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mercoledì 6 novembre 2024

BLACK PUMAS live@Fabrique, Milano, 4 Novembre 2024


L'arma di pace in possesso dei texani Black Pumas ha un nome, un cognome e una presenza di tutto rispetto: Eric Burton. La sinergia che il cantante è riuscito a creare con il pubblico sin dal suo primo passo sopra al palco è stata incredibile ed è andata avanti senza sosta fino alla fine dell'ora e quaranta di concerto. Burton ha carisma nell'incarnare in un solo corpo l'immediatezza della rockstar, la comunicatività della popstar e il calore confidenziale del soul singer. Canta divinamente (toni bassi e acuti: la hit 'Colors'  è servita su un piatto tutto da gustare, il contagioso pop di 'Ice Cream (Pay Phone)' fa ballare e cantare) intrattiene il pubblico, scende dal palco per camminare e cantare nel mezzo del parterre di un Fabrique pieno, stringe mani e abbraccia corpi, si concede ai selfie alla faccia di chi sequestra cellulari, danza, imbraccia una chitarra e canta 'Fast Car' di Tracy Chapman in solitaria come primo bis. Fa emozionare con l'esecuzione di 'Angel'.


Alla sua sinistra il compagno, mente del gruppo,  Adrian Quesada, chitarrista, produttore (e attivista) guarda compiaciuto e compassato mentre con la sua chitarra e i suoi effetti dirige una band formata dalle due brave coriste Angela Miller e Lauren Cervantes; il tastierista JaRon Marshall; il bassista Brendan Bond, il batterista Stephen Bidwell e un percussionista, che sanno il fatto loro per classe e buon gusto esecutivo.

 Se a inizio concerto sembrano gigioneggiare intorno al pianeta pop,  quando ingranano la marcia con brani che indagano con più sostanza nella

Motown degli anni 60, 70, il folk, il rock, il funky e il soul, trasportandoli abilmente ai giorni nostri e trovando sublimazione nella jam finale  di 'Rock And Roll', ultima traccia del loro secondo album Chronicles Of Diamonds, diventano irresistibili, dimostrando quanto possano allargarsi e spingersi  ancora in futuro. Ecco, l'unico difetto: avrei voluto un po' di "sporcizia" in più. 

La questione è proprio questa: i Black Pumas sembrano in pista da una vita ma lo sono solo da sette anni e due soli album e quando Burton e Quesada si incontrarono per puro caso con il primo che aveva una buona quantità di canzoni già pronte che trovarono finalmente la voce giusta ( che cercava fortuna negli angoli delle strade di Austin) per diventare reali e concrete, nessuno pensava a questo grande  successo a livello mondiale. E invece: tanto divertimento e tanti giovani tra il pubblico che se uniti a quelli che negli stessi momenti stavano  riempiendo l'Alcatraz per il concerto dei Fontaines DC rendendo un semplice lunedì sera a Milano in una serata ad altra gradazione rock, non può che far ben sperare per il futuro della musica e di un mondo continuamente sotto assedio, a partire dalla lunga nottata americana che ci aspetta. Viva la musica. Sempre.

Ps. Ad aprire il concerto il bravo Son Little che con voce, chitarra e simpatia riesce a conquistare il pubblico con il suo folk blues piacevole e diretto.


Foto: Enzo Curelli


giovedì 31 ottobre 2024

THE WHITE BUFFALO live@Magazzini Generali, Milano, 29 Ottobre 2024

La prima volta che vidi White Buffalo rimasi un po' deluso (Brescia, anno 2016), per lo stesso motivo per il quale ieri sera mi sono invece divertito. L'approccio in your face dei loro concerti è molto diverso da quanto prodotto in studio di registrazione. La prima volta mi sorprese in negativo, questa volta, preparato alla serata mi sono goduto ogni passo, salto e smorfia di Jake Smith con i suoi due inseparabili sodali: il sempre simpatico e sorridente Christopher Hoffee alla chitarra elettrica e tastiere e il martellatore Matt Lynott dietro a una batteria che fa miracoli per non distruggersi sotto i suoi colpi (un pezzo infatti partirà via durante la serata. Miracolo non riuscito!).

La copertina del recente disco live A Freight Train Through The Night sembra simboleggiare bene cosa ci si trova davanti durante un loro concerto: gli abbellimenti da studio di registrazione (Jake è un perfezionista quando vuole) vengono lasciati in un angolo a favore di una visceralità quasi cowpunk dove tutto è permesso e che viaggia e sbuffa come un vecchio treno in corsa, senza paura di sbavature e imprevisti che invece ci sono e rendono tutto più "umano e più vero".


Le sue storie di vita dove si cerca di fare luce attraverso oscurità e difficoltà, la voce profonda e calda (innalzata al massimo quando rimane solo con l'acustica), la sua America musicale, incrocio tra country, folk (la sua prima chitarra la prese in mano a vent'anni folgorato da John Prine e Bob Dylan) e rock'n'roll suonato con foga, sono riuscite a riempire il lungo e stretto locale dei Magazzini Generali (mi lascia sempre un po' interdetto la planimetria del posto) di persone variegate che vanno da un perfetto suo sosia in prima fila ("hey Jake ma cosa fai ancora lì non sali sul palco? Ah no!") a tanti giovani e giovanissimi (tante donne), da chi l'ha conosciuto attraverso la serie Sons Of Anarchy (ecco una sempre splendida versione di House Of The Rising Sun e Come Join The Murder) e chi attraverso  l'ancora per me insuperato album Once Upon A Time  In The West (The Pilot, Stunt Driver, BB Guns And Dirt Bikes).

