domenica 27 febbraio 2011

retroRECENSIONE: LIFE SEX & DEATH(The Silent Majority)...e la strana leggenda di Stanley, il cantante "barbone"

LIFE SEX & DEATH The Silent Majority (Reprise Records, 1992)

Notizie dei Life Sex & Death (guarda caso abbreviati in LSD) ce ne furono poche all'epoca dell'uscita di questo album, siamo nel 1992, ancor meno ora a distanza di 19 anni. Qualche video su Youtube, un fan site su Myspace e poco altro.
Venuti allo scoperto sul finire degli anni ottanta, balzarono agli onori della cronaca per il bizzarro cantante e la sua strana storia, che ancora oggi aleggia nella leggenda. Si raccontava che fosse un barbone notato per strada dal resto della band che, rimasta colpita dalla sua voce, lo volle immediatamente in studio di registrazione. Il tizio che si faceva chiamare Stanley, accettò di mettere al servizio del gruppo la sua arte, costruita su testi alquanto intelligenti e provocatori, rispetto alla stragrande maggioranza dei gruppi street hard rock. Stanley, però, decise di non ripulirsi ma di rimanere tale e quale, con i suoi vestiti sporchi e stracciati, le sue unghie nere e le sue scarpe rotte, a vederlo quasi un Elvis Costello abbandonato per strada dal almeno due mesi.
Stanley è un emarginato, caduto in depressione dopo il suicidio del padre, che nasconde dentro di sé un animo artistico, che la band riuscirà a far venire fuori. Divertenti alcune storielle che giravano attorno a questa figura enigmatica: come quella che racconta di uno Stanley strafatto che vomita sulle scarpe di un pezzo grosso di una label altrettanto grossa. Il contratto dubito sia stato firmato. Ora, il punto ancora da smuovere è: fu una invenzione per attirare attenzione sulla band o la leggenda di Stanley "il barbone" è tutta verità? Sempre su Youtube è visibile un'intervista datata 1993, in cui si vedono i tre componenti, classici ragazzotti metallari americani dai lunghi capelli, e Stanley con la sua giacca lisa e i suoi occhiali stile fondo di bottiglia accucciato e imbarazzato in mezzo a loro sul divano. Attore o vero imbarazzo?
Una cosa è certa, il disco merita e Stanley, vero o falso che sia, è un buon compositore che a volte ricorda addirittura il Tom Waits di "Bone Machine" (1992), nella sua interpretazione vocale, ascoltatevi la feroce "Tank" dove ripete all'infinito "I'm a tank" o la finale "Rise Above", ballad pianistica con Stanley- solo voce e piano-raccontare la sua storia di solitudine ed emarginazione. Prova struggente da cantautore. Accompagnato da una band solida e potente che lascia spesso intravedere influenze blues, formata da Bill E. Gar al basso, Alex Kane alle chitarre (formerà in seguito gli Antiproduct) e Rian Michael Horak alla batteria.
Ascoltare, oggi, una canzone come "Jawohl Asshole" ( i titoli e i testi furono censurati all'epoca, così come la copertina), suona ancora maledettamente moderna, un hard street grezzo e martellante così come "Fuckin' Shit Ass", con un chorus radiofonico che avrebbe sfondato se la canzone si fosse intitolata diversamente.
"Train" è un bluesaccio con tanto di armonica, sparato a velocità folle da thrash metal song, un gioiello, mentre la sempre veloce "Big Black Bush "sembra uscire dai primi lavori della coppia Van Halen/Lee Roth. Divertenti, poi, le piccole perle di country roots sparse per il disco come "Farm Song" (registrata quasi in lo-fi con rumori di strada in sottofondo), "Hey Buddy" e lo spoken blues di "Guatemala".
Un disco che si discosta nettamente dalle uscite street hard dell'epoca, lontano dalle altre band californiane dai suoni ripuliti e dai look improbabili, i Life Sex & Death erano puri, aggressivi, ironici e furono abbandonati al loro triste destino...Rise Above cantava Stanley...

