sabato 29 settembre 2018

RECENSIONE: TOM PETTY (An American Treasure)

TOM PETTY An American Treasure (Reprise, 2018)



 “Scrivere canzoni ha a che fare con la magia. È così per tanti lavori creativi, la pittura, il cinema, deve succedere questa cosa intangibile. E andarsela a cercare troppo non è detto che sia una buona idea. Perché sai, l’immaginazione creativa è una cosa timida timida. Ma una volta che l’hai afferrata, puoi lavorare sui pezzi e migliorarla. Una volta che ne hai afferrato l’essenza. Cerchi una parola migliore, un accordo migliore” così TOM PETTY spiegò a Paul Zollo il suo processo creativo. A quasi un anno dalla morte, chi è rimasto cerca di spiegarcelo meglio con AN AMERICAN TREASURE , cofanetto di quattro CD: la moglie Dana, la figlia Adria, il produttore Ryan Ulyate e i fidi compagni di sempre Mike Campbell e Benmont Tench hanno compilato questo percorso di vita in ordine cronologico che forse non è all’altezza del monumentale Playback o del Live Anthology, ma ha dalla sua, purtroppo, la completezza dell’intera carriera.
 Inediti di studio (interessante l’autobiografica ‘Gainesville’, inedito dalle session di ECHO, non l’unica di quel disco cupo e scuro, uno dei vertici dimenticati di un periodo poco felice umanamente ma artisticamente ispirato), versioni alternative di canzoni già conosciute, live version, uno spot pubblicitario radiofonico, demo (‘The Apartment Song’ registrata con Stevie Nicks nel 1984), estratti già conosciuti ma scelti per dare risalto a canzoni
© Joel Bernstein, 1979
importanti ma spesso dimenticate, nelle 63 tracce racchiuse dentro alla copertina creata dall’artista Shepard Fairey su un'immagine di Petty del fotografo Mark Seliger, c’è tanta roba interessante per noi fan orfani. Senza dimenticare un libretto con esaurienti note per ogni canzone e tante foto. Non c’è il Tom Petty più conosciuto, quello dei successi (non dimentichiamo che Greatest Hits rimane il suo disco più venduto in carriera) ma quello nascosto e dimenticato in sala d’incisione, facendo emergere anche sfumature ancora inedite. Una visione totalitaria su un artista che a differenza di altri, fermi al palo della gioventù, era in continua evoluzione.
© Barry Schultz, 1979
Il meglio non sta tutto a inizio carriera ma è ben distribuito lungo tutti i suoi anni, con Wildflowers del 1994 a fare da spartiacque. Petty aveva quarant’anni e fece partire una seconda parte di carriera impeccabile. Non è un caso che la raccolta si concluda con la registrazione live di ‘Hungry No More’ del 2016…Tom Petty e i suoi Heartbreakers erano una macchina da guerra rock’n’roll sempre agguerrita. Lo sono stati fino alla fine. Partendo dalla genesi del primo gruppo Mudcrutch (‘Lost In Your Eyes’ risale al 1974 da un disco abortito) che troveranno la gloria solo negli anni duemila, da una scoppiettante ‘Surrender’ che non trovò posto nel debutto degli Heartbreakers nel 1976 e Benmont Tench non se ne capacita ancora oggi per quella esclusione, da una scintillante ‘Keeping Me Alive’ e da ‘Keep A Little Soul’ tenute fuori da Long After Dark del 1982, da nuove versioni di ‘Louisiana Rain’ (Damn The Torpedo) , di ‘Rebels’ che nella versione inserita su Southern Accents aveva le drum machine, qui no, fino ad arrivare all’ultimo Hypnotic Eye con tre tracce lasciate fuori. Fare un elenco mi sembra cosa abbastanza inutile. Prendetevi del tempo e ripercorrete la carriera da questa inusuale ma curiosa prospettiva scelta da chi ha compilato la raccolta. Sorprende, invece, vedere solo tre outtake da Wildflowers, visto che da anni si parla di un’uscita con molti inediti legati a quell’album. Ma le parole di Tench “abbiamo tagliato un sacco di cose davvero grandiose” sembrano chiare: siamo solo all’inizio. Il tesoro non sta tutto qui.


martedì 25 settembre 2018

recensione: CLUTCH (Book Of Bad Decisions)

CLUTCH   Book Of Bad Decisions (Weathermaker Music, 2018)




