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sabato 5 ottobre 2024
RECENSIONE: THE CROWSROADS (Spaceship)
lunedì 12 agosto 2024
RECENSIONE: CEK & THE STOMPERS (Mr. Red)
CEK & THE STOMPERS Mr. Red (Gulf Coast Records, 2024)
salto americano
Il Cek (Andrea Franceschetti) ha iniziato il tour per presentare il nuovo album Mr. Red nel biellese, aprendo per la Fabio Treves Band. E io non c'ero, quella sera ero emigrato in quel di Torino ma sempre per la buona causa musicale. Peccato: per una volta che lo avevo sotto casa...
Discograficamente lo avevo invece lasciato sulle rive del suo lago d'Iseo sulle sponde di Pisogne, paese che lo ha visto crescere, l'ultimo che si specchia sul lago prima di salire in Valcamonica. Era in attesa dell'arrivo della Sarneghera, tempesta che nelle giornate estive porta scompiglio e che diede il titolo all' ultimo album Sarneghera Stomp uscito nel 2021. Un disco segnato fortemente dalle cicatrici (anche personali) lasciate dal lockdown.
Lo ritroviamo tre anni dopo con un progetto completamente diverso, quasi corale, che si avvale dell'aiuto dei suoi Stompers formati da Luca Manenti (chitarre, mandolino e co autore di dieci pezzi insieme a lui), Pietro Ettore Gozzini dai Slick Steve and The Gangsters (contrabbasso), Federica Zanotti (percussioni) e Andrea Corvaglia dei Crowroads (armonica), l'aiuto di Annalisa G. Favero ai cori e della cantautrice, amica e conterranea Laura Domeneghini, autrice di 'Please Me'. L'altra cover è 'Thirteen Days' di JJ Cale che chiude il disco registrato ai Poddighe Studio di Brescia, saga sulla vita on the road dei musicisti e arrangiata in linea con lo stile molto roots che aleggia su tutto il disco.
L'importante firma per l'etichetta americana Gulf Coast Records, prima band europea a entrare nel rooster, con una distribuzione che coprirà anche l'America naturalmente è solo uno dei tanti pregi di cui si fregia questo disco.
L'album Mr. Red prende il titolo dall'omonima canzone, un veloce blues'n'roll, dedicata a Lousiana Red, bluesman e chitarrista americano scomparso nel 2012, vero mago della slide che visse una buona parte degli ultimi suoi anni in Germania. Molti tour in Europa e in Italia quindi e proprio durante questi viaggi di città in città che il Cek ebbe modo di incontrarlo e passarci molto tempo insieme. La canzone è un po' un diario di quegli incontri ricchi di scambi musicali.
Uno dei dischi più vari della sua carriera, ricco di sfumature musicali come insegnato da Ry Cooder, dal blues dell'iniziale 'The Peach And The Snake' e di 'Seventh Heaven', alle atmosfere autunnali che accompagnano 'The Heat' a quelle irish che soffiano dentro 'Fairy Tales', al contrasto vincente che contrappone l'elettrica 'Once Upon A Time In The South' alla folkie e solitaria 'Going To The Circus'.
C'è poi 'Juanita', storia di un ragazzo innamorato del blues che molla tutto e va nel sud degli Stari Uniti, a New Orleans, per realizzare il suo sogno: finirà in Spagna, innamorato, dove sposerà la sua Juanita. Storia che accomuna.
Storpiando un vecchio detto possiamo dire "non si possono insegnare nuovi trucchi a un vecchio bluesman", e il Cek raggiunta la mezza età è a tutti gli effetti uno dei migliori alfieri del blues italiano che potrebbe insegnare un po' di cose a tanta gente. Sempre unico e inimitabile.
mercoledì 10 luglio 2024
RECENSIONE: LIFE IN THE WOODS (Looking For Gold)
LIFE IN THE WOODS Looking For Gold (Moletto/Universal, 2024)
born in Italy
Ache l'Italia ha i suoi Rival Sons! Detta così potrebbe essere una boutade pretenziosa che sa di revival del revival. Fermi tutti: il trio romano composto da Logan Ross (chitarra e voce), Frank Lucchetti (basso) e Tomasch Tanzilli (batteria) è al momento la miglior band di classic rock italiana così come i californiani lo sono a livello mondiale ormai. La partita è per ora chiusa.
Esordirono nel 2019 con Blue prodotti da Gianni Maroccolo che col senno di poi si può dire abbia visto giusto e lungo. La pandemia non aiutò certo quel disco fatto di poche canzoni a raggiungere il grande pubblico anche se chi doveva accorgersi del loro talento l'ha fatto: critici e colleghi musicisti con più anni alle spalle avevano alzato le antenne di fronte al trio romano.