La recensione compare in origine su Debaser...
http://www.debaser.it/recensionidb/ID_28610/Life_Sex__Death_The_Silent_Majority.htm

mercoledì 23 febbraio 2011

RECENSIONE: CRISTINA DONA' ( Torno a casa a piedi)

CRISTINA DONA' Torno a casa a piedi (EMI, 2011)


Piccole tracce le aveva lasciate nel precedente La quinta stagione, ora è chiaro che la trasformazione di Cristina Donà è completa. Una trasformazione spontanea e legata principalmente alle vicissitudini della sua vita privata. La solarità musicale e il carattere dei testi non possono scindersi dalla recente maternità e dalla maturità raggiunta dopo vent'anni di carriera.
Cristina Donà torna a casa a piedi dopo aver guidato ed indicato la strada alla leva di cantautrici femminili, chiamiamole ancora alternative, anche se ormai il termine che andava bene quindici anni fa, ora è seguito da un punto interrogativo assai grosso.
Ritorna indietro da un viaggio che l'ha portata ad incontrare i favori in Italia( Afterhours, La Crus, Massimo Volume, Diaframma, Gianni Maroccolo) e all'estero( fra tutte Robert Wyatt ed Eric Wood), collaborazioni e riconoscimenti non sono mancati e sempre inspiegabilmente lontani dai grandi circuiti mediatici.
Ora la voglia di stanarsi è tanta e dopo la sua presenza sul palco del festival di Sanremo per accompagnare Nada nel 2007, la sua tentata candidatura all'edizione 2011 è un segno più che chiaro del suo cambiamento. Miracoli che apre il disco è la cartina di tornasole della nuova Donà. La canzone è stata scartata preventivamente ma sicuramente avrebbe fatto faville sul palco dell'Ariston. Fiati strombazzanti, stile big band, aprono una canzone musicata insieme a Saverio Lanza( vi ricordate dei toscani Rockgalileo?) , coautore di tutte le musiche del disco. Una marcia trionfante dove le piccole cose "giornaliere" diventano le più importanti sino a divenire dei miracoli.
"Tu credi nei miracoli che la musica può fare, e canti le canzoni che ti han fatto sognare...". La musica al centro di tutto ricompare in In un soffio. " Cerco la risposta dentro a una musica facile da ricordare", ritmi vagamente soul e balcanici dove le parole diventano essenziali e più dirette rispetto al passato. Dove una volta primeggiava l'introspettività ora campeggia il messaggio diretto e semplice.
La battistiana Giapponese (L'arte di arrivare a fine mese), è un esercizio pop giocato sull'ironia che coniuga la quotidianità con lo stress dell ' incalzante vita moderna. Il vecchio Battisti nel testo sembra mescolarsi al duo Battisti/Panella, periodo anni ottanta nella musica. La voglia di giocare con la musica traspare in ogni canzone del disco, il fischiettio Morriconiano che apre la folk Più forte del Fuoco, una melodia immediata e di sicuro effetto che nasconde una dedica sentita all'amico Niccolò Fabi colpito recentemente da un "prezioso" lutto. " C'è quella frase che dice: chi ha già provato le ortiche riconosce la seta."
Il rock chitarristico, alla vecchia maniera, compare ancora su Tutti che sanno cosa dire, invettiva sui moderni saccenti, che con la sua carica spezza un disco giocato sui colori caldi e contrastanti lasciati da strumenti a fiato ed orchestrazioni costruite sugli archi.
La quotidianità che si ripete ossessivamente con piccoli dettagli apparentemente futili "Le scarpe, i contratti , i sofficini..." e si intreccia con storie di amore clandestine, Torno a casa a piedi o di amore verso il piccolo figlio nella delicata e sentita Bimbo dal sonno leggero, dove viene esaminato il delicato rapporto genitore-figlio, ora di primaria importanza per una neo mamma.
La conclusione è però amara e viene affidata ad una lettera, Lettera a mano, anacronismo dei tempi moderni, dove carta e penna sembrano sempre più cosa rara da trovare sopra alla nostra scrivania. "Sulle pagine bianche cade inchiostro nero, è il sangue del mio pensiero" e con una conclusione "...ho paura sempre di rimanere sola..." che inquadra benissimo i nostri tempi del tutto e tutti. Puoi avere beni materiali e l'amore di una persona ma quella paura, dannazione, rimane sempre...


