martedì 30 maggio 2017

RECENSIONE: RODNEY CROWELL (Close Ties)

RODNEY CROWELL  Close Ties (New West, 2017)






Chissà, forse non è proprio un caso che per il compleanno alcuni cari amici mi abbiano regalato il nuovo disco di Rodney Crowell. Un regalo apprezzato, perché CLOSE TIES è disco autobiografico, sincero, senza filtri. Proprio come dovrebbero essere gli amici. Un disco ricco di vita come pochi. Proprio come quella costruita con gli amici più fedeli, anno dopo anno. Legami stretti, appunto. Il cantautore texano ha attraversato gli ultimi quarant’anni di musica americana da gran protagonista, nonostante il suo nome non abbia mai bucato il vero mainstream a livello mondiale, soprattutto alle nostri latitudini. Non così in patria: a partire da DIAMOND & DUST del 1988, che fu un successo clamoroso, la sua fama, unita alla stima dei musicisti, è cresciuta in continuazione. Qui riscrive un nuovo capitolo della sua carriera guardando a 360 gradi indietro, avanti e nel presente della sua esistenza. Amori, vittorie, sconfitte, confessioni, debolezze, morte, luoghi, presagi futuri, amicizie musicali e private. Non manca nulla. Partecipano pure la ex moglie Susanna Cash e John Paul White in ‘It Ain’t Over Yet’, canzone scritta inizialmente per Guy Clark (“Stavo scrivendo questa canzone mentre gli facevo visita regolarmente durante gli ultimi mesi di vita.”), e Sheryl Crowe in ‘I’m Tied To Ya’. Anche musicalmente c'è tutto il meglio del repertorio: dalla dolente ballata folk country della finale ‘Nashville 1972’ che dice tutto nel titolo e racconta il primo incontro con la mecca del country con tanto di illustri protagonisti, che diventeranno poi colleghi (Guy Clark, Townes Van Zandt,Steve Earle) al rock bello tirato di ‘Storm Warning’. Dai momenti più lontani e privati riconducibili all’adolescenza, ben raccontati nell’apertura ‘East Houston Blues’, alle storie d’amore finite (‘Forgive Me Annabelle’), fino alle confessioni che sanno quasi di tardiva dichiarazione: ‘Life Without Susanna’ è dedicata a Susanna Clark, compagna di Guy Clark, una delle prime persone a credere nelle capacità artistiche di Crowell. Tra gli autori più ricercati, una delle ultime grandi penne della tradizione musicale americana. Nelle sue mani tutto può ancora diventare prezioso.


RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY-Prodigal Son (2017)

venerdì 26 maggio 2017

RECENSIONE: CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD (Betty's Blends: Volume 3: Self-Rising, Southern Blends)

CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD - BETTY'S BLENDS: 'Volume 3: Self-Rising, Southern Blends.' (2017)






Per una band che ha preso forma nel 2011 sopra i palchi, questo disco è pura routine. Il giusto palcoscenico per la vera natura della band (i 14 minuti di ‘Ride’ il loro passaporto). Libertà di movimento in un flusso continuo e cangiante di ispirazione (forse non sempre al top, con la voce di Robinson non più ai massimo come ai vecchi tempi, ma da accontentarsi) che trova terreno fertile tra il blues, la psichedelia, il southern rock, il soul, là da qualche parte in mezzo alle strade che dai campi assolati della Florida arrivano alle vie trafficate della San Francisco in acido. Pura gioia di suonare, non mi viene in mente altra frase. Questa è la terza uscita della serie live denominata BETTY’S BLENDS, dischi che si vanno ad aggiungere ai cinque di studio già usciti. Tredici canzoni registrate nel 2015 in tre diverse date del tour nel Sud degli states, ad Atlanta in Georgia, Raleigh in North Carolina e Charleston in South Carolina, con l'aiuto della storica  Betty Cantor Jackson, archivista e fonico dei Grateful Dead. Un tour che toccò anche l’Italia. Accanto alle canzoni di Chris Robinson e soci (l’inconfondibile chitarra di Neal Casal, le tastiere sempre più presenti di Adam MacDougall , la batteria dell’ultimo entrato Tony Leone) troviamo alcune cover, vero punto d’interesse di queste uscite: ‘Get Out Of My Life Woman’ di Allen Toussaint, ‘ The Music’s Hot’ (Slim Harpo), ‘I’m A Hog For You’ (Leiber/Stoller), per concludere con i sette minuti di ‘She Belongs To Me’ di Dylan. Nessun calcolo e tanto cuore, da Chris Robinson e la sua congrega. Come sempre.


RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY-Prodigal Son (2017)

martedì 23 maggio 2017

RECENSIONE: ELLIOTT MURPHY (Prodigal Son)

ELLIOTT MURPHY  Prodigal Son (Route 61, 2017)




Da quando qualche anno fa lessi una recensione di un suo disco dove il giornalista scriveva di lui al passato, confondendolo evidentemente con qualche altro Elliott passato a miglior vita (Smith?), ad ogni nuova uscita di Elliott (Murphy), dentro di me una vocina dice “ah però, non male per uno che non c'è più”.Dopo aver rivisitato l’esordio AQUASHOW (uscito nel 1973), Elliott Murphy ritorna con un bel disco di nuove canzoni, intenso e ispirato, registrato a Parigi sotto la regia del figlio Gaspard (“l’album si intitola Prodigal Son ispirandosi alla storia nella Bibbia, anche se un sacco di gente pensa che sia dedicato al mio talentuoso figlio Gaspard Murphy che ha prodotto, arrangiato e mixato l'album”) e con i fedeli Normandy All Star ad accompagnarlo: Alan Fatras (batteria), l’inseparabile Olivier Durand alla chitarra e Laurent Pardo (basso), scomparso poco dopo le registrazioni. Il disco, che esce per l’etichetta Route 61 di Ermanno Labianca a quattro anni dall’ultimo IT TAKES A WORRIED MAN, è dedicato proprio al bassista. Nove canzoni tra cui le suggestioni rock dell’apertura ‘Chelsea Boots’, già in odor di classico nel suo repertorio e la lunga, cinematografica ‘Absalom, Davy & Jackie O’ che con i suoi undici minuti chiude il disco e diventa la sua canzone più lunga di sempre, “Ho provato a scrivere una canzone che si può ascoltare come si potrebbe guardare un film”. In mezzo il rutilante folkie ‘Alone In My Chair’, e un filo conduttore che si potrebbe individuare in uno spirito gospel soul che aleggia in parecchie canzoni tra cui la title track ‘The Prodigal Son’ con il pianoforte di Leo Cotton in cattedra, in ‘Let Me In’, nel crescendo di ‘Wit’s End’ con il violino di Melissa Cox. Elliott Murphy sembra non aver perso quella preziosa penna che ne faceva uno dei migliori e più coerenti songwriter della sua generazione (non per nulla è pure scrittore) che dopo aver camminato nei marciapiedi del Village, vissuto la New York glam degli anni '70, arrivò in Europa nel 1989 (nei settanta visse anche a Roma), e da qui non se n'è più andato. Lontano dai grandi circuiti che contano ma sempre più vicino ai cuori e all'anima. Quello che conta davvero, in fondo. Lunga vita a Elliott Murphy.


RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)

giovedì 18 maggio 2017

RECENSIONE: WILLIE NELSON (God's Problem Child)


WILLIE NELSON   God's Problem Child (Legacy/Sony, 2017)






84 anni compiuti lo scorso 29 Aprile per WILLIE NELSON. Ancora auguri! In concomitanza è uscito il nuovo GOD’S PROBLEM CHILD. Un disco dove il vecchio Willie fa volutamente veleggiare lo spettro della morte sopra alle sue canzoni. A volte ad alta quota, altre sfiorando quasi l’impatto. Presentato da una copertina che lo mostra assorto e pensieroso, e in mezzo ad alcuni episodi che mettono in risalto una visione romantica, mai sopita, ma ancora scalpitante della vita (la bellissima ‘True Love’, ‘A Woman’ s Love’), "credo non ci si possa occupare troppo del passato e degli errori fatti" disse in una recente intervista, tra le pieghe di qualche decisa e feroce opinione sulla politica odierna (‘Delete And Fast Forward’), tra un testo che sa di confessione al Signore ('I Made A Mistake'), fa però calare un pesante velo di malinconia. Ricordando i tempi andati (la ballata pianistica ‘Old Timer’) e vecchi amici della sua generazione che da pochissimo non ci sono più (‘Lady Luck’): da Merle Haggard (‘He Won’t Ever Be Gone’) con il quale incise l’ultimo album DJANGO & JIMMIE nel 2015 , a Leon Russell che proprio nella title track, un blues notturno scritto e suonato con Jamey Johnson e Tony Joe White, ha lasciato le sue ultime tracce in uno studio di registrazione.
Ma poi esce allo scoperto lo spirito ironico e sbeffeggiante a stemperare tutto: nell'honk tonk ‘Still Not Dead’ canta “Well I woke up still not dead again today. The internet said I had passed away. But if I died, I wasn’t dead to stay”. Mettendo a tacere, una volta per tutte, le reiterate bufale sulla sua morte presenti in rete. Difficile fermare le leggende. Già: mentre esce questo, lui è già al lavoro con i figli Lukas e Micah, proprio quelli che hanno accompagnato l'amico Neil Young ultimamente. Ne vedremo ancora della belle.







RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)



sabato 13 maggio 2017

RECENSIONE: CHRIS STAPLETON (From A Room, Volume I)

CHRIS STAPLETON    From A Room, Volume I (Mercury Nashville, 2017)




“Il luogo dove registri può influenzare, nel mio caso anche elevare, quello che fai”. Con queste parole CHRIS STAPLETON, 38 anni, sintetizza il titolo scelto per l’ambizioso progetto musicale di questo 2017. Il 5 Maggio sono uscite le prime nove canzoni raccolte sotto il titolo: From A Room, Volume I. A fine anno arriverà il volume II. Chris Stapleton ha registrato il seguito del fortunato debutto TRAVELLER, negli stessi studi di Nashville dove registrarono i suoi grandi idoli: Waylon Jennings, Willie Nelson, Elvis Presley. Mura piene di storia che un paio d’ anni fa furono salvate dal triste destino a cui stavano andando incontro: la demolizione. Scongiurata la wrecking ball rimane la magia. Prodotto con il fido Dave Cobb, che ci suona anche la chitarra acustica, Stapleton cerca di bissare il grande successo di un debutto nato sulle highway, durante un lungo viaggio con la moglie in cui cercò di recuperare il meglio di se stesso, dopo alcune delusioni di vita, e le sue esperienze musicali, comprese le parentesi con i suoi vecchi gruppi, e le tante canzoni scritte per altri come autore. Con lui in studio: la moglie Morgane Stapleton ai cori, il batterista Derek Mixon, il basso di J.T. Cure e le ospitate di Mickey Raphael all’ armonica, Robby Turner alla pedal steel e le tastiere di Mike Webb. 
 Volume I ripete bene la formula, bilanciando le varie anime della sua musica anche se a prevalere, come già anticipato dal debutto, è sempre quella più soul e nera grazie soprattutto alla sua straordinaria voce: ‘I Was Wrong’, l’incidere soffuso e notturno della finale ‘Death Row’, la splendida ‘Either Way’ che insieme a ‘Last Thing I Needed , First Thing This Morning’ (rubata a Willie Nelson) sono il punto più alto del disco e sembrano uscite da impolverati dischi motown abbandonati su una vecchia diligenza guidata da vecchi cowboy e persa tra le strade del Texas. Come se Otis Redding camminasse, senza fretta, sotto braccio a Waylon Jennings. Outlaw soul. Maggiore omogeneità rispetto al debutto, spezzata solamente da un lento walzerone country dominato dalla lap steel (‘Up To No Good Livin’’), un vecchio blues con l’armonica (‘Them Stems’), e l’incalzante rock di ‘Second One To Know’, il momento più elettrico e movimentato del disco. Chris Stapleton si conferma uno degli ultimi depositari di una vecchia formula che tra gli anni sessanta e i settanta cercò di riscrivere la musica americana. Anche se un punto inferiore al debutto, che poteva giocarsi la carta sorpresa, rimane pur sempre due punti superiore per spessore e intensità alla media delle uscite odierne nel suo campo. Ora non rimane che aspettare il secondo volume previsto per fine anno, che potrebbe riservare ulteriori sorprese, altrimenti non si spiegherebbe questa divisione, vista l’esigua durata del disco.


RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)


mercoledì 10 maggio 2017

RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO' (TajMo)

TAJ MAHAL & KEB’ MO’    TajMo (Concord Music, 2017)






Ieri in rete è andata in onda l’ennesima puntata di: "anche in musica i soldi possono dividere le persone". Il tutto riferito al prezzo dei biglietti del concerto dei Rolling Stones con pro e contro annessi. Passiamo oltre. Lasciamo parlare la musica. Fortunatamente in nome della musica ci si unisce anche e l’esordio di questa inedita quanto affiatata coppia di musicisti ne è la testimonianza più fresca e attuale. Un connubio cementificato dopo un tributo a Duane Allman e proseguito in questi due anni, culminato con questa raccolta di undici canzoni. “ E’ stato divertente. Questa collaborazione era nell’aria da diverso tempo, ma ora che si è compiuta sono veramente colpito. Keb’Mo’ è davvero bravo a tenere la palla in aria. È un inferno di chitarrista. Sono stupito dalle cose che è riuscito a tirare fuori”. Così Taj Mahal ha raccontato il feeling nato con il chitarrista di Los Angeles. L’alunno segue il maestro e il maestro lascia spazio all’alunno (comunque classe 1951), tanto che Keb’ Mo’ non si fa remore nel chiamare “guida” il suo esperto compagno. Comunque sia, due maestri nel loro campo. Due esperti in contaminazione. E il campo di gioco è lo stesso che Taj Mahal contribuì a svecchiare fin dal lontano esordio del 1968, allungando le radici versi tanti altri orizzonti sonori, rivestendo il blues di abiti moderni e all’avanguardia per l’epoca. Qui, nel 2017, in aggiunta: l’intreccio delle loro voci e delle chitarre. Tutto l’amore per il blues libero e contaminato che sa: essere elettrico (‘Don’t Leave Me Here’, ‘Show Knows How To Rock Me’), acustico, riprendendo quella ‘Diving Duck Blues’ di Sleepy John Estes dal debutto di Majal appunto, soul in ‘Shake In Your Arms’ con la chitarra ospite di Joe Walsh, stringere la mano al reggae nella cover degli Who ‘Squeeze Box’, bagnarsi nei mari dei Caraibi (‘Soul’), esprimere tutto l’amore per il Sud degli States (‘Don’t Lleave Me Here’), salutarci con la cover ‘Waiting On The World To change’ di John Mayer che ospita la voce di Bonnie Raitt. Il tutto senza mai perdere per strada eclettismo e freschezza. Niente di nuovo, nulla di rivoluzionario, non il disco dell’anno, ma certamente sarà il miglior disco da ascoltare in macchina durante le prossime lunghe (e corte) trasferte estive verso le mete dei vostri concerti. Pure se andrete a qualche concerto troppo costoso. Perché la musica, alla fine, ricuce e unisce tutto. Chiedere a Taj Mahal.






RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP (featuring CARLENE CARTER)-Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE:  GARLAND JEFFREYS -14 Steps To Harlem (2017)


lunedì 8 maggio 2017

RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS (14 Steps To Harlem)

GARLAND JEFFREYS    14 Steps To Harlem (Luna Park Records, 2017)





C’è chi della contaminazione ne fa una malattia, si inventa guerre puntellate sulle assi cigolanti dell’odio e della supremazia razziale, e poi c’è chi ne trae fuori bellezza e giovamento. Lasciamo i primi girare senza meta intorno al loro livore basato sull’invidia (“molta gente non è ancora pronta” dice Jeffreys) e facciamo un monumento a GARLAND JEFFREYS che dalla contaminazione (il suo sangue è di tanti colori e parla diverse lingue, la sua musica pure) si ècostruito una carriera, non sempre ai vertici del successo, ondulante tra picchi, cadute di tono e assenze prolungate, ma sicuramente degna di essere raccontata e rispettata. 14 STEPS TO HARLEM non sfugge a quello che ha sempre mostrato con la sua musica: di essere aperto a ogni suggestione musicale, a ogni genere, ad ogni luogo e ogni tempo. Da Brooklyn a Firenze dove studiò e abitò in gioventù, il passo è sempre più breve di quanto ci si aspetti. Se il disco si apre in leggerezza con un chorus pop rock quasi danzereccio (‘When You Call My Name’) dominato dai shynth che ti si stampa in testa, continua poi sulle antiche strade del blues, dell’amato reggae, del soul, del rock, della musica latina, dei linguaggi musicali più moderni del ghetto (‘Colored Boy Said’), delle classiche ballate newyorchesi. L’ambientazione è la stessa di sempre: parte dalle strade di New York , suggestiva la ballata ‘Luna Park Love Theme’ ambientata a Coney Island e che ospita Laurie Anderson al violino, e si propaga in giro verso le strade del mondo. Lo sguardo è spesso rivolto al passato. Principalmente a suo padre in ’14 Steps To Harlem’ , un onesto lavoratore che con i soldi guadagnati con tanta fatica gli permise di studiare all’università e lo introdusse alla musica,
quand’ero giovane mio padre mi introdusse nel mondo del jazz, ho visto grandi artidsti ad Harlem. Ho visto Nina Simone al Village Gates, l’ho conosciuta, suonava con Sonny Rollins”, alla sua infanzia (‘Schollyard Blues’), alla vecchia New York del 1981 che ospitava i Clash in tour mentre lui promuoveva l’acclamato ESCAPE ARTIST (‘Reggae On Broadway’) e tra gli spettatori c’era Joe Strummer . Ma anche al presente con i pensieri rivolti alla moglie (‘Venus’ potrebbe essere scritta da Van Morrison) e alle sue origini portoricane (‘Spanish Heart’). Piazza pure due cover: una carezzevole ‘Help’ dei Beatles dedicata a John Lennon, conosciuto al Record Plant e ‘Waiting For The Man’ dei Velvet Underground, un dichiarato omaggio al vecchio amico Lou Reed. “Ho incontrato Lou Reed alla mensa della Syracuse University nel 1961. Lou era al sencondo anno, Io una matricola. Nessuno ci ha presentato. Ci siamo fiutati a vicenda. Lui arrivava da Long Island io da Brooklyn”. Produce James Maddock. In questi giorni stavo cercando qualcosa di fresco che potesse sostituire gli abituali abitanti della mia autoradio. Sapete quei lunghi viaggi sulla lingua d’asfalto? 14 STEPS TO HARLEM si è guadagnato il primo posto con poca fatica!





RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP-Sad Clowns & Hillbillies (2017)


mercoledì 3 maggio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 34: EDOARDO BENNATO (Edo Rinnegato)


EDOARDO BENNATO    Edo Rinnegato (Warner Fonit, 1990)








Luglio 1990. Il gol del pareggio di Claudio Caniggia, o se volete l’uscita avventata di Walter Zenga (imbattuto fino a quel momento), spensero la terz’ultima stella di quelle notti magiche italiane. A far calare il buio completo ci pensarono i rigori falliti di Donadoni e Serena. Tutte le stelle spente, le notti perdono la scia magica, anche gli occhi di Schillaci non luccicano più. Argentina in finale. Il sipario calò miseramente... anche su quel tormentone (ascoltato fino allo sfinimento ovunque) musicato da Giorgio Moroder con il testo dell’inedita coppia Bennato/Nannini che ci accompagnò dal Dicembre dell’anno prima fino a quel 3 Luglio. Rivelandosi comunque, a fine anno, il singolo più venduto in Italia.
Ma Edoardo Bennato aveva già pensato a tutto, nuovamente: dal 20 al 28 Maggio, a pochissimi giorni dall’inizio dei mondiali chiamò con sé i vecchi amici Roberto Ciotti (l’ultima apparizione del bluesman romano in un disco di Bennato risaliva a BURATTINO SENZA FILI del 1977), Lucio Bardi e Luciano Ninzetti alle chitarre, Andy Forest all’armonica e in soli otto giorni, chiusi dentro ai Baby Record Studios di Milano, registrarono in presa diretta EDO RINNEGATO, un disco totalmente acustico con il non trascurabile primato di essere il primo (live) unplugged sul mercato italiano, prima ancora che MTV iniziasse a staccare le spine a tutti quanti.

Nella copertina, disegnata dallo stesso Bennato, c’era tutto il misero armamentario usato: chitarre acustiche, armoniche, tamburelli e kazoo. Stop. Ancora adesso se qualche neofita di Bennato, esiliato dal mondo fino a ieri in qualche isola (che non c’è), mi chiedesse un “disco iniziazione” all’opera di Bennato, lo farei partire da qui. Un riepilogo di carriera che parte dalle lontane ‘ Venderò’, ‘Rinnegato’, ‘Arrivano i Buoni’ ‘La Bandiera’, ‘Franz è il mio Nome’, ‘Ma Che Bella Città’ e arriva fino alle allora più recenti ‘Abbi Dubbi’, ‘Sogni’, ‘La Luna’, ‘La Chitarra’ completamente messe a nudo, svestite dai pesanti abiti anni 80. Il disco uscì a mondiali finiti, nell’autunno del 1990. Ma l’estate di Bennato non terminò con il terzo posto dell’Italia: il 13 Luglio partecipò a Pistoia Blues, dividendo il palco con sua maestà B.B. King e con il nuovo (e sfortunato) astro nascente della chitarra blues Jeff Healey. In quel Luglio del 1990 il campione del mondo fu Edoardo Bennato. Abbi dubbi? No!




DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)