Ora è arrivato il momento che tutti si accorgano di loro. Eccoli qua con un disco d'esordio fresco, elettrico ma anche crepuscolare e poetico, appassionato e genuino che raccoglie tutto il meglio del passato per sputarlo fuori in forma alquanto attuale, moderna e internazionale. Quello che sorprende di più è proprio la capacità di rendere fresche e contemporanee canzoni con un DNA attaccato al collo che pesca nel pozzo quasi ottuagenario del rock'n'roll tutto.
Il "One, two, three, four" che apre 'Caravan' e il disco sono i numeri che trascinano l'hard rock in questo 2024 con convinzione da veterani (e loro sono giovanissimi), 'Trick Man' abbassa i toni addentrandosi nel soul, 'Nothing Is' rende doveroso pegno al vecchio blues, 'Mad Driver' è una dinamitarda fast song che sembra esulare dal resto ma ha il compito di dividere il disco mostrando il lato più diretto e selvaggio, in netto contrasto con la epica coralità della title track che vede la partecipazione del soprano Olivia Calò e i momenti acustici come 'Without A Name', americana nel suono, e 'Hey Blue' dal sapore più british.
E poi una canzone come 'Fistful Of Stones' non è da tutti: Logan Ross unisce in un solo colpo Jeff Buckley e Robert Plant, avvicinandosi in modo impressionante alla voce di Jay Buchanan dei Rival Sons e il suono hard rock dei seventies porge la mano al grunge degli anni novanta.
Non hanno il look stereotipato di chi cerca di emulare le grandi rockstar del passato, il disco è confezionato nei minimi dettagli e avvolto dentro all'evocativo disegno di copertina creato dall'artista Mark Kostabi (Guns N'Roses, Ramones). Insomma tutte le prerogative per fare il botto anche fuori dall'Italia anche se sarebbe molto bello se i Life In The Woods aprissero veramente le porte del vero rock nel nostro paese, cosa che si pensò potesse avvenire con il successo planetario dei Maneskin poi rivelatasi più facciata che sostanza. Qui di sostanza c'è n'è da vendere: la finale 'Manifesto' basti per avvalorare questa tesi...pardon: verità.
giovedì 4 aprile 2024
RECENSIONE: ANDREA VAN CLEEF & The Black Jack Conspiracy (Horse Latitudes)
ANDREA VAN CLEEF & The Black Jack Conspiracy Horse Latitudes (Rivertale Productions, 2024)
cavalcate in libertà
Mi perdonerà Andrea se oso mettere in pubblica piazza un argomento su cui si discuteva qualche mese fa in chat e sui cui entrambi eravamo d'accordo: certo giornalismo musicale degli anni settanta e ottanta ha creato barriere e paraocchi negli ascoltatori più che aprire menti e stimolare orecchie. Quando da uomo di valle sbarcai a Brescia quasi dieci anni fa, uno dei primi concerti che vidi in città fu quello di Andrea Van Cleef con il suo defunto progetto Van Cleef Continental: un concentrato di stoner pesante che sapeva aprirsi verso territori prog e psichedelici. Con il trascorrere degli anni ho capito quanto la curiosità musicale di Andrea invece (figlia degli anni novanta) gli abbia permesso di viaggiare, suonare e incidere in totale libertà ciò che più gradiva sul momento in base all'ispirazione. Eccolo così cantare e suonare la chitarra nei bergamaschi Humulus, band stoner con un buon seguito in Europa (recentemente ha lasciato la band), eccolo con i suoi tanti progetti solistici, partendo dal folk psichedelico di Sundog, passando dal precedente e vario Tropic Of Nowhere (2018) e poi i suoi tanti omaggi alla musica, tra tutti quello dedicato ai Morphine, insieme ad altri musicisti bresciani, che ogni tanto rispolvera dalla naftalina e porta sopra a un palco. E proprio dalla fine di questo nuovo disco vorrei partire: la traccia finale 'The Real Stranger', con i suoi sette minuti la più lunga del disco, vede proprio ospite Dana Colley, sassofonista della inimitabile band americana capitanata dal compianto Mark Sandman.
È un disco, il suo primo senza chitarre elettriche, che all'ascolto potrebbe dividersi in tre atti: una prima parte legata in modo indissolubile al country americano, c'è molto di Johnny Cash in tracce come 'The Longest Song' e 'Love Is Lovely' dove la voce profonda viene doppiata da una voce femminile quasi a ricreare il connubio Cash- June Carter, ma scava ancora più in profondità serpeggiando tra i fantasmi e i simbolismi che popolano certa letteratura gotica a stelle e strisce e al fantasma più terreno di Mark Lanegan nell'iniziale e primo singolo 'A Horse Naned Cain' e in 'Arrows'.