Spezzare la settimana con un concerto così fa bene all'umore tanto che il viaggio di ritorno, pur ostacolato da mille imprevisti tra lavori sulla tangenziale e uscite autostradali imposte, traffico in tilt per un concerto al Forum di Assago (Ghali?) e onnipresente partita di calcio a San Siro, sembra una tranquilla gita fuori porta con tanto di paesaggio da osservare (operai autostradali ovunque). Mi addormento alle due con le intense note del concerto che mi rimbombano ancora in testa. Alle 5 sono già sveglio. Maledetto cambio d'ora!




martedì 22 ottobre 2024

MARCUS KING BAND live@Fabrique, Milano, 20 Ottobre 2024

Foto: Curelli Enzo

Di cose belle ne capitano anche sotto il palco. Per esempio quando si aspetta il bis: mi sento stringere un braccio da due mani, un signore già con una certa età, con voce quasi rotta dall' emozione mi sussurra " che bravi, che bravi, sa che non li conoscevo". "Ah sì?" rispondo io. "Merito suo" mi dice, indicando quello che potrebbe essere suo figlio. Ecco: mi ha fatto una grande tenerezza e subito sul momento ho pensato che per conoscere nuova musica si abbia sempre tempo davanti a noi. Non si finisce mai di imparare.

Già, proprio bravo Marcus King from South Carolina, uno uscito con il cordone ombelicale con la musica che già gli scorreva dentro, quando poi il padre Marvin gli mise pure in mano la prima chitarra  a tre anni, il gioco fu fatto. Star is born. Che sia un fuoriclasse lo si capisce dalla estrema naturalezza con quale lega insieme decenni di american music (southern rock, hard blues, soul, R&b, ricami jazz e country) con la stessa naturalezza di un veterano dalle mille vite ma di anni Marcus King ne ha solo ventotto. La stessa naturalezza con la quale, oltre a suonare la chitarra divinamente, canta. Una voce soul che se ce l'hai ce l'hai, se non ce l'hai cambia mestiere. Voce che esce in tutta la sua limpidezza quando imbraccia una chitarra acustica e rimane solo sul palco.


Poi che sia pure un'ottima penna lo si capisce anche solo dagli ultimi album dove si è messo completamente a nudo, svelando le tante debolezze che lo hanno circondato negli ultimi anni e da cui è uscito vincente. Anche qui la musica ha avuto la sua importanza.

Basterebbe poi confrontare la diversità dei suoi ultimi due dischi per capire come sappia muoversi con naturalezza tra i generi: da una parte l'hard rock fumante seventies di Young Blood, dall'altra la morbidezza dell'ultimo album Mood Swings con canzoni che si portano a spasso un carezzevole soul e che hanno fatto storcere il naso a molti ma che in verità se prese una per volta sono tutt'altro che brutte ('Save Me', 'Bipolar Love', 'Mood Swings', 'This Far Gone', 'Fuck My Life Up Again' tra quelle suonate) e live, allungate con code strumentali e jam virano anche in altri campi poco arati.

Ad aiutarlo la seconda chitarra di Drew Smithers con il quale duella spesso e volentieri, il tastierista  Mike Runyon che ha lo sguardo rivolto sempre al cielo, il batterista Jack Ryan che detta bene i tempi  e il solido bassista di cui non so il nome.

Tra i paletti delle nuove canzoni inserisce qualche vecchio brano, l'immancabile 'Goodbye Carolina' e una serie di cover. Sì  perché è ancora così appassionato di musica che dopo cinque album continua a infarcire i suoi concerti di cover, passando da una ruspante  'Are You Ready For The Country' di Neil Young a una nuova 'Honky Tonk Hell' di Gabe Lee che uscirà nel suo prossimo disco (almeno così ho capito), da 'Good Time Charlie's Got the Blues' di Danny O'Keefe fino alla finale 'Ramblin Man' della Allman Brothers Band  eseguita con mestiere e devozione, saluto e omaggio a Dickey Betts che ci ha lasciato lo scorso Aprile. 

Io saluto il signore di prima ancora emozionato. Al ritorno in macchina  mi ascolto Wild God di Nick Cave che stasera a Milano, in contemporanea, nella sua personale chiesa ha fatto il pienone (il Fabrique è pieno ma a mezzo servizio). Chissà se il signore, non quello divino, ma quello emozionato lo conosce?



venerdì 4 ottobre 2024

BLACKBERRY SMOKE live@Alcatraz, Milano, 2 Ottobre 2024

foto: Curelli Enzo

Non sono mai uscito deluso da un concerto dei Blackberry Smoke. Perché? Perché ti danno esattamente quello che ti aspetti: giusto, pulito, con mestiere, facce allegre e molta onestà. Sempre confortanti. Va da sé che confermano i tanti pregi e alcuni difetti di sempre. Da una parte: gusto melodico, la capacità di unire chitarre (tre come piace al vecchio southern rock, ecco allora il sempre sorridente Paul Jackson e il sempre compassato Benji Shanks unirsi a Charlie Starr) con quella ariosa melodia country cara a gruppi come Outlaws e Eagles che fa spesso capolino. La concretezza di voce, chitarre, basso, batteria e tastiere e poche seghe strumentali (le chitarre fanno il loro lavoro senza eccessi da prima donna) e scenografiche, il fondale con la farfalla che campeggia nella copertina dell'ultimo disco Be Right Here e le giuste luci. Dall'altra manca sempre quel briciolo di spregiudicatezza,  pur nelle loro capacità, che li faccia osare di più spingendosi in  divagazioni strumentali più coraggiose che il vecchio southern rock, sempre lui il metro di paragone, ha tramandato. Charlie Starr si conferma un signor frontman e songwriter (non so perché ma mi immagino sempre una sua carriera solista parallela alla band): carisma, voce e chitarra guidano il gruppo, ecco l'unica mancanza è non avere nella band almeno un altro elemento con lo stesso carisma che possa rivaleggiare ad armi pari e portare quella "sana" rivalità che il rock conosce bene. A volte pretende. O porta distruzione o meraviglie, il rischio è dietro l'angolo. Forse i Blackberry Smoke amano poco i rischi. Forse questa è la loro natura e piacciono per questo: belle canzoni, suoni nitidi e puliti, perfino canticchiabili da tutti. L'ultimo album e The Whippoorwill i dischi più saccheggiati con quest'ultimo, forse il loro migliore, che regala canzoni diventate dei piccoli classici come la title track e One Horse Town. 