Ci hanno sempre detto che per capire e cogliere le sfumature delle città e dei luoghi in generale bisogna come minimo camminarci a piedi, addentrarsi nelle vie e cogliere tutte quelle cose che viaggiando sopra ad un mezzo di trasporto mai e poi mai riusciresti a vedere. Cristina Donà ci prova e ci trasmette in musica tutte le sfumature che è riuscita a cogliere nello straordinario viaggio della sua vita.

venerdì 18 febbraio 2011

RECENSIONE: PONDEROSA (Moonlight Revival)


PONDEROSA Moonlight Revival (New West, 2010)

Esaurita la carica propulsiva e ribelle nel decennio degli anni settanta, il southern rock ha visto una rinascita negli anni novanta, uscendo da un coma artistico che ha toccato i punti più bassi nei plastificati '80. La riscoperta delle radici americane ha portato alla nascita di un nuovo movimento che fa della commistione tra i generi il suo punto di forza.
I giovani Ponderosa fanno gli americani in tutto e per tutto. Le radici rock ben piantate nel terreno boschivo che si apre su vallate verdi acide e vagamente psichedeliche, strade impolverate che sanno di tradizione folk/soul e l'antico country/west che fa capolino di tanto in tanto. Sono la new sensation del nuovo southern rock da Atlanta, con un occhio che guarda indietro agli anni settanta e l'altro fermo nella contemporaneità. Esempio significativo è il tocco di gradevole pop ( ascoltare l'inizio solare e country-pop di Pistolier, che nella sua coralità fa tanto Beatles) che colora e apre interessanti strade alla loro musica.
L'iniziale Old Gin Road rimanda subito ai migliori Faces e di rimando ai Black Crowes, veri e propri progenitori del rilancio southern. Hold on you è cadenzato ed oscuro rock-blues, lento e lisergico con chitarre aperte e duellanti. Little Runaway piace e si fa ricordare per la sua semplicità e melodia, ricordando a tratti lo Springsteen più spensierato e radiofonico. Pretty People e Revolution sono invece dei rock'n'roll senza troppe pretese, chitarre e cantato anni sessanta, la prima più veloce e con un attacco in stile Stones, la seconda un cattivo honk-tonk.
Oscurità( Girl I've ever seen) e solarità(Penniless è una country song che si perde nella west coast californiana dei primi anni settanta tra Eagles e primi America) si intrecciano in continuazione come le ombre lasciate da un sole che cerca di penetrare il verde di un fitto bosco . A chiudere il disco, la pesantezza inaspettata di Devil on my shoulder, sporca ed abrasiva nel cantato, nelle chitarre e nel suo basso pulsante.

I Ponderosa guidati dalla voce di Kalen Nash, hanno rilasciato un debutto di tutto rispetto per chi ama il southern rock odierno, a metà strada tra romanticismo melodico e la dura vita on the road. Per chi crede che i Kings of Leon abbiano perso quel poco di rustico che sembravano avere ad inizio carriera, consiglio l'ascolto dei Ponderosa, sperando che la loro genuinità non si perda per strada come successo ai sopracitati "nuovi dei" del rock americano.

giovedì 17 febbraio 2011

RECENSIONE: TWILIGHT SINGERS (Dynamite Steps)