 Ai Clutch del music business non è mai importato più di tanto, nonostante un passato con la Atlantic e buoni successi nelle radio di settore americane. Dopo ventotto anni di onorata carriera sono ancora qui, coerenti anche se un po' diversi, a scalciare come ai primi tempi con gli ampli tarati e fumanti, manciate di terra da tirare alle band più imbellettate e la voce da orco del cantante Neil Fallon a declamare i suoi testi. Una menzione la merita la politica ‘How To Shake Hands’ dove rivela la prima cosa che farà quando diventerà presidente degli Stati Uniti d’America : rivelare i nomi di tutti gli UFO e mettere Jimi Hendrix in una banconota da venti dollari. Bene aspetteremo. In eterno credo. BOOK OF BAD DECISIONS registrato a Nashville nel giro di sole tre settimane è decisamente un album di pesante e diretto blues (‘Sonic Consuelor’ e il southern di ‘Hot Bottom Feeder’ ne sono due facce diverse), ma blues come lo intendono dalle parti di Germantown nel Maryland: caricato a dosi di fumante Stoner nell’apertura ‘Gimme The Keys’ con ricordi persi nel loro primissimo tour, impegnato a ripetere la lezione dei papà Black Sabbath nella possente marcia hard di ‘A Good Fire’ , oppure caricato di groove come nella curiosa e riuscitissima incursione nel funk con la trascinante ‘In Walks Barbarella’ e i suoi fiati. ‘Vision Quest’ è un carrarmato in discesa sui tasti di un indiavolato piano honky tonk come se Chuck Berry fosse ritornato per un’ultima jam. Ogni tanto si tira il fiato: in ‘Emily Dickinson’ con un organo Hammond in evidenza , l’assolo di Tim Sult e con un finale a sorpresa e nell’epico, inquietante e fumoso finale ‘Lorelei’ che cresce e finisce con una batteria che rimanda alla guerra di secessione. L’aquila, simbolo degli States, ci mostra spalle e sedere. Qui scopriamo il perché.







mercoledì 19 settembre 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 68: GUY CLARK (Old No1)

GUY CLARK   Old No 1 (1975)




 Con un debutto di questo genere ci campi in eterno. Guy Clark ci arrivò a piccoli passi, passando di città in città (dal natio Texas a Houston, da San Francisco a Los Angeles fino all’approdo in quel di Nashville), esperienze dopo esperienze: dai primi passi nel mondo degli adulti nell’hotel che apparteneva alla nonna a Monahans in Texas, alla prima chitarra ricevuta a sedici anni che gli aprì un nuovo mondo sperimentato con le canzoni in lingua spagnola, fino al lavoro presso un liutaio di chitarre dobro. L’amicizia con Townes Van Zandt, l’incontro con Susanna Talley, artista e musicista, che diventerà sua moglie e musa ispiratrice. Si conobbero nel 72 e non si lasciarono più fino alla morte di lei. Clark fece in tempo a dedicargli il suo ultimo disco, il magnifico My Favorite Picture Of You uscito nel 2013, prima di lasciarci pure lui nel Maggio del 2016 . Intanto in quei primi anni settanta, vagabondando di città in città, metteva via canzoni su canzoni: ‘LA Freeway’ (scritta dopo la deludente parentesi a Los Angeles)e ‘ Desperados Waiting For The Train’ (ecco il romantico fuorilegge ispirato da Jack, il compagno della sua vecchia nonna) finirono nelle mani di Jerry Jeff Walker che ne fece buon uso, altre finirono a Rita Coolidge e Billy Joe Shaver , tra i tanti. Il debutto arrivò tardi ma che debutto! Si riappropriò di alcune di quelle canzoni, già lì pronte solo da registrare. Clark vive ormai in città ma nei testi ci mette tutta la polvere del suo Texas e la vita delle persone più semplici e indifese, trasformando le immagini di vita reale in metafore- Bob Dylan apprezzerà tantissimo-stupende le immagini evocate dalla nostalgica ‘Texas 1947’ in questo senso: i vagabondi (‘Istant Coffee Blues’), le cameriere, le autostoppiste (‘She Ain’t Goin’ Nowhere’), gli ubriachi, gli ultimi, i fuorilegge e i perdenti. Gli amori. Dieci ritratti acustici, dagli arrangiamenti semplici che toccano il country, il folk e l’honky tonk, intimi ma carichi di poesia e malinconia con qualche bello scatto bluegrass (‘A Nickel For The Fiddler’). Intanto ai RCA Studios di Nashville, Tennesse, come la tradizione texana vuole, si riunisce una bella banda di musicisti a dare man forte: dai veterani Johnny Gimble (violino), David Briggs (piano), Chip e Reggie Young (chitarre) agli allora giovanissimi Steve Earle, Rodney Crowell e Emmylou Harris che non potevano avere maestro migliore. E non furono gli unici allievi di un songwriter cardine per tutte le generazioni che verranno.