Un Alcatraz pieno di fan ormai fidelizzati vorranno pur dire qualcosa. Negli anni abbiamo visto gruppi con una storia ben più importante suonare nel locale dimezzato.

Anni fa quando scrissi del loro disco The Whippoorwill (2012) su una rivista mai avrei pensato potessero raggiungere questa notorietà qui in Italia. Lo sapete che a Biella esiste l'unica (credo) tribute band italiana a loro dedicata?

Ieri sera a Milano la band di Atlanta, Georgia, ha festeggiano la fine del tour europeo e ricordato pure chi non c'è più: con un accenno di Don't Come Around Here No More di Tom Petty, anche se l'avevano fatta anche due anni fa ma oggi è una data significativa, il 2 Ottobre di sette anni fa ci lasciava, ma soprattutto hanno tributato il loro storico batterista Brit Turner scomparso il 3 Marzo di quest'anno a soli 57 anni. E a rinsaldare l'amore con il pubblico italiano, a fine concerto mostrano uno stendardo a lui dedicato donato da alcuni fan. Vera commozione sui loro volti. Rock’n’roll, boogie rock (Waiting For The Thunder, Rock'n'roll Again) e ariose ballate country si alternano, accennano pure Willin dei Little Feat anche se pochi sembrano accorgersene, si divertono e ci si diverte nel finale. Portarsi a casa una serata di sano rock’n’roll americano (ad aprire il tosto rock blues di Bones Owens da Nashville) con poco più di 30 euro è impresa sempre più rara, meglio approfittarne sempre a patto di non spendere i soldi risparmiati in birra: 10 euro per una media di birra Ipa è un'esagerazione da non provare. L'ho lasciata lì. I soldi serviranno per il prossimo concerto.




sabato 14 settembre 2024

MUDHONEY live@Santeria, Milano, 13 Settembre 2024


Forse il segreto sta tutto lì, in quella linea tentatrice che dal culto si espone al mainstream. I Mudhoney continuano a cavalcarla con lo stesso impeto, la stessa sregolatezza e lo stesso impulso primordiale degli esordi guardandosi bene nell'oltrepassarla. 

Nella sua autobiografia Steve Turner ha scritto: "Eddie Vedder non poteva andare al supermercato, ma io sì". Tutto detto.

Furono tra i primi a dare visibilità a una generazione (i Green River subito ma immancabile è Touch Me I'm Sick dietro) e possiamo dirlo: sono tra gli ultimi rimasti in piedi, fedeli a sé stessi. Quasi due ore di concerto pregne di calci sugli stinchi ben assestati e pure ben simboleggiati dalle due pedate che Mark Arm rifila ai due malcapitati (forse era pure lo stesso, recidivo) che hanno surfato per raggiungere il palco per un stage diving prontamente neutralizzato sul nascere. Una sala sold out  tenuta in pugno da tre ex ragazzi in buonissima forma (Mark Arm, Steve Turner, e Dan Peters) più l'ultimo entrato, comunque venticinque anni fa (il bassista Guy Maddison) che di posare le armi non hanno assolutamente voglia, tuttalpiù Arm posa la chitarra per impugnare il microfono e diventare il "crooner" del loro lato più punk e anarchico. 


Non si tira mai il fiato in mezzo alla loro commistione di garage rock, blues rumoroso e psichedelia acida, l'unica pausa la regala il basso di Maddison che richiede cinque minuti di manutenzione, Arm ne approfitta per per presentarci il suo bicchiere di Vermentino.

Presente, ben rappresentato dagli ultimi album  Digital Garbage e Plastic Eternity (saccheggiati a dovere) e passato (Superfuzz Bigmuff e Mudhoney usciti poco prima di entrare nei novanta) sono dati in pasto (quasi una trentina i brani in scaletta) con l'antica veemenza che negli anni ha guadagnato in esperienza e il rispetto che si deve a una band che stasera, ma lo farà fino alla fine dei suoi giorni, ha impartito una lezione di coerenza rock'n'roll che pochi possono vantare ed esibire con tale esuberanza dopo quarant'anni di carriera e che noi presenti ricorderemo certamente a lungo.




domenica 28 luglio 2024

THE CULT live@Carroponte, Sesto San Giovanni (Mi), 27 Luglio 2024


Se il sogno di Ian Astbury è suonare alla Scala di Milano come ci ha confessato a fine concerto direi che dopo la performance di stasera potrebbe anche meritarsela. Una prestazione vocale da tempi d'oro mentre con i tamburelli si è divertito fino alla fine, lanciandoli, riprendendoli al volo e colpendoli con il tacco del piede come il miglior fromboliere calcistico. Regalandoli. Da sempre camaleontico, sciamano che negli anni ha curato anima e corpo con la musica, a volte non riuscendoci, folgorato in giovane età sulla via dei nativi americani, ha sempre lottato sotto il continuo  attacco dei demoni ed in perenne viaggio verso la ricerca della pace interiore.

 Da lui non sai mai cosa aspettarti, oggi era in forma splendida (e carisma strabordante), esempio per giovani frontman in erba e coetanei che alla sua età sembrano arrancare già. Esempio: prima del bis è sceso dal palco e ha firmato autografi ai primi sotto la transenna. Non è così scontato.