TWILIGHT SINGERS Dynamite Steps (Sub Pop, 2011)

Dopo il buon e fortunato Saturnalia in compagnia del gemello maledetto Mark Lanegan, Greg Dulli continua la personale battaglia con la profondità contenuta in domande e risposte sospese tra la vita e la morte. Il limbo, la fede, la redenzione vissute con lo sfondo di periferie urbane degradanti e abitate da personaggi perdenti e vogliosi di riscatto.
Il cuore nero e soul che ha sempre battutto dentro a Dulli fin dai tempi dei compianti Afghan Whigs continua a battere nell'oscurità di canzoni color notte, illuminate da veloci e illusori lampi. Notti e incubi in Last Night in Town, chitarre e synth guidano il presagio della fine. L'amico Lanegan c'è anche stavolta e compare quasi subito in Be invited che prosegue il discorso di Saturnalia, la profondità della voce dell'ex Screaming Trees incastrata perfettamente tra le armonizzazioni di un violino.
Se Waves è una scheggia rock/noise, veloce e cupa, mosca bianca all'interno di questo disco, in contrapposizione Never seen no devil rievoca fantasmi country-western in salsa dark e malinconica.
Tanti gli ospiti oltre a Lanegan, Ani Di Franco duetta nella delicata Blackbird and the fox , dove il degrado urbano descritto si contrappone alla pacatezza del duetto.
Quando tutto è perso c'è ancora chi si aspetta dalla vita un segnale(She was stolen) e chi è costretto a vivere negli angoli di una strada come descritto nelle impietose istantanee della "nera" e "pop" On the corner, con l'ex QOTSA Gene Trautmann ospite alla batteria.

Ancora fuoco che brucia in The beginning of the end, la canzone più soul e black che rimanda al passato di Dulli, mentre la ballata per piano ed archi Get Lucky stride con l'esplosione finale della conclusiva e lunga title track, giocata su un crescendo fantastico.
I chiaroscuri disseminati lungo tutta la durata del disco, ci consegnano un Dulli in splendida forma ed un artista viscerale tra i più originali ed ispirati della sua generazione.

sabato 12 febbraio 2011

Retro RECENSIONE: BLACK SABBATH- Dehumanizer (I.R.S., 1992)

In questi giorni esce la versione deluxe rimasterizzata del disco(CD+cd inediti, live version)