ph.Jim Mcguire


 


mercoledì 12 settembre 2018

RECENSIONE: ALEJANDRO ESCOVEDO with DON ANTONIO (The Crossing)

ALEJANDRO ESCOVEDO with DON ANTONIO  The Crossing (Yep Roc Records, 2018)







 la miglior risposta a Trump e Salvini
Le grandi rockstar che ci mettono ancora la faccia denunciando in musica i peggiori mali che attanagliano questo mondo allo sbando le contiamo sulle dita di una mano oramai, mentre l’altra è comodamente adagiata in tasca al caldo. Tocca allora a personaggi minori (intendo come successo) quali ALEJANDRO ESCOVEDO segnare la strada e indicare la via. Escovedo lo fa nella maniera più completa e veritiera possibile: prima perché è uno che ha sempre combattuto per ottenere quel che ha raggiunto ora a 66 anni sia nel mondo musicale che nella vita, vincendo tante battaglie, poi perché si lancia in un lungo e ambizioso concept album, vario musicalmente e carico di contenuti. Non è da solo questa volta ma si fa accompagnare da ANTONIO GRAMENTIERI e i suoi DON ANTONIO (Denis Valentini al basso, Matteo Monti alla batteria, Gianni Perinelli, Francesco Valtieri ai fiati e Nicola Peruch alle tastiere) , musicista italiano apprezzatissimo a certe latitudini rock degli Stati Uniti fin dai tempi del suo progetto SACRI CUORI. I due saldano così un’amicizia che li portò a girare insieme in un tour di 35 date in 40 giorni l’anno scorso dopo il bellissimo BORN SOMETHING BEAUTIFUL uscito nel 2016 (“Mi sono innamorato di loro” dice Escovedo parlando di DON ANTONIO). E anche in questo concept, nato e registrato in Italia a Villafranca con il produttore Brian Deck, viaggiano insieme, unendo le loro esperienze da immigrati: un messicano e un italiano (Diego e Salvo) che approdano negli Stati Uniti, in Texas, (si apre il tutto con ‘Andare’)nel nome della musica punk rock alla ricerca dei grandi gruppi come Ramones, MC5, New York Dolls , ad accoglierli invece il razzismo e la discriminazione verso gli immigrati.
Temi caldi sia negli States (ecco ‘Fury & Fire’ un attacco alla politica “alza muri” di Trunp) che in Italia. Dentro alle diciassette tracce tutto l’universo musicale che i due si portano dietro da sempre: tracce tex mex (le forti immagini di confine dipinte in ‘Footsteps In The Shadows’, ‘Texas Is My Mother’), spoken word song (‘Rio Navidad’ scritta da Willy Vlautin e letta da Freddy Trujillo, entrambi dei Richmond Fontaine), tratti swing (‘How many Time’) e jazzati (‘amor Puro) con qualche bella stoccata punk garage con le chitarre taglienti come ai tempi dei Nuns con ‘Outlaw For You’ e ‘Sonica USA’ che vede la partecipazione di WAYNE KRAMER (MC5) e con JAMES WILLIAMSON (The Stooges) in ‘Teenage Luggage’e ballate intense ed evocative come ’Something Blue’. Senza dimenticare la partecipazione di JOE ELY in ‘The Crossing’ e nella sua ‘Silver City’, uno che certi luoghi li conosce a memoria, e di Peter Perrett e John Perry degli The Only Ones, gruppo cult britannico all’opera nei fine settanta, che si riuniscono insieme dopo 40 anni. Con questo disco Escovedo, figlio di immmigrati messicani, scrive su un lato del foglio la sua personale autobiografia, nel retro imprime la radiografia di un mondo ancora troppo impreparato per accogliere ma sempre disponibile nel posare cemento di puro e insensato odio sui mattoni.