Eh sì, a momenti non sembrava, ma c'erano quarant'anni di musica da festeggiare e mi ha fatto estremamente piacere che nella setlist non abbiano dimenticato album dignitosi ma spesso in secondo piano realizzati negli ultimi vent'anni: il pesante e moderno Beyond Good And Evil ('Rise') che aveva aperto gli anni duemila con il botto, lo sciamanico Choice Of Weapon ('Lucifer') e l'ultimo ammaliante e visionario Under The Midnight Sun ('Mirror') per me degno di stare tra i migliori dischi della loro carriera e credetemi pochi gruppi dopo quarant'anni di musica sono in grado  di far uscire dischi così intensi. C'è pure una 'Star' estrapolata dal disco controverso e grungy con la pecora  in copertina che fu preludio allo scioglimento in quegli anni novanta difficili per tutti. Quando hai due personalità così forti in formazione (naturalmente l'altra metà è  Billy Duffy) i rischi sono sempre in agguato. Loro ne pagarono le conseguenze

Che siano sempre stati difficili da inquadrare lo si capisce osservando il pubblico, diviso tra i nostalgici della prima ora (con look rigorosamente eighties) devoti al post/punk a tinte gotiche dei primi dischi che comunque tornano a casa soddisfatti con le immancabili canzoni di Love ('Brother Wolf, Sister Moon, Rain, She Sells Sanctuary, The Phoenix) e Dreamtime ('Resurection Joe' e 'Spiritwalker'), e i rocker devoti al brusco cambio in direzione hard rock portato da Electric ('Love Removal Machine', 'Wild Flower') e consolidato dal loro best seller Sonic Temple ('Fire Woman', 'Sweet Soul Sister' e il sipario acustico della sempre commovente 'Edie (Ciao Baby)') che ha garantito grandi palchi e pubblico più numeroso. Manca all'appello Ceremony completamente snobbato. Peccato.

Se a centro palco Ian Astbury  intrattiene, sparando fuori anche poco comprensibili parole in italiano, John Tempesta (con il suo passato "pesante" tra White Zombie, Exodus e Testament) e Charlie Jones (alla corte di Page e Plant negli anni novanta) sono garanzia di solidità ritmica, alla sinistra di Astbury, Billy Duffy con la sua  Gretsch White Falcon è instancabile e perennemente concentrato a tenere in pugno quarant'anni di riff legati alla melodia. Potrebbe prendersi la scena come il più vanesio dei chitarristi, non lo fa mai. Uno dei più grandi della sua generazione con l'umiltà che l'ha però sempre tenuto inchiodato alle assi del palco quasi dovesse tenere fede alla sua provenienza: la classe operaia di Manchester. Un lavoratore crudo, semplice e istintivo. Influente. Un chitarrista che ogni band pagherebbe oro per avere.

Sono arrivato al concerto spossato da una settimana faticosa, inoltre sigillata dal caldo della giornata, nonostante tutto appena è partito il concerto sulle note di 'In The Clouds' tutti i malanni sono sembrati sparire per un'ora e mezza veramente ad alti livelli, intensi e diretti, vissuti in ogni particolare che mi hanno fatto pensare a cosa potrebbe restare del rock'n'roll quando anche questi vecchi gruppi passeranno la mano. Dove andremo a trovare le cure giuste? Come si dice? "Concertone"? Sì!




venerdì 10 maggio 2024

PFM canta Fabrizio De André Anniversary live@Teatro Alfieri, Torino, 6 Maggio 2024

 


PFM canta Fabrizio De André Anniversary live@Teatro Alfieri, Torino, 6 Maggio 2024

1980, il mio primo ingenuo approccio con Fabrizio De André fu la cassetta di “Fabrizio De André In Concerto con arrangiamenti PFM-registrato dal vivo a Firenze e Bologna, 13-14-15-16/1/1979”. Un disco che diventerà uno dei grandi live della musica italiana, per come fu suonato, per gli arrangiamenti, per quello che ha rappresentato e rappresenta ancora oggi: quell'incontro/scontro tra rock e poetica cantautorale. Anche in Italia si poteva fare seguendo l'esempio di "Bob Dylan con The Band" dirà Franz Di Cioccio.

"La nostra tournée è stata il primo esempio di collaborazione tra due modi completamente diversi di concepire e eseguire le canzoni. Un’esperienza irripetibile perché PFM non era un’accolita di ottimi musicisti riuniti per l’occasione, ma un gruppo con una storia importante, che ha modificato il corso della musica italiana. Ecco, un giorno hanno preso tutto questo e l’hanno messo al mio servizio…" raccontò De André.

Avevo sette anni e un’ attrazione per quel pezzo di plastica arancione con il timbro Siae blu di una volta in bella evidenza. Cassetta conservata ancora oggi con maniacale cura, che quando girava nell'impianto stereo nuovo di pacca e costato sacrifici a mio padre, arrivati quasi alla fine del lato B, faceva uscire una frase che qualcuno in famiglia sottolineava sempre con velata ironia, soffermandosi sull’ultima parola della seconda strofa, e io ridevo a crepapelle senza sapere bene il perché. Qualche anno dopo, tutto sarebbe stato più chiaro: “passano gli anni i mesi, e se li conti anche i minuti. È triste trovarsi adulti senza essere cresciuti, la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo, fino a dire che un nano è una carogna di sicuro, perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo”.


 


Erano le parole di ‘Un Giudice’. Quella cassetta arrivò improvvisa a svegliarmi, forse perfino troppo presto, questo concerto "PFM canta Fabrizio De André, Anniversary" (e  sono ormai 45 anni) è arrivato altrettanto improvviso. Regalo di un'amica all'ultimo momento. "Ho un biglietto in più. Vieni?". Grazie! Perché no? Mi son detto. Sarei andato a chiudere un cerchio della mia vita iniziato in diretta nel 79, anche se mancano alcuni protagonisti, il principale sicuramente. A Torino piove e la città è quindi libera di riempire l'aria con il meglio di sé stessa: sprigionare tutta la sua arcana bellezza da vecchia capitale. Quegli specchi d'acqua dove a tarda notte  i palazzi e i monumenti si specchiano donano antica magia che ogni volta rapiscono. Almeno me. Arrivo presto per un aperitivo, ma mentre aspetto la mia amica sbircio davanti al teatro proprio mentre Franz Di Cioccio e Patrick Djivas escono per andare a cena, piove forte, sono incappucciati e viaggiano veloci, non oso fermarli. Ma lo ammetto, una foto con loro avrei voluto farla. Il resto della band segue dietro decisamente più rilassata e gioviale.