Questa recensione ha due ragioni di esistere, la prima è rendere omaggio al grande R. J. Dio che ci ha lasciato nello scorso 2010, la seconda per rendere giustizia ad un album, troppo spesso sottovalutato o addirittura sciaguratamente considerato, da molti, uno dei peggiori album dei Black Sabbath, come se dischi quali Technical Ecstasy, Never Say die del periodo Ozzy o Forbidden del periodo Martin non fossero mai usciti.
Dehumanizer è un disco figlio del suo tempo che però a mio modesto parere è l'unico post Ozzy a contenere alcune peculiarità che fecero dei primi Sabbath degli anni settanta, un gruppo in grado di influenzare in modo netto e tangibile il futuro heavy metal.
Uscito nel 1992, Dehumanizer è paradossalmente più granitico, heavy e malvagio di molte uscite dell’epoca da parte di grossi nomi dello starsystem metallico, dai Maiden di Fear of the dark, ai Metallica che si godevano il successo planetario del Black album, tanto per citare due grossi nomi.
Un canzone dall’incedere doom e fumoso come After All (the dead), non si sentiva dai primi anni settanta e con un po’di fantasia, sostituendo la voce di Dio con quella di Ozzy, il gioco è fatto.
Ronnie J. Dio è la grande novità di questo album. Dopo aver prestato la la sua ugola nei due meravigliosi dischi dei primi anni ottanta che ebbero il pregio di far entrare i Black Sabbath in un nuovo decennio a gareggiare con la nascente NWOBHM, i rapporti tra il folletto di Portsmouth e Iommi non furono dei più amichevoli, complice una miriade di clausole legali ma soprattutto i famosi ritocchi apportati a Live Evil, mai digeriti da Dio che ne decretarono la separazione.
La formazione che registra Dehumanizer nei Rockfield Studios nel sud del Galles, sotto la produzione di Mack(già produttore dei Queen) è la stessa di Mob Rules che vedeva oltre a Dio e Iommi, Geezer Butler al basso e Vinny Appice alla batteria, formazione che diciassette anni dopo darà vita agli HEAVEN & HELL di The devil you know, tanto per ribadire la bontà di questa formazione, sicuramente la migliore mai avuta dai Sabbath dopo l’originale e storica line-up.
Se all’epoca, la reunion della formazione con Dio, sembrava una bella mossa commerciale per rialzare le quotazioni di due carriere, quella solista di Dio, dopo il poco ispirato Lock up the wolves e quella dei Sabbath reduci dall’epicità di un disco come Tyr ( che comunque conteneva anche lui i suoi gioielli), con gli anni la bontà di questo disco sembra accrescere. Canzoni ben impiantate nel presente di allora, con Dio che lascia i suoi testi fantasy a favore di liriche proiettate alla vita di tutti i giorni e nell’incerto futuro con tutte le sue insidie umane e tecnologiche. I suoni riabbracciano la solenne lentezza del passato, perdendo il calore del blues ma acquistando la freddezza di riff metallici e quasi thrash.
L’apertura affidata a Computer God è un monito contro la nuova generazione cresciuta con i computer ma ancora lontana dall’ingabbiamento totale di internet e dei social network ma certamente profetica. Canzone che parte lenta e sontuosa per accellerare nel finale con Iommi a dimostrare l’assoluta leadership di re dei riff. La componente doom è presente oltre che nella già citata After all(the dead) anche nella straziante e pesantissima Letters from earth, e nella bella e sontuosa Sins of the father. Il basso caratteristico di Butler apre invece la cadenzata Master of insanity che sfocerà nell’epicità del chorus guidato da un Dio in ritrovata forma.

Discorso diverso per Tv crimes, la canzone più veloce del disco e ancora con Dio sugli scudi per l’ottima interpretazione che mette alla berlina i famosi telepredicatori, in quegli anni sulla cresta dell’onda nelle reti televisive americane e nemici numeri uno della musica metal e per la groovy e malvagia I, ancora con Dio protagonista in un crescendo di teatralità vocale.
Too late è una semi -ballad che parte acustica fino crescere sfociando nell‘assolo di Iommi, in verità sempre molto ispirato durante tutta la durata del disco, spargendo buoni assoli in tutte le canzoni, la finale Buried alive e la più famosa del lotto, Time Machine, che verrà usata anche nella colonna sonora di Fusi di testa sfiorano il tipico rifferrama del thrash metal.
Purtroppo il sodalizio di questa formazione durò lo spazio di questo disco, con il relativo tour che toccò anche l'Italia nel 1992 in un Monsters of rock a Reggio Emilia, insieme a Iron Maiden, Testament, Megadeth e Pantera, poi i soliti litigi si impossessarono della scena e il resto è storia...
Il disco passerà nel dimenticatoio e ricordato solo per la pessima copertina che rivaleggia con quella di "Forbidden", per venire in seguito rivalutato dagli stessi Heaven & Hell che da esso hanno ripescato alcune canzoni come I, After All e Computer God durante i live.

giovedì 10 febbraio 2011

RECENSIONE: SOUTHSIDE JOHNNY AND THE ASBURY JUKES- Pills and Ammo

SOUTHSIDE JOHNNY AND THE ASBURY JUKES- Pills and Ammo (Leroy Records, 2010)

