ROBERT FINLEY Goin' Platinum (Easy Eye Sound/ Nonesuch, 2017)
non è mai troppo tardi
A volte abbiamo bisogno delle favole per andare avanti e credere ancora in qualcosa. La musica non è esente, se ben setacciata, anzi, ne è fucina inesauribile. La storia di ROBERT FINLEY non è che una delle ultime favole a lieto fine infarcita di verità e leggende, ricordando da vicino quella di Seasick Steve: un giovane della Louisiana, che a diciannove anni nel 1974 lascia i campi di cotone a Bernice e si arruola nell’esercito americano, unico modo sicuro per poter aiutare economicamente la madre. Con l’esercito arriva in una base americana in Germania e proprio in Europa, in mezzo al dovere (chiamiamolo così) ha modo di sviluppare la sua grande passione per la musica con la band dell’esercito: cresciuto a pane e gospel (a undici anni si comprò la prima chitarra con i soldi che il padre gli diede per un nuovo paio di scarpe), con James Brown, B.B. King e i Temptations in testa. Tornato in Usa dopo il duro lavoro da carpentiere capisce che la sua vera strada è la musica. La strada è però dura e in salita. Fino a due anni fa girava vie secondarie e piccoli locali mentre ora a 64 anni si trova a registrare un disco insieme a Gene Chrisman (Elvis Presley band) e a mostri sacri come Duane Eddy (suo il solo di chitarra in 'You Don't Have To Do Right'), Bobby Woods e la Preservation Hall. Arriva alla musica che conta con GOIN’ PLATINUM! (dopo l’esordio Age Don't Mean a Thing del 2016), il primo disco a uscire per la nuova etichetta di Dan Auberbach, Easy Eye Sound. Già è proprio “prezzemolo” Auberbach a prendere questo vecchio bluesman sotto la sua ala protettrice, invitarlo nel suo mondo, lo stesso che gravitava intorno al suo ultimo album solista (le canzoni sono scritte da lui, John Prine, Nick Love, Pat McLaughlin) e a fargli fare il grande salto. “Ho capito le capacità di Robert di andare oltre le canzoni blues. È un grande chitarrista blues, ma se posa la chitarra e si mette davanti ad una orchestra può diventare come Ray Charles.” Così lo presenta Aurbach. Black Keys meets blues singer, quello che ne esce è un magnetico incrocio tra R&B, swamp blues ('Three Jumpers') retro soul di casa Nashville e il suo è nome Robert Finley (provate il suo falsetto in 'Holy Wine'). Lui è un personaggio, il disco senza un’età apparente è da ascoltare per la varietà stilistiche con cui è stato assemblato. L’ultimo colpo di questo 2017.
A volte abbiamo bisogno delle favole per andare avanti e credere ancora in qualcosa. La musica non è esente, se ben setacciata, anzi, ne è fucina inesauribile. La storia di ROBERT FINLEY non è che una delle ultime favole a lieto fine infarcita di verità e leggende, ricordando da vicino quella di Seasick Steve: un giovane della Louisiana, che a diciannove anni nel 1974 lascia i campi di cotone a Bernice e si arruola nell’esercito americano, unico modo sicuro per poter aiutare economicamente la madre. Con l’esercito arriva in una base americana in Germania e proprio in Europa, in mezzo al dovere (chiamiamolo così) ha modo di sviluppare la sua grande passione per la musica con la band dell’esercito: cresciuto a pane e gospel (a undici anni si comprò la prima chitarra con i soldi che il padre gli diede per un nuovo paio di scarpe), con James Brown, B.B. King e i Temptations in testa. Tornato in Usa dopo il duro lavoro da carpentiere capisce che la sua vera strada è la musica. La strada è però dura e in salita. Fino a due anni fa girava vie secondarie e piccoli locali mentre ora a 64 anni si trova a registrare un disco insieme a Gene Chrisman (Elvis Presley band) e a mostri sacri come Duane Eddy (suo il solo di chitarra in 'You Don't Have To Do Right'), Bobby Woods e la Preservation Hall. Arriva alla musica che conta con GOIN’ PLATINUM! (dopo l’esordio Age Don't Mean a Thing del 2016), il primo disco a uscire per la nuova etichetta di Dan Auberbach, Easy Eye Sound. Già è proprio “prezzemolo” Auberbach a prendere questo vecchio bluesman sotto la sua ala protettrice, invitarlo nel suo mondo, lo stesso che gravitava intorno al suo ultimo album solista (le canzoni sono scritte da lui, John Prine, Nick Love, Pat McLaughlin) e a fargli fare il grande salto. “Ho capito le capacità di Robert di andare oltre le canzoni blues. È un grande chitarrista blues, ma se posa la chitarra e si mette davanti ad una orchestra può diventare come Ray Charles.” Così lo presenta Aurbach. Black Keys meets blues singer, quello che ne esce è un magnetico incrocio tra R&B, swamp blues ('Three Jumpers') retro soul di casa Nashville e il suo è nome Robert Finley (provate il suo falsetto in 'Holy Wine'). Lui è un personaggio, il disco senza un’età apparente è da ascoltare per la varietà stilistiche con cui è stato assemblato. L’ultimo colpo di questo 2017.
Grazie per la segnalazione. Di Auerbach ho sciolto l'ultimo disco solista nel corso dell'estate. L'orecchio e il gusto musicale c'è tutto. Apriamo bene le orecchie e lasciamo scorrere le note di Finley. :)
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