Entrati, gli arredi di stoffa rossa del Teatro Alfieri, il secondo più antico della città, le luci calde e soffuse fanno proseguire la magia delle vie, dei portici e delle piazze, creando un' atmosfera antica, tanto che quel protagonista che manca pare possa uscire da un momento all'altro da dietto un drappo rosso con il fumo della sigaretta ad anticiparlo. Ad uscire, in perfetto orario è invece la Premiata Forneria Marconi in una formazione a nove elementi. In prima fila i quattro reduci di quel tour del 79 passato alla storia: un Franz Di Cioccio che dall'alto dei suoi 78 anni, con le bacchette della batteria perennemente infilate nella cintola dei jeans, si prodiga durante tutto il concerto a cantare, suonare la batteria e ballare con passi di danza da menestrello rock,   Patrick Djivas incollato al suo sgabello fa uscire note di basso che fanno tremare il teatro e sembrano dialogare, Lucio Fabbri è il violinista che tutti conosciamo, e stasera c'è pure Flavio Premoli alle tastiere, fisarmonica ('Il Giudice')  e il mitico Moog. Poco più dietro i giovani: il talentuoso Luca Zabbini alle chitarre e tastiere e pure voce in 'Zirichiltaggia', Marco Sfogli alle chitarre con il sempre difficile compito di sostituire il maestro Franco Mussida e poi ancora Roberto Gualdi alla batteria quando non deve lasciarla a Di Ciccio e Alessandro Scaglione alle tastiere. Questa sera poi c'è Michele Ascolese l'instancabile chitarrista che con Fabrizio De André ci suonò negli ultimi dieci anni della sua vita.


Delle canzoni di Deandré non dico nulla, oltre ai classici che resero immortale quel tour c'è spazio anche per una lunga parentesi dedicata all'album Buona Novella del 1970 musicato da una PFM che ancora si chiamava I Quelli. 

"Molti di quegli arrangiamenti li ho mantenuti nel tour successivi perché hanno dato alla mia musica un volto nuovo e vivace" raccontò De André. Così nuovo che ancora oggi, così ricchi, funzionano alla grande.

Quando Franz Di Cioccio lancia quel "Branca, Branca, Branca..." prima di  'Volta La Carta' mi pare esca dalla mia vecchia cassetta e il pubblico che risponde "leon leon leon" sia quello presente nel 1979. Invece questa volta ci sono anch' io.


Il  bis è lasciato a 'Celebration' ed a un breve accenno di 'Impressioni di Settembre'. 

Ma la catarsi si era già compiuta quando un leggio è stato posizionato a centro palco, una luce lo ha illuminato e la voce di De André ha cantato 'La Canzone Di Marinella'. In quel momento sì, c'eravamo tutti. (O quasi).




domenica 7 aprile 2024

JUDAS PRIEST live@Forum Assago, 6 Aprile 2024



JUDAS PRIEST live@Forum Assago, 6 Aprile 2024

sei foto da portarsi a casa

1 - Quando cala il telone sulle note di War Pigs dei concittadini Black Sabbath (non è forse l'operaia Birmingham una delle città più rock'n'roll di sempre?) e il concerto inizia con la band raggruppata intorno alla batteria di Scott Travis. Sembra un'istantanea rubata ai primi tempi quando gli spazi erano ancora stretti e angusti. I loro abiti con rifiniture d'acciaio e d'argento brillano, poi entra in scena  il sontuoso impianto luci, semplice ma d'effetto e capisci quanta strada abbiano fatto.



2 - Le canzoni dell'ultimo album Invincible Shield non soffrono a stare in mezzo ai loro classici. Panic Attack è l'opener del concerto e funziona, la melodia di Crown Of Horns sembra già un classico e ha solo poche settimane di vita. Ma in definitiva quanti fottuti "classici" possono vantare i Judas Priest? Stasera hanno tirato fuori una Saints In Hell da Stained Class (1978). E quanti sono rimasti fuori dalla setlist stasera? Io ad esempio avrei voluto Night Crawler.


3 -  Richie Faulkner e Andy Sneap sono una bellezza da vedere insieme tanto che KK Downing è ormai storia e passato. L' uno-due Victims Of Changes/ The Green Manalishi da manuale.



4 - Scott Travis e Ian Hill sono invece una macchina da guerra là dietro. Il bassista, 72 anni, è inchiodato al pavimento ma non butta via un colpo, l'attacco di batteria di Painkiller nella mia testa è sempre la versione metal anni novanta di Rock’n’Roll di John Bonham. 


5 - Rob Halford a 72 anni ha ancora una voce della madonna e una presenza scenica carismatica. Sui toni bassi è molto interessante e tra poco uscirà il suo progetto blues. Quando si invecchia si arriva lì.

Cambia giacche come una modella sulla passerella e gioca e fa giocare con la voce come faceva l'amico Freddie Mercury. L'entrata in scena con moto e frustino su Hell Bent For Leather è tanto pacchiana quanto fotografia insostituibile da tramandare ai posteri tra le migliori trovate rock'n'roll di sempre sopra le assi di un palco, giocandosela con i Blue Oyster Cult, la ghigliottina di Alice Cooper e tante altre. Se non ci sono ti mancano. Cose che via via andranno a scomparire. Lo sapete?

E poi... dopo aver letto la sua autobiografia  Confesso che non è certamente un saggio letterario ma  la schiettezza e l'autoironia di Halford ne fanno una  autobiografia  "vera", esplicita, godibile e diretta come poche, facendotelo amare ancor di più. Quindi: anche se sei un fan del folk britannico, un suonatore di country bluegrass, un jazzista, un alternativo a tutti i costi, credo che la vita di Rob Halford meriti di essere letta e conosciuta comunque. 

"Ero il vocalist di una delle più grandi metal band esistenti, eppure ero troppo spaventato per dire al mondo di essere gay. La notte me ne stavo a letto sveglio, turbato, a domandarmi:" cosa succederebbe se facessi coming out? ". L'ha fatto e ne è uscito più forte di prima.



6 - l'amorevole devozione con la quale Halford si prende cura di Glenn Tipton, affetto da Parkinson, abbracciandolo e bisbigliandogli frasi d'incoraggiamento, uscito nel gran finale per eseguire Metal Gods e la sempre spassosa Living After Midnight mi ha stretto il cuore. Tipton non riusciva a lanciare i plettri al pubblico a fine concerto, li ha lasciati uno ad uno a un addetto alla sicurezza che ha fatto da tramite dalla sua mano a quelle dei fan.