Questo è il disco che mi sono regalato nel Natale appena passato. Desideroso di cercare qualcosa di caldo, rassicurante ed avvolgente. Una musica che scaldasse cuore ed anima, che non ti lasciasse immobile ma che ti facesse muovere e battere i piedi in ogni situazione della giornata, in ogni luogo e circostanza. Mai autoregalo fu più azzeccato ad assolvere i desideri di cui sopra.
Difficile, veramente difficile, immaginare Southside Johnny in un posto che non sia un piccolo club dall'insegna esterna tanto luminosa e sgargiante quanto buio e fumoso all'interno, affollato di gente festante, con il calore e il sudore che diventano un tutt'uno. Gente festante ed inneggiante un personaggio e la sua numerosa crew che non si risparmiano, incendiando le assi del palco con il loro Jersey sound.
Johnny Lyon, ma per tutti Southside Johnny, non è mai diventato una star del rock come il suo grande amico Springsteen, ma non per questo ha mollato la presa. Al suo fedele seguito di fan ha sempre dato dischi dignitosi, accompagnati da live performances all'ultima goccia di sudore. Rimasto, forse, l'ultimo vero depositario di quel suono denominato Jersey Shore sound, un miscuglio di Soul, R&B e Rock'n'roll che nei primi anni settanta mise a fuoco e fiamme i locali di mezza America.
Bluesman dalla voce calda e sporca quanto basta, con Pills and Ammo, ritorna a pestare il piede sull'acceleratore, facendo uscire un disco ruspante e parecchio chitarristico, semplice e diretto dove le due anime, soul e rock vanno a braccetto.


Rimanere indifferenti alla sua voce è impresa ardua, a partire dalle canzoni più rock come l'omaggio al vecchio rock'n'roll dei '50 di una Keep on Moving, dove un trascinante piano alla Jerry Lee Lewis traghetta una infuocata song che nel testo ricalca tutto l'amore per la musica e fumosi locali di divertimento.
Voce maschia e decisa in Heartbreak City, un rock-blues dove le chitarre di Bobby Bandiera e Andy York fanno furore e in One more night to rock , armonica, chitarre, fiati e la passione che trabocca.

C'è poco spazio per tirare il fiato anche quando le canzoni sono delle ballate che rimandano la memoria all'America di Bob Seger come nella stupenda Lead me on, l'energia musicale cala ma la voce sopperisce a tutto o come nella malinconia di Strange strange Feeling, vita passata e presente che scorre inesorabile.

Quando parte Umbrella in my drink, sembra di vederli Southside Johnny e un altro vecchio amico, vera e propria istituzione del New Jersey, Gary Us Bond, duettare davanti al loro pubblico e cantare il loro amore per il New Jersey anche se è un posto dannatamente freddo come loro stessi dicono. Forse questo il motivo per cui questi personaggi riescono a scaldare i cuori e se serve anche un pò di alcol in corpo per farlo, ben venga.
Avete capito, questo disco è ciò che serve quando le temperature esterne ed interne iniziano a calare, quando il ghiaccio deve essere per forza sciolto e la vostra ricerca di calore non ammette più spreco di tempo.

domenica 6 febbraio 2011

Morto il chitarrista irlandese GARY MOORE

Moore se ne è andato quasi in modo silenzioso, così come aveva scelto di vivere la sua vita artistica negli ultimi anni. Un professionista della chitarra rock-blues che ha ispirato moltissimi guitar-hero delle ultime generazioni. Nato a Belfast nel 1952 è stato trovato morto nella mattinata del 6 Febbraio 2011, nella sua camera di albergo in Spagna, dove stava trascorrendo le vacanze. In omaggio a Moore, la recensione di "Wild Frontier", disco coraggioso,uscito nel 1987, prima della virata blues che ne caratterizzò gli ultimi venti anni di carriera e paradossalmente, lavoro a cui doveva partecipare l'amico Phyl Lynott, morto solo un anno prima e a cui il disco fu dedicato.