In mezzo due tracce più ritmate come 'Thing', doo-wop non troppo distante dell'approccio su cui Dan Auerbach ha incanalato i suoi Black Keys e 'Oh La La', l'unica cover del disco, canzone dei Faces che ai tempi perfino Rod Stewart si rifiutò di cantare, salvo poi farla sua da solista, lasciando l'incombenza a Ron Wood che se la cavò alla grande. Andrea non solo la canta ma riesce anche a vestirla con i suoi abiti.
Se 'Fires In My Bones' è un folk con strumenti a corda e violino che conducono verso terre irlandesi, il finale del disco sembra allargare gli orizzonti sonori verso soluzioni più ardite: prima con 'Come Home' che assume quelle trame cupe e misteriose che Daniel Lanois imbastì per Oh Mercy' di Bob Dylan, poi con 'The 'Disappearing Child' che avanza in un crescendo quasi orchestrale che mi ha ricordato certe composizioni di Glen Campbell (di rimando anche Western Stars di Bruce Springsteen) per poi concludersi con la già citata 'The Real Stranger' dove contrabbasso e percussioni preparano l'entrata in scena del sax di Colley che si prende tutta la scena. Canzone dalla grande atmosfera e degna chiusura di un disco dal fascino oscuro, misterioso, avvolgente, dai tratti filmici e dal carattere ben preciso.
Registrato tra lo Studio Rick Del Castillo in Texas dove hanno suonato ospiti come Matthew Smith, Haydn Vitera, Jason Murdy e il Buca Recording Studio di Montichiari con Simone Piccinelli in prima linea e una lunga schiera di musicisti bresciani: Ottavia Brown, Pietro Gozzini, Simone Grazioli, Simone Helgast, Giulia Mabellini, Matteo Rossetti.
L'altra sera ero a vedere Steve Wynn quando un amico particolarmente curioso mi ha chiesto quale fosse l'ultimo disco da me ascoltato: consigliandolo, gli ho risposto questo, in macchina, durante il tragitto verso Torino. Consiglio che allargo anche a tutti voi, naturalmente.
mercoledì 3 aprile 2024
RECENSIONE: LITTLE ALBERT (The Road Not Taken)
LITTLE ALBERT The Road Not Taken (Virgin/Universal, 2024)
blues again
Che i Messa siano una delle rock band italiane più interessanti apparse negli ultimi anni è ormai un dato di fatto assodato: parlano chiaro i loro dischi, i loro concerti, i loro tour negli Stati Uniti (la foto di copertina scattata in Arizona) e le presenze ai maggiori festival europei. Alberto Piccolo della band veneta è il chitarrista (qui anche voce) e per la seconda volta si concede l'uscita solistica sotto il nome, non troppo camuffato, di Little Albert. Ha firmato per la prestigiosa Virgin e fatto uscire questo The Road Not Taken riprendendo quella strada blues iniziata quattro anni fa con il precedente Swamp King ma che di fatto ha iniziato a percorrere appena ha preso una chitarra in mano quando in casa giravano i dischi dei Led Zeppelin. Qualcosa che ha dentro, si sente e lo si capisce guardandolo sopra a un palco.
Ad accompagnarlo la batteria di Diego Dal Bon e il basso di Alex Fernet, più l'aiuto nella stesura dei testi della compagna di band nei Messa Sara Bianchin. Registrato alla vecchia maniera all'Outside Inside Studio insieme a Matteo Bordin.
Un disco blues che pare uscito tra i fine anni sessanta e i primi settanta: qui si parla la lingua dei Cream, dei Led Zeppelin, dei Ten Years After, Johnny Winter, Blue Cheer, Black Sabbath, Hendrix e Steve Ray Vaughan, più tutti i padri neri naturalmente, aggiungendo quel tocco personale derivante dai suoi studi jazz.