ALEJANDRO ESCOVEDO-Born Something Beautiful (2016)

venerdì 7 settembre 2018

RECENSIONE: NOWHERE BROTHERS (Down Life Boulevard)


 NOWHERE BROTHERS  Down Life Boulevard (autoproduzione, 2017)







fratelli si diventa
Basterebbe la bella storia di amicizia che si cela dietro alla realizzazione delle dieci canzoni che compongono il debutto del duo NOWHERE BROTHERS, per capire quanto amore per la musica serpeggi nelle loro vite. Nicola Ventolini (voce e armonica) e Roberto Fiorelli (voce, chitarra, piano e stomp) sono due amici italiani, i percorsi della vita li hanno portati a vivere a molta distanza l’uno dall’...altro: Roberto abita in Arizona, Nicola in Inghilterra. Il punto d’incontro è ben focalizzato in questo disco fatto di poco, registrato a Phoenix con la strumentazione ridotta all’osso, ma ricco di sentimenti e presentato in modo eccellente (testi cantati in inglese con traduzione in italiano nel libretto) e che ha nella canzone 'Nowhere Brothers' che apre il disco il passaporto per l'intero progetto. "Fratello Imbraccia la slide… “ cantano.
Folk americano costruito su chitarre acustiche e slide, armonica, voci e poco altro. Possiamo incontrare lo Springsteen dolente di Nebraska, il folk del primo Dylan, la scena grunge dei 90 nella veste spoglia ed unplugged (Alice In Chains, Eddie Vedder e Mark Lanegan), i songwriter americani di frontiera vecchi (Ry Cooper, Tom Russell, John Hiatt) e più recenti (Ryan Bingham, Thom Chacon). Si calpestano i territori aridi e desertici una volta appartenenti ai nativi americani (‘Stillness’), si respira aria di libertà (‘Bearing Your Name’), c’è il rifiuto verso l’oppressione dell’omologazione imposta dalla società (‘Dustwalker’), la ricerca della pace interiore (‘Peace’). L’estate volge al termine ma credo sia questo il momento migliore per salire in macchina al tramonto, abbassare il finestrino e godersi i 35 minuti di questo prezioso, piccolo disco, andando incontro alla notte e a quella luna che difficilmente si farà prendere-fortunatamente-continuando a farci sognare ancora un po'.






 

martedì 4 settembre 2018

RECENSIONE: MARK LANEGAN/DUKE GARWOOD (With Animals)

MARK LANEGAN/DUKE GARWOOD  With Animals (Heavenly Recordings, 2018)
 
 
 
 
 

il sentiero delle ombre
Quando cinque anni fa uscì Black Pudding il primo disco della coppia Mark Lanegan/Duke Garwood, Lanegan fu molto chiaro nello descrivere il suo nuovo compagno di viaggio britannico, conosciuto nel 2009 : “uno dei miei artisti preferiti e una delle migliori esperienze di registrazione della mia vita." Parole importanti. Da allora i due hanno iniziato una intensa collaborazione sublimata in questo secondo disco. Registrato in analogico su otto piste, WITH ANIMALS segue la scia minimale di quel debutto, riuscendo nell’impossibile impresa di essere ancora più scarno e all’osso ('Lonesome Infidel' è costruita con il nulla) colonna sonora perfetta per un viaggio in solitaria dentro agli abissi della mente umana. Garwood ha condotto la parte musicale composta da chitarre che si adagiano su un tappeto sbiadito di beat e loop elettronici, quasi da battito cardiaco, in un flusso creativo istintivo e solitario (la title track è nata proprio così con Garwood che si allontana dall’umanità per rifugiarsi nel suo io con l’unica presenza degli animali intorno), Lanegan ci ha messo la voce, il malessere e la profondità che si trascina dietro da una vita.
“La nostra musica è istinto, non ne parliamo, la facciamo e basta. Penso che se tu sei in pace col tuo lavoro e lo senti, le cose funzionano, fluiscono, vengono da sé…” dice Garwood.
Sono nate canzoni rarefatte che sembrano uscire da anfratti fumosi (‘My Shadow Life’ dove compare pure un sax) nelle ore più scure, misteriose e silenziose della giornata (‘Save Me’, ‘Ghosts Stories’) quando anche i sentimenti in apparenza più luminosi indossano gli abiti più scuri e iniziano a farsi le domande più inopportune giocando pericolosamente con la morte (‘My Shadow Days’, ‘One Way Glass’). Quando a prevalere è la necessità di redenzione (il folk nero di ‘Upon Doing Something Wrong’).
Sono blues anticonvenzionali, quelli preferiti da Lanegan (‘Spaceman’, ‘LA Blue’) che sublima il tutto nella finale ‘Desert Song’, ballata da crepuscolo da una manciata di minuti che non sembra avere un parola fine, ma prolungarsi in modo infinito tra le terre di Joshua Tree, alla ricerca di una luce salvifica.
 