GARY MOORE Wild Frontier (1987)

Gary Moore, irlandese classe '52, è uno dei chitarristi più influenti e spesso sottovalutati della sua generazione.

Artista della sei corde genuino e sanguigno ha sempre prediletto la forma canzone alla pura spettacolarizzazione e alla tecnica della chitarra pur non avendo nulla da invidiare a chitarristi piu' egocentrici e in vista. La sua carriera e' un continuo alternarsi tra dischi di matrice hard rock e dischi blues. Ormai vicino ai quarant'anni di carriera, Moore inizio' giovanissimo prestando, negli anni '70, il suo feeling chitarristico a gruppi come Skid Row (non quelli di Sebastian Bach ovviamente), Colosseum e Thin Lizzy (suono' in 'Black Rose', uno dei migliori dischi del gruppo irlandese).

Gli anni ottanta si apriranno ancora prestando i servigi ai G-FORCE per poi iniziare la sua carriera solista vera e propria."Wild Frontier", settimo disco solista, esce nel 1987 ad un anno dalla scomparsa del fraterno amico PHIL LYNOTT, morto un anno prima, inghiottito dalla droga. I due collaborarono gia' nel precedente disco di Moore 'Run For Cover' (1985) e avrebbero dovuto farlo anche in questo nuovo capitolo che invece sara' solo dedicato allo scomparso leader dei Lizzy.

'Wild Frontier' e' un disco ambizioso e sperimentale per Moore che cerca di unire Hard Rock e folk irlandese creando qualcosa di nuovo e fresco, se non fosse, il tutto, rovinato dalla moda imperante degli anni'80, di usare synth e batteria elettronica a coprire ogni buco libero delle canzoni. Insomma sarebbe stato un capolavoro del rock se solo fosse uscito un decennio prima, invece in alcuni punti rimane inghiottito in un vortice di suono pomposo che ne mina la tenuta negli anni. Fu lo stesso Moore a pentirsi pubblicamente per non aver usato un batterista in carne ed ossa. Ma se si passa sopra a questo incoveniente, ci rimangono almeno sei o sette canzoni da tramandare ai posteri.

I primi due pezzi sono l'esempio chiaro dell'intento di Moore. OVER THE HILLS AND FAR AWAY in apertura e' un pezzo epico in cui rock e folk vanno a braccetto grazie anche all'intervento di strumenti tradizionali folk suonati dai leggendari THE CHIEFTAINS, vere e proprie icone folk dell'Irlanda, paese a cui tutto in disco e' dedicato. WILD FRONTIER, e' la continuazione ideale della splendida "Military man", cantata da Lynott sul prcedente 'Run for Cover'. Anch'essa doveva essere cantata dallo scomparso cantante. Rimane comunque una delle migliori canzoni in assoluto di Moore con un testo che mette in risalto bellezze naturali e bruttezze della guerra in Irlanda.



TAKE A LITTLE TIME e' un hard rock dal chorus accattivante così come THUNDER RISING, veloce e diretta. Stupenda la strumentale THE LONER in cui Moore mette in pratica tutta la sua classe chitarristica. FRYDAY ON MY MIND e' una di quelle canzoni rovinate da synth e tastiere a cui accennavo prima, tanto da ricordare certe cose di Billy Idol dell'epoca (e' solo una mia sensazione). STRANGERS IN THE DARKNESS e' una semi ballad che riporta alla mente U2 e SIMPLE MINDS di quegli anni. Chiude l'atmosferica CRYING IN THE SHADOWS in cui Moore fa sfoggio anche della sua ottima voce.

Infine una menzione per NEIL CARTER che suona le tastiere e a BOB DAISLEY al basso. Alla batteria... ehm... perche' Moore ha rovinato un disco del genere??