Se l'iniziale 'Still Alive' tradisce l'amore per l'hard blues hendrixiano e lo stoner, proseguendo le cose si fanno via via sempre più interessanti e complicate. 'Demon Woman' batte territori da "dirigibile" inseguendo Jimmy Page (tornato in auge sulla bocca di tutti, se mai qualcuno l'abbia dimenticato, dopo il film al cinema dei Led Zeppelin dove pare un extraterrestre non replicabile), 'See My Love Coming Home' è lenta come il più nero sabbath con il bel solo finale, ' Hiding All My Love Away' e 'Magic Carpet Ride' volano alte di psichedelia e prog, 'Blue And Lonesome' di Little Walter è l'unica cover, fino ad arrivare a 'This House Ain't No Home', la mia preferita, dinamica, prova di squadra per power trio, con i suoi cambi di tempo, soffusa pronta ad esplodere con la lunga jam finale che passa dal jazz, altro suo grande amore. Alberto è uno dei migliori chitarristi italiani degli ultimi dieci anni: tecnico ma anche pieno di passione, non aggiunge mai troppo, fa il giusto, lasciando spazio alla composizione. Trentasei minuti che volano, con la non scontata bravura di lasciare il suo personale tocco in un genere destinato all'eternità.
mercoledì 1 novembre 2023
RECENSIONE: KARMA (K3)
KARMA K3 (Vrec, 2023)
il ritorno
I Karma furono un sogno lisergico durato il giro di due soli dischi, anche se Fabrizio Rioda (chitarrista dei Ritmo Tribale e produttore) ricordo che qualche tempo fa in un vecchio post su facebook confessò che in mezzo ci sarebbe dovuto essere un terzo disco registrato addirittura tra i deserti del Mojave, con canzoni poi disperse da sabbia e vento chissà dove.
Proprio intorno ai Jungle Sound di Rioda a Milano, i Karma fecero nascere i loro dischi. All'inizio c'era l'amore di David Moretti (voce e chitarra), Andrea Viti (basso), Andrea Bacchini (chitarre), Diego Besozzi (batteria) e Alessandro Pacho Rossi (percussioni)per la psichedelia tardi anni 60, i Pink Floyd, i Led Zeppelin, Jimi Hendrix, in quegli anni novanta si inbastardì con il grande fermento musicale proveniente da oltreoceano, il grunge di Alice in Chains, lo stoner dei Kyuss. Aggiungete un amore incondizionato per l'oriente e i suoi ritmi spirituali e otterrete un suono che pochi avevano in Italia in quel preciso momento. E quell'adesivo "grunge all'italiana" andava loro perfin troppo stretto, nonostante la scelta di cantare in italiano faccia loro onore.
Per questo il rimpianto per un'avventura di così breve durata fu tanto, almeno fino a quando, in tempi di lockdown, iniziarono a girare le prime indiscrezioni su qualcosa che si stava muovendo.
E pensare che Moretti e Viti ci riprovarono nel 2007 con il progetto, desertico e stoner, Juan Mordecai, ma anche quello fu archiviato e dimenticato in fretta.
Karma (1994) e Astronotus (1996) sono dischi nati dalle lunghe jam notturne ai Jungle Sound di Milano, una comune musicale più unica che rara in quegli anni, frequentata da Afterhours (ecco Manuel Agnelli ospite in 'Nascondimi'), Ritmo Tribale (ecco Andrea Scaglia ospite in 'Una Stella Che Cade') , Casino Royale, Scisma, La Crus. Mentre nel debutto ci sono ancora le terrose radici rock che però piano piano si stavano arrampicando verso il cielo, nel secondo iniziarono un viaggio liquido, stellare, inafferrabile e alquanto affascinante. Un grande cerchio che sembrava chiuso ma che oggi a distanza di 26 anni si riapre e sembra proprio riprendere da quel 1996 aggiungendo alle già note influenze almeno un altro quarto di secolo di musica assorbita (Tool, Radiohead, Porcupine Tree, Opeth e Sigur Ros), masticata e riscritta come pochi in Italia stanno facendo ora.
David Moretti che ormai vive negli Stati Uniti da molti anni pesca dall'alta letteratura e dalle suggestioni della natura gli spunti per i suoi testi incastonati dentro un flusso di coscienza musicale a cui piace giocare in continuazione con sali e scendi emozionali fatti di liquidità (Luce Esatta) ed esplosioni elettriche (Corda Di Parole). Registrato tra la California e le Officine Meccaniche di Mauro Pagani a Milano, K3 è un lavoro di una intensità quasi devastante, di rinascita (Neri Relitti), di poetica lucidità romantica (Abbandonati A Me), tribalità primordiale (K3), profondità abissale (Atlante) e scalate elettriche in cielo (Il Monte Analogo). Un disco che segue un suo corso, un cammino che lo porta a un finale esaltante scritto in canzoni come Ophelia ed Eterna, undici minuti ricchi, avvolgenti, drammatici, psichedelici, temprati. "Gambe e polmoni". Anticipazione di quello che ci aspetta nell'imminente tour.