"In this world we're livin' in we have our share of sorrow, answer now is: don't give in, aim for a new tomorrow"



martedì 2 aprile 2024

TYGERS OF PAN TANG live@Legend Club, Milano, 30 Marzo 2024



Diciamolo: alcuni grandi gruppi della NWOBHM a distanza di più di quarant'anni dalla loro apparizione sono ancora in splendida forma, pur con l'età che avanza, con le immancabili defezioni che la vita porta in conto e con l'inevitabile innesto di nuovi componenti a portare forze nuove. Qualcuno che storce il naso, comunque, c'è sempre: Jacopo Meille prima del concerto mi ha raccontato di quanti non riescano ancora ad accettare che i Tygers Of Pan Tang girino il mondo con questo nome perché è rimasto un solo componente originale."Quanti gruppi possono vantare tutti gli originali in formazione? Forse solo gli U2". 

L'esempio degli ultimi album di Judas Priest e Saxon freschi di pubblicazione le  cantano chiaro alle nuove generazioni, il DNA non mente (il prossimo weekend insieme live a Milano per chi ci sarà), i Tygers Of Pan Tang guidati dal veterano chitarrista Robb Weir, uno che ci crede ancora, si accodano  e confermano il tutto su disco con lo strepitoso Bloodlines uscito l'anno scorso (sapete quei dischi perfetti dove forza e melodia sono incastrate in modo  spettacolare e le canzoni ci sono e funzionano? Eccolo!) e live dove passato e presente si rincorrono senza prevalere l'uno sull'altro.  Jacopo Meille con la sua presenza bluesy, "toscana" e "Plantiana" è in formazione da vent'anni, il terremotante batterista Craig Ellis pure (più Tygers Of Pan Tang di così), i più recenti innesti di Francesco Marras che ha portato il suo funambolico e fresco chitarrismo donando pure un altro pezzetto d'italia alla band britannica (siamo a 2/5) e del basso di Huw Holding, sinonimo di mestiere e solidità d'altri tempi, hanno donato ulteriore vivacità a canzoni entrate di diritto nella storia del metal britannico.

Album come Wild Cat (Euthanasia, Slave To Freedom, Suzie Smiled), Crazy Nights (Do It Good, Love Don't Stay, Running Out Of Time), Spellbound (Gangland, Hellbound) non fanno ombra alle canzoni degli ultimi vent'anni (Destiny, Keeping Me Alive) e dell'ultimo uscito Bloodlines (A New Heartbeat, Fire On The Horizon, Back For Good, Edge Of The World) così come i ricordi del passato non sembrano mettere in ombra una formazione vitale e scalpitante che ha ancora qualcosa da dire. Non c'è traccia di tempi passati, revival e nostalgia ma solo di presente e futuro. Buona cosa per una band nata nel 1978.

Di imminente uscita un nuovo live album ma il consiglio è di passare a vederli per togliersi ogni dubbio.


sabato 9 marzo 2024

DIRTY HONEY live@Alcatraz, Milano, 8 Marzo 2024

 


"Quanti anni avete?": "venticinque". Così due ragazzini a fine concerto tentano l'approccio con due belle fanciulle a cui pure il chitarrista John Notto dei Dirty Honey ha lanciato occhiolini durante tutto il concerto. Ma a colpirmi sono le parole seguenti di uno dei due ragazzini: "bello e strano che così giovani seguiate una band che sul palco suona ancora con gli strumenti!". Era sorpreso lui, pensate io. Non conosco le dinamiche che portano i giovani verso questo tipo di musica al giorno d'oggi (ai miei tempi erano certamente le riviste e lo scambio di cassette) ma l'Alcatraz stasera è pieno (per metà ma va bene così) di ragazzini mischiati a vecchi rocker che ancora hanno voglia di muovere il culo e sudare. A proposito: ecco il motivo (oltre ai prezzi) per cui il concerto dei Black Crowes a teatro non si può vedere e sentire. Puoi mica tornare a casa fresco come una rosa da un concerto rock’n’roll? I californiani Dirty Honey con il secondo disco Can't Find The Brakes hanno alzato l'asticella del sudore e  del groove (la ritmica di Justin Smolian al basso  e del nuovo batterista Jaidon Bean sconfina spesso in quel funky alla Aerosmith anni settanta): poche band oggi suonano rock'n'roll (con striature hard e blues) in modo così fresco ed accattivante, senza soste, guardando certo al passato - entrano sulle note introduttive di Rock’n’Roll Damnation degli Ac Dc, propongono una accattivante e stonesiana Honky Tonk Women in versione Nashville bluegrass - ma con tutto il futuro davanti. Questa l'arma che si giocano.




Il nuovo disco ha giustamente monopolizzato la scaletta rispetto al concerto della scorsa estate a Torino e devo dire che canzoni come Dirty Mind, Don't Put Out The Fire, Roam, Won't Take Me Alive e la ballata acustica Coming Home, durante la quale il cantante Marc LaBelle ha ricordato i suoi trascorsi a Firenze, si sono inserite alla perfezione con le vecchie California Dreamin, Heartbreaker (dedicata a tutte le donne in sala: già era pure l'otto Marzo), Scars e Another Last Time. Proprio durante quest'ultima LaBelle che si è confermato cantante dalla presenza scenica innata e travolgente, un mix tra Steven Tyler e Chris Robinson ma con una personalità unica, si materializza nel lato opposto al palco, in mezzo alla folla e sopra al bancone del bar. Tutti girati mentre la band sul palco suona una delle loro canzoni più easy in grado di arrivare a tutti.