 
 
 

sabato 1 settembre 2018

RECENSIONE: ALICE IN CHAINS (Rainier Fog)

ALICE IN CHAINS  Rainier Fog (BMG, 2018)







l'ombra scura del monte Rainier
"La nostra musica è un gigantesco ed efficace atto di esorcismo nei confronti di tutto quello che non amiamo o che finirebbe per portarci nella tomba...". Fa un certo effetto rileggere questa dichiarazione estrapolata da una vecchia intervista apparsa su HM nel Marzo del 1993, alla luce di quello che successe il 5 Aprile 2002, quando Layne Staley raggiunse il fondo di quell'abisso che lo accompagnò per tutti i suoi (soli) 35 anni di vita. Qualcosa non deve aver funzionato a dovere. Senza dimenticare le ombre dietro la morte di Mike Starr, deceduto nel 2011.
 Gli Alice In Chains hanno nuotato in acque torbide negli anni novanta, il loro disco di maggior successo commerciale, Dirt (1992), fu la ricetta per esorcizzare tutto ciò, premiato anche dalle vendite, ma nulla potè per depurare l'acqua, che anzi via via si fece sempre più nera e inzaccherata, preferendo seguire il pericoloso percorso scavato dal loro cantante. Gli Alice In Chains di oggi, però, vivono nel presente, Jerry Cantrell continua a ribadirlo a più riprese: non amano girarsi troppo indietro e già lo hanno dimostrato con i precedenti Black Gives Way To Blue e The Devil Put Dinosaurs Here. Continuano a camminare per la loro strada, lasciando ai critici il compito di nominare il nome di Layne Staley una volta su tre in cerca di paragoni (impossibili e deleteri). C'è la voglia di sotterrare i ricordi negativi (quelli pesanti, vissuti in prima persona) ma c'è anche la difficoltà nel farlo completamente; quelli che hanno segnato profondamente le liriche rimangono a dare l'imprinting della loro musica, lasciando solamente alle canzoni il compito di parlare, un po' come se la copertina di Dirt rappresentasse il loro status odierno: un po' dentro, un po' fuori da quelle sabbie. William DuVall, poi, mi sta simpatico a pelle, si sta dimostrando un cantante-e chitarrista-con una personalità propria e vincente, capace di tenersi alla larga dai possibili paragoni con l'illustre, inarrivabile, e maledetto predecessore, anche se gli spazi sembra che debba guadagnarseli con il tempo e le unghie ben affilate. E questo è il momento giusto. E sappiamo tutti quanto il cambio del cantante in una band sia sempre faccenda delicata, costruita su complessi equilibri interpersonali. La verità è che la band di Seattle sembra molto compatta oggi come allora (sempre con Mike Inez al basso e Sean Kinney alla batteria), complice la maturità e l'esperienza.
RAINIER FOG è un disco monolitico, forse il punto più alto di questa seconda vita della band, registrato nuovamente a Seattle, i 4000 metri del monte Rainier, di origine vulcanica a dominare lo stato di Washington, è lì a ribadirlo, un ritorno a registrare nella loro città dopo più di vent'anni. Cantrell guida le danze fin dall’apertura ‘The One You Know’, un gigantesco, marziale e cadenzato riff per ribadire e certificare che il sound è quello di sempre, riff grossi legati con spesse catene al doom sabbathiano in ‘Drone’ e ‘So Far Under’, aperture lisergiche come avviene in ‘Red Giant’ e ‘Deaf Ears Blind Eyes’, mentre ‘Rainer Fog’ e ‘Never Fade’ possiedono il groove e l’immediatezza dei giorni della gioventù. Non mancano le caratteristiche armonie vocali che li hanno resi unici e inimitabili nel panorama dei ‘90 e alcuni momenti più ariosi come ‘Fly’ e l’acustica ‘Maybe’, in queste cose sono sempre stati dei fuoriclasse e dei precursori alle loro latitudini, che portano al finale struggente di ‘All I Am’, sette minuti che lasciano il segno in profondità. E se in alcuni passaggi sentirete odore di Deja Vu, chiamatelo trade mark e il problema è risolto. Cantrell dice: “è un disco che ha tutti gli elementi di qualsiasi cosa ti aspetti da noi. Ha la nostra impronta digitale”. Amen.