Se negli anni novanta i Karma erano una delle band di una scena fiorente e numerosa che ha lasciato musica e ricordi indelebili, oggi sono una mosca bianca, rara, da proteggere e accudire, sperando non sfugga via ancora una volta per altri decenni in cerca di libertà e nuove ispirazioni. Se sarà così l'aspetteremo ancora una volta, intanto godiamoci questo sorprendente presente.
Tra i miei dischi italiani dell'anno.
domenica 24 settembre 2023
RECENSIONE: RUDY MARRA & the M.O.B. ft. Dana Colley (Morfina)
RUDY MARRA & the M.O.B. ft. Dana Colley Morfina (Viceversa Records, 2023)
effimera come la morfina
A più di trent'anni da quella sua apparizione al festival di Sanremo del 1991 dove venne subito eliminato nella categoria "esordienti" presentando la canzone Gaetano (ma vinse il premio della critica), Rudy Marra è tornato quest'anno con il suo quinto disco in carriera, l'ultimo fu Sono Un Genio Ma Non Lo Dimostro datato 2007.
In quel lontano Sanremo interruppe il presentatore con un "lasciami cantare che è meglio" mettendo subito in chiaro le cose. Dritto al punto.
Marra è uno che fa uscire dischi solamente quando ha veramente qualcosa da sputare fuori (quando non escono dischi scrive anche libri), non certo schiavo delle mode o della frenesia del mercato discografico o di quel che è rimasto per chiamarlo ancora così. Un cane sciolto che si aggira beffardo tra la musica d'autore italiana lasciando morsi, graffi e qualche acida pisciata disturbante al suo passaggio. Un cantautore per chi ha voglia di uscire dai soliti binari preconfezionati da case discografiche e mass media.
Morfina è un concept album che rinsalda la sua collaborazione con Dana Colley e tutto l'amore per i Morphine, celebrati sia nel titolo dell'album (che in verità prende il nome dal romanzo di Bulgakov) sia con ben due cover (Thurday che diventa Corde e Let’s Take A Trip Together riadattata in Su e Giù) più una composizione che vede come protagonisti nel testo Mark Sandman, compianto leader dei Morphine e la sua compagna Sabine Herechdakian (Mark & Sabine).
Canzoni appuntate come pagine di un diario, dove male e bene, buono, cattivo, salute, malattia, sano e guasto lottano eternamente per prevalere nel cammino della vita, quella lunga parentesi (a volte pure breve), imbastita su tante scelte giuste e molte sbagliate nel tentativo di catturare quella felicità che lo stesso Marra sostiene "effimera come la morfina". Blues scarni e all'osso (l'ipnotica Amore Sexy, la più movimentata e di denuncia Voglio il Lavoro), carichi di beffarda ironia (Di Mercoledì), smussati negli spigoli dalla presenza del sax di Colley che serpeggia con disinvoltura tra le parole in canzoni che sfiorano il jazz (Sto Perdendo Tempo), il funk (Oggi Sto Guasto) e con dediche al suo Salento (Filare De Tabbaccu). Tra le sedici canzoni spuntano anche altre due cover rifatte in modo personale: la strumentale Obscured By Clouds dei Pink Floyd e una Diesel, rallentata e fumosa, di Eugenio Finardi con lo stesso autore ospite.
Tra le migliori uscite italiane di questo 2023 ma pochi ancora lo sanno.
giovedì 4 maggio 2023
RECENSIONE: LUCIO CORSI (La Gente Che Sogna)
LUCIO CORSI La Gente Che Sogna (Piccica Dischi/Sugar, 2023)
l'ultimo alieno
Anni fa quando volevo sentirmi meno anziano di quello che già ero (ora lo sono certamente) abbassavo il volume di quel vecchio disco di Bob Dylan and The Band che stava girando, prendevo il cellulare e mi mettevo ad ascoltare le nuove tendenze musicali e gli artisti in voga tra i giovani e i giovanissimi. Così a caso. Finiva spesso che l'ascolto della canzone non durasse più di trenta secondi. Avanti un altro. Sì sono vecchio!
In un'epoca in cui gran parte di ciò che gira intorno alla giovane musica italiana sembra già essere omologato e pure un po' ripetitivo, ben venga allora un giovane, che poi ha trent'anni anche se fisicamente ne dimostra sedici, come LUCIO CORSI, cantautore toscano, figlio un artigiano, dal modo di pensare "antico" quanto me, pure di più, naïf, così distante da talent show, trap e cantautorato indie da sembrare un alieno degli anni settanta capitato per caso nei duemila. Capita così che oggi, per essere alternativo all'alternativa bisogna rivangare nel passato. E lui lo fa molto bene. In casa Corsi hanno girato buoni dischi, lo si capisce subito. Dice di amare Randy Newman, il glam rock, Marc Bolan, Electric Light Orchestra e Paolo Conte. Io ci sento pure Ivan Graziani. Ah pure lui lo ama e lo ringrazia nei credit. Il suo sogno nel cassetto (irrealizzabile) sarebbe suonare con The Band. The Band. Capito?