Ma i Dirty Honey non usano colpi di magia che non siano terreni: nessuna scenografia a distogliere lo sguardo ma solo una Les Paul che John Notto imbraccia riportando al vecchio splendore Jimmy Page, Eddie Van Halen, Slash, Joe Perry e Gary Moore contemporaneamente. Come dite? Tutta gente di una certa o passata a miglior vita? Ecco il segreto dei Dirty Honey: il futuro è loro, di tutti i ragazzi presenti all'Alcatraz in un venerdì piovoso di Marzo e di quei vecchi rocker che aborrono la frase "il rock è morto" scritta sui social comodamente da una poltrona di casa da altri anziani come loro. Noi, io.





domenica 4 febbraio 2024

ANANDA MIDA live@Blah Blah, Torino, 3 Febbraio 2024


 

È sempre un piacere vedere i veneti Ananda Mida, collettivo messo in piedi dal co fondatore della GoDownRecords Max Ear che stasera siede dietro la batteria indossando una t shirt degli Mc5 in omaggio a Wayne Kramer scomparso in questi giorni. E si potrebbe partire proprio dalla rivoluzionaria band di Detroit per cercare di spiegare cosa suonino gli Ananda Mida: nei momenti più tirati e rock’n’roll si avverte quell'urgenza garage proto punk che ha fatto scuola. Ma non sono nulla di tutto questo o meglio sono anche questo. I veneti sanno giocare in molti campi spostandosi con disinvoltura dell'hard rock seventies allo stoner, dal blues desertico allungando spesso e volentieri dentro la psichedelia. Rallentamenti e ripartenze che donano dinamicità alle loro canzoni che spesso si trasformano in lunghe jam strumentali. La capacità di mutazione uno dei loro punti di forza. Proprio come succede  nei loro dischi: sul finire del 2023 è uscito Reconciler, il terzo e ultimo capitolo di una trilogia certamente ambiziosa ma perfettamente riuscita. Un plauso al giovane chitarrista Pietro, classe 1999, che ha sostituito Alessandro Tedesco  ma che sembra inserito alla perfezione tra i veterani Davide Bressan (basso) e Pablo Scolaro (chitarra).

E poi c'è il "tedesco" Conny Ochs, voce hard rock alla vecchia maniera nei momenti heavy e da crooner folk (nella sua carriera anche una collaborazione acustica con il mitico Wino) nei momenti meno tirati, uniti a una presenza scenica di alto livello. Se vi capita a tiro una loro data tra live in Italia e all'estero non fateveli sfuggire.




domenica 14 gennaio 2024

WINO live@Circolo Kontiki, Torino, 13 Gennaio 2024



Ci sono presunti eroi che si atteggiano a rockstar e poi c'è Scott WINO Weinrich, un vero eroe in musica e nella vita, che per la seconda volta nel giro di pochi mesi atterra a Torino città. A Giugno arrivò con la sua creatura Obsessed (un nuovo disco è in uscita in questo 2024), questa sera è qui per presentare il film documentario sulla sua folle vita da outsider, loser, gigante, faro, ispirazione, tutto può andar bene ma forse non basta per spiegare uno degli ultimi eroi di una scena musicale. Un monumento del doom, biker e girovago del Maryland, che attraverso Obsessed, Saint Vitus, Spirit Caravan, The Hidden Hand, Shrinebuilder, Probot ha attraversato gli ultimi quarant'anni di palchi, asfalto e qualunque altro ostacolo abbia trovato sul cammino, vite riacciuffate incluse.

A raccontarsi attraverso filmati live d'epoca,  backstage, viaggi on the road, lui stesso, e una pletora di amici e artisti: dagli illustri Henry Rollins (Black Flag) e Ian MacKaye (Fugazi)  al folle Bobby Liebling (Pentagram), da un fan sfegatato come Dave Grohl (Nirvana, Foo Fighters) a Pepper Keenan (C.O.C.) fino a sua madre novantenne.

A fine proiezione un set di quasi un'ora di folk blues acustico, intimo, autobiografico e nero con alcune sue canzoni tratte dal repertorio solista (il suo album Forever Gone del 2020, una pure nuova) più Isolation dei Joy Division e Iron Horse dei Motorhead del suo mentore Lemmy.

Naturalmente alla fine non si è sottratto a firma copie (al banchetto i due dischi degli Spirit Caravan recentemente ristampati) e foto di rito. Certo, fa specie vedere un personaggio come Wino in un piccolo Arci imboscato tra le vie della Vanchiglietta di Torino come fosse l'ultimo degli artisti di quartiere. Ma anche questo è rock’n’roll, pardon: Doom. E a noi piace.





domenica 12 novembre 2023

KARMA live@Spazio 211, Torino, 11 Novembre 2023


Le rimpatriate in stile "compagni di scuola" dopo trent'anni di lontananza spesso si consumano in delusione. Ma ti ricordi come era bella quella lì? Ma cosa le  è successo? E quello? Irriconoscibile senza capelli. Queste le conclusioni più scontate. La musica invece, a volte, fa miracoli e possono succedere cose straordinarie tipo: che i Karma tornino dopo 27 anni di assenza con un disco monstre come K3 e un nuovo tour che ne conferma tutta la bontà.  L'hanno suonato integralmente creando un lungo ponte che dagli anni novanta li ha catapultati nei nostri giorni. Poi nel futuro. E il tempo sembra essersi fermato veramente ma con la maturità acquisita in tutti questi anni: Andrea Viti dall'alto della sua calma Zen è lo stesso motore ritmico di sempre, David Moretti canta e dirige (da art director) con strordinaria presenza scenica e pienezza, Ralph Salati (Destrage) è il chitarrista che in un mese ha imparato le canzoni di tre dischi ed è partito in tour in sostituzione dell'assente Andrea Bacchini, Pacho e Diego Besozzi là dietro creano un muro percussivo che ha pochi eguali, un fiore all'occhiello concesso a pochi.


La seconda tappa del tour, dopo l'esordio sold out in casa della sera prima, al Bloom di Mezzago, con tanto di ospite (Manuel Agnelli), li vede sul piccolo palco dello Spazio 211, locale  che ha vissuto momenti terribili pochi mesi fa ma che oggi è ancora qui, aperto e resistente per ospitarci. La sua chiusura sarebbe stata un fallimento della società tutta e la musica non lo avrebbe certamente meritato.

