai Shotgun Sawyer non piace comunque giocare facile o fare l'occhiolino all’ascoltatore distratto e lo dimostrano in tracce di psycho hard come ‘Son Of The Morning’ carica di stranianti chitarre fuzz e aperta alla libertà jam, ricordando anche l'approccio dei loro contemporanei All Them Witches, e nella cangiante ‘(Let Me) Take You Home’ dove I Black Sabbath invitano all’orgia i Led Zeppelin e i vecchi nonni del blues nero.
Suonano sporchi, non sono bellissimi, la voce è spesso sgraziata e non cerca di imitare nessuno, si presentano vestiti come giovani boscaioli, nipoti di quei vecchi cercatori d’oro che setacciarono la loro Auburn nel 1849 in cerca di pagliuzze di valore. Ecco una bella risposta, convincente e ruspante, o alternativa, al successo un tanto costruito di gruppi come i Greta Van Fleet. Qui si gioca un altro campionato e nessuno scende in campo per loro per dare qualche aiutino.
la corsa all'oro...
“Registrato dal vivo e utilizzando solo tecnologie analogiche, il risultato è la presentazione più onesta possibile della nostra band ". Così il batterista David Lee che insieme a Brett "The Butcher" Sanders al basso e Dylan Jarman alla voce / chitarra solista, formano i SHOTGUN SAWYER presenta Bury The Hatchet, il secondo album della band californiana. Un concentrato micidiale di stoner rock (il riff iniziale di ‘Ain’t Tryin To Go Down Slow’ è un'apertura killer che può far venire in mente i primi Queens Of The Stone Age, in ‘Hombre’ giocano ad appesantire i ZZ Top, in ‘Shallow Grave’ suonano lenti e crudi in odor di Sabbath ), blues ipervitaminico, ora acustico e giocoso (‘Blackwood Bear’), ora più selvaggio e diretto (‘You Got To Run’) poi meditativo e psichedelico (‘When The Sun Breaks’). Cresciuti ad Auburn (California), l’amore per i Led Zeppelin e Jimi Hendrix è stato il primo collante, ma da lì a sbirciare indietro l'indice del blues nero il passo è stato breve e determinante per arricchire il loro sound.
Ai Shotgun Sawyer non piace comunque giocare facile o fare l'occhiolino all’ascoltatore distratto e lo dimostrano in tracce di psycho hard come ‘Son Of The Morning’ carica di stranianti chitarre fuzz e aperta alla libertà jam, ricordando anche l'approccio dei loro contemporanei All Them Witches, e nella cangiante ‘(Let Me) Take You Home’ dove I Black Sabbath invitano all’orgia i Led Zeppelin e i vecchi nonni del blues nero.
Suonano sporchi, non sono bellissimi, la voce è spesso sgraziata e non cerca di imitare nessuno, si presentano vestiti come giovani boscaioli, nipoti di quei vecchi cercatori d’oro che setacciarono la loro Auburn nel 1849 in cerca di pagliuzze di valore. Ecco una bella risposta, convincente e ruspante, o alternativa, al successo un tanto costruito di gruppi come i Greta Van Fleet. Qui si gioca un altro campionato e nessuno scende in campo per loro per dare qualche aiutino.
mercoledì 22 maggio 2019
RECENSIONE: SUPERDOWNHOME (Get My Demons Straight)
SUPERDOWNHOME Get My Demons Straight (Slang Music/Warner Italia, 2019)
il grande salto
Ci sono dei momenti cruciali in cui capisci che la band che hai davanti ha superato la soglia che nella tua testa hai denominato di "nicchia" e si sta proiettando verso qualcosa di indefinito ma comunque abbastanza grande. Uno di quei momenti l’ho vissuto di persona lo scorso autunno quando i Superdownhome dopo un set fiammeggiante in apertura a Fantastic Negrito a Milano, uscirono di scena sotto un trionfo di applausi del pubblico, per la maggioranza ancora con le orecchie vergini dai suoni del duo bresciano. E si sa quanto sia difficile catturare l'attenzione di un pubblico che è lì davanti impaziente di ascoltare la superstar che salirà sul palco dopo, magari distratto e attirato più dal bancone del bar e dalle chiacchiere disturbanti che dal suono che esce dalle casse. Fu un successo di attenzioni e applausi come poche volte ho assistito per una band in apertura. Ma io non avevo dubbi, aspettavo solo la conferma.
Eh sì, di passi ne hanno fatti parecchi in questi due ultimi anni, tanto che quegli inizi, quando la band era ancora un trio, sembrano ricordi sbiaditi e lontanissimi ma comunque importanti per capire quale strada avrebbero imboccato in futuro. Da gruppo qualunque di cover blues a band con personalità e carattere. Riconoscibili: il drumming potente e preciso di Beppe Facchetti, le chitarre, spesso casalinghe e con poche corde (Diddley bow, cigarbox resonator) di Enrico Sauda, il loro look, i loro caratteri così diversi fuori dal palco che diventano complementari con gli strumenti in mano e il pubblico di fronte. I loro potenti set live, minimali e caricati a groove.
Get My Demons Straight rappresenta bene quel futuro, ora presente, raggiunto dopo un Ep d'esordio e il primo disco Twenty-four Days uscito a fine 2017, tanti chilometri macinati lungo la strada (‘Highway Music’ è la colonna sonora ideale), tanti locali, piccoli e grandi, tante star incrociate sul cammino (Eric Sardinas, Popa Chubby, Larkin Poe, Robben Ford, Supersonic Blues Machine) e bicchieri vuoti abbandonati sul bancone diventati a loro volta esperienze da lasciare impresse su canzoni, come anticipato dal primo singolo ‘Booze Is My Self-Control Device’, presentato da un video a cartoni animati, ideato dall'artista bresciano Biro.
"L’alcool è il modo che ho di autocontrollarmi dice il ritornello, un modo di esorcizzare demoni, di rendere alcune realtà più sopportabili, di rilassare le tensioni. Insomma: un’ennesima scusa per poter uscire a far libagioni…" raccontano.
Un disco a suo modo ambizioso (“ci abbiamo messo dentro tutto quello che si poteva” mi disse Beppe Facchetti), registrato con professionalità ai Bluefemme Studio del fedele compagno di mille avventure Marco Franzoni con la supervisione di Ted Horowitz, il bluesman newyorchese che tutti conosciamo come Popa Chubby, ormai anche lui amico di fiducia già presente nel precedente disco, e che vede la straordinaria partecipazione dell'armonica di una leggenda vivente del blues come Charlie Musselwhite, oltre a quella dell'amico Max Maccarinelli.
Se già avete dimestichezza con la loro idea di rural blues (un mix ipervitaminico che sa shakarare insieme il vecchio blues, il garage rock, il country con i Black Keys, gli ZZ Top, Seasick Steve e Scott H. Biram)
potete andare tranquilli e fiduciosi (‘Stop Bustin’ My Bones’, ‘Get My Demons Straight’), pure sicuri di incappare in quel passo indietro verso la classicità blues ben rappresentato da tracce come ‘I’m Your Hoochie Coochie Man’, dal boogie di ‘Razor Action Blues’, e da quella ‘Taverner's Boogie’ con l’armonica ospite di Musselwhite che sembra racchiudere bene in una sola canzone tutto il loro universo musicale.
L'augurio è quello che possiate incontrarli in qualche data live, il loro terreno di gioco preferito. Questa volta però andate preparati se apriranno per qualche nome internazionale. Godrete il doppio. Aspettate a farvi la birra, ve la farete dopo alla loro salute...e bravura.
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