Ama gli animali (tanto da dedicare loro tutte le canzoni del suo primo disco), la natura, la campagna, l'arte visiva (i suoi video sono dei piccoli corti). Le sue canzoni sono ironiche, piene di colori, avventurose, visionarie e sfuggenti quasi come il vecchio prog che intasava le classifiche italiane negli anni settanta. È uscito ora il suo quarto disco La Gente Che Sogna, scritto tra la Maremma e Milano, in copertina un dipinto della madre ed è composto da nove canzoni e "1425 parole" come ama precisare lui.
Un viaggio, un sogno, un desiderio che si muove tra terra e cielo, tra fantasia e realtà, tra onde radiofoniche provenienti dallo spazio ('Radio Mayday'), 'Astronavi Giradisco', irresistibili boogie rock tra Marc Bolan e Rocky Horror Picture Show, ballate che crescono sulle note di archi ('Orme). Ballate sui tasti di un pianoforte ('La Gente Che Sogna'), pop swing elettrici che riportano alla mente Faust'O e il primo Renato Zero ('La Bocca Della Verità), rock'n'roll con un riff sentito mille volte ma che possiede quella grandeur da E Street Band che accompagna Meat Loaf.
"Basta credere agli occhi, anche quando si chiudono" canta nella finale 'Un Altro Mondo' con quella chitarra così seventies che più seventies non si può.
Ecco, ora ho solo un interrogativo: è meglio che Lucio Corsi rimanga così, puro e innocente per le orecchie di pochi o sarebbe meglio augurargli tutto il successo di questo mondo perché se lo merita? Con eventuali posdibili conseguenze che conosciamo.
Intanto gli auguro di continuare a suonare con questa leggerezza dove cantautorato e glam rock volano nel cielo che è una meraviglia.
martedì 11 aprile 2023
RECENSIONE: TIJUANA HORROR CLUB (Tales Of A Sinnerman)
TIJUANA HORROR CLUB Tales Of A Sinnerman (2023)
scagliate la prima pietra
Una volta (ecco: parlo già da neo cinquantenne) la prima cosa che colpiva in un disco era la copertina. Quanti dischi avete comprato o lasciato dov'erano per colpa delle copertine? Ora viaggia tutto sui singoli ascolti e se le canzoni non sono raggruppate sotto a una foto o un disegno sembra importare a pochi.
I bresciani e camuni TIJUANA HORROR CLUB pur ancora giovani (è sempre il vostro cinquantenne che vi scrive) hanno "l'antico" dentro e radicato nel profondo per cui ci tengono ancora a presentare la loro musica con qualcosa ad effetto: dopo gli "affetti" personali del loro svuota tasche che riempivano lo spazio del precedente album Naked Truth uscito nel 2020, proprio a ridosso della pandemia e del lockdown (che io ricordi furono i primi a suonare un concerto in diretta streaming), questa volta rovistano ancora più indietro nel tempo pescando un vecchio quadro "il moschettiere addormentato" di Francesco Domenighini, pittore camuno di fine 800. Del perché il moschettiere si sia addormentato si possono azzardare tante ipotesi ma ne sono quasi certo: è stordito per aver peccato e abusato dei piaceri della vita.
Già, quella vita a cui andiamo incontro alla nascita senza sapere nulla tanto che firmare un contratto a inizio vita potrebbe essere necessario come cantano nella iniziale dal tiro psychobilly 'Life '(Terms And Conditions)' uscita quasi un anno fa. I Tijuana Horror Club continuano a mischiare con sapienza antichi ingredienti musicali come rock'n'roll, blues e swing, componendo canzoni dal tiro rock blues micidiale come 'Mandatory Love Song', 'On The Reef' e 'All Work And No Party' con la batteria di Mattia Bertolassi e il basso di Davide Rudelli in grande spolvero,
non così distanti dai più "vicini" e attuali Black Keys a soluzioni musicali che intrecciano peccato e redenzione, il Tom Waits più orco e spregiudicato e lo Screaming Jay Hawkins più malefico (la voce del cantante e chitarrista Joey Gaibina è sempre malvagiamente cavernosa) come avviene nella ballata nera 'All Fake', in 'Jesus Made Me A Sinnerman' con quelle tastiere vintage suonate da Alberto Ferrari in grado di portare le lancette indietro di qualche decennio, nel giro funky soul di 'The Shy Bragger (Get Up And Boogie)', nella veloce e contagiosa 'The Rebound Blues' o nella finale 'Silver And Gold' un lento giro di valzer guidato dal pianoforte che ci congeda consegnandoci nelle mani della notte.