Se K3 è un disco monolitico e intenso da prendere in blocco seppur ricco di sfumature, contempraneo e per nulla nostalgico, un'ascesa, le sue canzoni ('Neri Relitti', 'Abbandonati A Me', 'Atlante', 'Il Monte Analogo' e 'Eterna' le mie preferite)  vanno a incastrarsi in modo perfetto con il passato, o meglio è K3 che sembra accoglierie e lasciare spazio al resto.

Alle due cover, 'Quello Che Non C'è' degli Afterhours (sbirciando la scaletta prima del concerto qualcuno aveva ipotizzato la presenza di Agnelli anche stasera ma "non possiamo portarcerlo sempre dietro" ha ironizzato Moretti) canzone che Viti contribuì a scrivere durante la sua permanenza nel gruppo di Agnelli, e 'Teardrop' dei Massive Attack, scritta e dedicata a Jeff Buckley, fino alle canzoni dei due storici album degli anni novanta: 'Cosa Resta', 'Terzo Millennio', 'La Terra', 'Jaisalmer' e l'immancabile 'Il Cielo' che fa da sipario e grido di liberazione. Un grido di nuova accoglienza e speranza per il futuro.

I Karma sono tornati. Guardando avanti non c'è più troppo spazio per un'altra lunga assenza, quindi per "restare" è l'imperativo che facciamo nostro. Il pubblico caloroso di questa sera il messaggio l'ha mandato chiaro e preciso. Bentornati. 


RECENSIONE: KARMA - K3 (2023)


domenica 9 luglio 2023

DIRTY HONEY live@Spazio 211 Open Air, Torino, 8 Luglio 2023

Gli attestati di stima che da Los Angeles hanno attraversato l'oceano in pochi mesi con lunghe e ampie falcate, i piccoli record (il primo gruppo senza un contratto discografico a raggiungere la prima posizione nella classifica rock di Billboard con una canzone), l'ascesa irrefrenabile che dai piccoli palchi li hanno portati ad aprire per colossi come The Who, Kiss, Black Crowes e Guns 'N Roses, sono tutti indizi che mi hanno condotto qui questa sera per verificare con i miei occhi ciò che altri  hanno ben raccontato, l'alternativa sarebbe stata Edoardo Bennato poco distante da qui (mi perdonerà Bennato a cui voglio tanto bene): i Dirty Honey sono una delle migliori realtà di hard street rock'n'roll degli ultimi anni, eredi di quella musica tanto sporca quanto melodica che partendo dal blues ha aggiunto kw di chitarre elettriche, attitudine stradaiola e voglia di divertirsi. Perché sì, dopo tutto ci vuole ancora la voglia di divertirsi.

A fare gli onori di casa i torinesi Dobermann con il loro glam metal d'assalto guidati dal veterano Paul Del Bello, voce e basso e dalla chitarra e presenza scenica di Valerio “Ritchie” Mohicano. Alla batteria siede Antonio Burzotta. Set corto il loro ma abbastanza per scaldare e "sparare" il loro hard metal intransigente su un pubblico chiassoso ma che per la verità mi aspettavo ben più numeroso.


La carriera dei Dirty Honey è lunga solamente 54 minuti, tanto è la durata complessiva dell'ep d'esordio e del seguente album del 2021 a cui si aggiungono i tre minuti e quarantasei secondi del nuovo singolo dal contagioso groove 'Won't Take Me Alive' uscito proprio in questi giorni e che anticipa un nuovo album che arriverà. Naturalmente il pezzo è già stato testato sul palco. E funziona.

Sì ok. Ma allora? I Dirty Honey meritano tutta,questa esposizione? Basterebbero la prova del cantante e del chitarrista per rispondere di sì. Marc LabelleJohn Notto sembrano impersonare ancora così bene quelle coppie indissolubili che hanno segnato la storia del rock'n'roll: nel loro DNA ci sono Robert Plant e Jimmy Page, Steven Tyler e Joe Perry, Axl Rose e Slash, David Lee Roth e Eddie Van Halen, Paul Rodgers e Paul Kossoff, i fratelli Robinson dei Black Crowes. Labelle sa come intrattenere il pubblico, spesso cerca il contatto, gioca con l'asta del microfono, ha movenze che mi ricordano Chris Robinson che mi ricorda Rod Stewart e la sua voce ha la giusta sfumatura soul blues per graffiare le anime, Notto è un chitarrista straordinario, solido nei suoi riff e tanto straripante quanto contenuto nei suoi assoli, guardandolo ho rivisto un mix tra Eddie Van Halen e Gary Moore.



Ma sarebbe un grande torto per la visione d' insieme della band non citare lo straordinario lavoro del bassista Justin Smolian e del  batterista Corey Coverstone forse l'uomo più in ombra stasera ma solo per esigenze di palco.

I Dirty Honey sono una grande band che rivisitando la storia dell'hard rock’n’roll sta cercando di mettere la propria impronta con canzoni mai troppo lunghe ma che sanno lasciare il segno: California Dreamin, Gypsy, Heartbreaker, When I'M Gone, Rolling 7s, Scars, Tied Up, The Wire, Another Last Time, l'unica concessione al lento, sembrano già dei piccoli  classici. A cui aggiungono una Let's Go Crazy di Prince. Hard blues, qualche bella tirata funky rock e alcune concessioni southern sono il loro biglietto da visita. I primi Aereosmith il punto di riferimento principale.

Attitudine giusta e movenze sul palco forse già viste ai tempi d'oro della musica ma necessarie per dare quel ricambio generazionale a band storiche che certe cose non riescono più a farle per raggiunti limiti d'età. Sì insomma, negli anni novanta band così erano numerose, forse troppe, oggi teniamociele strette.  Hanno tanta strada davanti e canzoni da scrivere ma sono certo che ne sentiremo parlare ancora e bene perché non hanno trucchi: una chitarra, una voce, un basso e una batteria resteranno per sempre e dovrebbero convincere chi va ancora in giro a dire che il rock è morto. Ho visto tanti giovanissimi stasera davanti alle transenne. Qualcosa vorrà pur dire...