La recensione compare in origine su Debaser:
http://www.debaser.it/recensionidb/ID_17252/Gary_Moore_Wild_Frontier.htm

mercoledì 2 febbraio 2011

RECENSIONE: MINISTRI Live Koko club, Castelletto Cervo(BI) 28/01/2011

Si potrebbe partire dalla fine. Lo stage diving del cantante e bassista Davide Autelitano che nuotando sopra le braccia del suo pubblico, sulle note di Abituarsi alla fine, attraversa la piccola ed incandescente sala del Koko, si arrampica sulle transenne fino ad arrivare al soppalco per poi rilanciarsi dall'alto e tornare al suo posto.
Un gesto che può racchiudere in sè e spiegare quello che i Ministri sono riusciti a raggiungere dopo 8 anni di carriera. Una piccola dimostrazione di come la comunicazione tra artista e pubblico sia l'elemento in più che caratterizza la band milanese. Una presenza scenica che ha raggiunto con il tempo un'importanza rilevante dando alla comunicatività dei loro testi ancor più vista e rilevanza di quanto riescano a dare le stesse canzoni su disco. Una forza che spesso rimane in ombra durante l'ascolto dei loro dischi ma che si manifesta completamente sopra ad un palco, ancor meglio se in un contesto raccolto ed intimo come il Club di Castelletto Cervo
L'aiuto del "quarto uomo" F.Punto alla seconda chitarra e tastiere è certamente basilare nei live set che vedono il chitarrista Federico Dragogna come un infaticabile ed ossesso motore propulsivo, non si può certo dire che si muova al risparmio, lasciando sotto di sè laghi di sudore, così come il batterista Michele Esposito, sempre preciso e martellante.

Non avevo ancora inquadrato i Ministri ed alcune scelte del loro ultimo album "Fuori" mi erano parse inizialmente molto imbarazzanti, fino a giungere alla conclusione, dopo ripetuti ascolti, che il gruppo è un ottimo esempio di sforna hits in equilibrio stabile tra il pop e il rock alternativo italiano con testi intelligenti e provocanti ma con qualche puntata nella retorica che ne abbassava un pò le mie personali quotazioni. Una band certamente che merita l'attenzione fin qui raccolta, capace nel guadagnarsi la fama ma con ancora molte armi da sfoderare in infuturo.
Stasera nella set list, come giusto che sia, il protagonista è l'ultimo album, già dall'apertura affidata a Il sole(è importante che non ci sia) passando a canzoni che a pochi mesi dall'uscita del disco sembrano aver già trovato una loro collocazione tra i classici da concerto. Noi Fuori, Tutta roba nostra, Una questione politica, Due dita nel cuore, Gli Alberi dimostrano la straordinaria capacità del gruppo nello scrivere anthem di facile presa sul pubblico che però riescono ad inglobare al loro interno una certa forma di impegno e forza musicale. Un mix quasi perfetto che fa presa soprattutto sulle nuove generazioni, sempre alla ricerca di nuove guide spirituali.
Dalle canzoni più datate e rock del primissimo disco a Tempi bui, Bevo, Diritto al tetto del secondo, passano quasi due ore in cui tutte le cartucce a disposizione del gruppo vengono lanciate in pasto a fans devoti e incitanti dall'inizio alla fine.

I Ministri continueranno a rimanere un gruppo che dividerà in due chi prova ad scoltarli, saranno osannati da molti e criticati da altrettanti e questo è tangibile vedendo e sentendo i commenti su di loro, ma si può benissimo rimanere nel mezzo ed aprezzarne la semplicità, la comunicatività ed una attitudine che non stravolgeranno la musica rock italiana, ma nel loro piccolo stanno già indicando una nuova via da seguire a chi vuole far musica in Italia.

In conclusione una nota di merito anche per i giovani biellesi Invers e al loro post-indie-punk in italiano, che davanti al pubblico di casa, hanno aperto il concerto dopo aver vinto un contest per giovani bands indetto dallo stesso locale.
























Foto di Roberto Tambone