Prodotto dell'esperto Ronnie Amighetti, Tales Of A Sinnerman è un disco, come tutti quelli della band bresciana, che non ha tempo, e scadenze: tra cento anni ci saranno ancora tanti racconti di peccatori da tramandare ai posteri e il blues non ha avrà certamente finito di ardere dalle parti di Brescia, ancora isola felice per un certo modo di intendere e vivere la musica. I Tijuana Horror Club sono uno dei tanti esempi, certamente tra i più originali nel loro essere totalmente demodè.
sabato 11 febbraio 2023
RECENSIONE: CARLO LANCINI & ELISA MARIANI (Alive & Well)
CARLO LANCINI & ELISA MARIANI Alive & Well (2022)
strade positive
Ho conosciuto Carlo ai tempi dei Mojo Filter, band lombarda che si cimentava in un classic rock a tinte hard, southern blues totalmente devoto ai seventies e che ebbe modo di mettersi in mostra aprendo per alcuni grandi nomi americani ( Willie Nile, North Misssissippi All Stars). Ci siamo pure incrociati un paio di volte in qualche concerto dei nostri idoli musicali (Calexico e Ryan Adams se ricordo bene), l'ho seguito nei suoi altri vari progetti musicali e collaborazioni (i più duri Stone Garden). Un chitarrista e autore che lavora sempre bene e sodo, lontano dalle grandi luci, ma con la grande passione che pulsa e pompa rock’n’roll e derivati. Ora rieccolo con un nuovo progetto figlio dei precedenti Godspell Twins ma questa volta ci mette il nome in copertina condividendolo con la brava Elisa Mariani al microfono. Alive & Well è un disco caldo, carico di calore rock (la bella apertura 'Time To Go' sembra bussare alla porta degli Stones, 'Gypsy Dancer' è la più movimentata del disco), di blues ('Flowers From A Stone' mi ha ricordato i Dr.Feelgood di Wilko Johnson, pace all'anima sua), di R&B ('Rock Me Off'), southern rock ('Sugar Mama' con la bella prova vocale di Elisa), country con la ballata finale 'April'.
Suonato e registrato benissimo insieme a un ben nutrito gruppo di amici tra cui spiccano certamente Jono Manson, cantautore e produttore di Santa Fe ormai di casa in Italia che lascia la sua voce nella tambureggiante e psichedelica 'Love Revolution' che mi ha ricordato i Crazy Horse, il sax di Pasquale Brolis e la chitarra di Stefano Galli.
In scaletta anche due cover: 'The Letter' dei Box Tops e 'Angel From Montgomery' di John Prine, una delle sue canzoni più saccheggiate. Ta le versioni più famose da ricordare quella di Bonnie Raitt, fresca vincitrice di un Grammy. La cantautrice disse che quella canzone di Prine le cambiò la vita, ecco: spero possa succedere qualcosa di simile anche a Carlo e Elisa.
lunedì 2 gennaio 2023
RECENSIONE: MESSA (Close)
MESSA Close (Svart Records, 2022)
davanti a una scelta: ecco il mio disco del 2022
Ecco il disco che smentisce tante persone: chi con troppa facilità ripete "non escono più dischi rock con qualcosa da dire", chi "in Italia non si fa rock", chi "ascolto solo cose vecchie che tanto...", chi "il rock italiano non sfonda all'estero", chi "i giovani non suonano più rock".
In giorni dove i confini sono teatro di sanguinose atrocità nel nome della supremazia è bello rifugiarsi in dischi come questo. Sì, i Messa sono italiani e qualcuno dall'alto del loro stupendo terzo album Close li ha innalzati a suprema eccellenza tutta italiana. Certo, fa piacere. Però c'è veramente di più. Lo si capisce osservando la danza tribale Nakh delle donne nordafricane nella bella foto di copertina (e libretto compreso): agitano i capelli, muovono il collo, sono in movimento. Ecco: "movimento senza confini" sono parole che ben si adattano a questo disco e alla filosofia "aperta" della band. I Messa hanno fatto un lavoro straordinario: partendo dalla base heavy doom non hanno posto limiti (come la voce della brava Sara Bianchin) alla loro visione musicale che serpeggia senza guardare l'orologio tra il blues americano e il folk africano e mediorientale, il prog anglosassone, la psichedelia e il jazz (qui sale in cattedra il chitarrista Alberto Piccolo) in un vortice emozionale che non respinge ma ingloba. Dove luce e oscurità, occulto e sensualità, mistico e terreno, drammaticità e nostalgia flirtano in continuazione senza dare riferimenti, senza prevaricazioni. Dai territori carsici del loro Veneto ai deserti sahariani e poi ancora in qualunque parte voi vogliate.
I loro live poi, sono un'esperienza da vivere fino in fondo: catartici, ispirati, coinvolgenti anche per orecchie non avvezze a certi suoni. Se entri in sintonia con il loro vortice è fatta. Ne esci solo a concerto finito. Forse. È lì che vincono e convincono. La capacità innata di assorbire cinquant'anni di rock sprigionandoli fuori in modo originale è virtù rara concessa a pochi. Sara tocca vette vocali con disarmante facilità, Alberto con la chitarra spadroneggia passando dal doom al jazz con tutto quello che c'è in mezzo (sua maestà il blues), il basso distorto e psichedelico di Marco e la batteria di Rocco disegnano lo scenario intorno.
Si insomma, se l'Italia avesse la cultura rock di altri paesi europei, i MESSA sarebbero venerati come si deve. Un patrimonio da difendere con passione ma con ancora tutta una carriera davanti.
Coraggiosi, interessanti, sorprendenti.
martedì 27 dicembre 2022
RECENSIONE: STEVE RUDIVELLI (Calypso Gin)
STEVE RUDIVELLI Calypso Gin (2022)
un cocktail a mezzanotte
È stato un anno "strano" per me questo 2022. Pieno di persone e cose che hanno sostituito persone e cose. Un gioco di scambi che non ho ancora messo bene a fuoco. Sicuramente non noioso ma...c'è sempre un ma a rompere i coglioni.
Tanti chilometri come sempre, a piedi e in auto, perché ho imparato che nessuno ti viene incontro. Devi sempre muovere il culo e l'importante è non venderlo mai.
E combinazione l'anno si chiude con questo "piccolo" disco di Steve Rudivelli. Combinazione perché Steve, "il cowboy" della Brianza è un personaggio difficile da mettere a fuoco un po' come il mio 2022. Perché per incontrarlo devi andargli tu incontro nel suo Texas brianzolo. L'ho fatto una volta ma ritornerò. Lo prometto e non è una minaccia. Sicuramente un piacere.
Quando scrivo "piccolo", invece, è perché Steve si fa bastare ancora l'antica magia artigianale: non rompe le palle a nessuno e registra i suoi dischi con la passione di sempre. Calypso Gin è il fratello del precedente Gasoline Beauty (2021) che a sua volte era fratello del precedente Metropolitan Chewingum (2020). "Un disco alcolico" mi ha scritto Steve. Non avevo dubbi.
Tante canzoni me le ha mandate in anteprima in questi mesi e per questo lo ringrazio pubblicamente.
Io aggiungo un disco dai tratti malinconici che fa battaglia con la spiaggia di copertina. E quando il mare c'è, è quello più triste e malinconico dell'inverno.
Un disco folk di armonica e chitarre acustiche, ad aiutare le ficcanti incursioni delle chitarre elettriche di Andy D ('Tabacco Kentucky'), che mi ha riportato in mente quelle serate invernali di provincia, proprio come quella di oggi mentre scrivo, avvolte nella nebbia trafitta dalla luce gialla proveniente dalla vetrina di un bar tabacchi (in un paese "c'e sempre un bar tabacchi" canta) aperto fino a tarda sera: c'è chi gioca a carte, chi ancora a scacchi. Chi ordina due Negroni, chi compra tabacco, ci sono bicchieri vuoti e mezzi pieni, c'è chi indossa stivali "made in Mexico" e chi un pullover. Non fatevi illusioni "esotiche": siamo a Oreno city, frazione di Vimercate. Ogni mondo è paese. E il paese è bello, tranquillo e puoi tenere in mano un bicchiere con più scioltezza.
Le atmosfere da Sergio Leone di 'Caterina Malibu', quelle esotiche di 'Bikini Pub', quelle da frontiera americana alla Tom Russell di 'Mexico Boots', le atmosfere da Nashville Skyline dylaniano che si fondono con i cantautori milanesi in 'Timo It'. Jannacci meets Dylan.
Il disco si conclude con una serenata d'amore chitarra e armonica ('Serenade Of Love') che non può che essere di buon auspicio a tutti per un sereno 2023. "...la luna è sempre stanca, la luna è sempre lì da lunedi" canta Steve. Guardo fuori dalla finestra per cercare 'sta luna: c'è solo nebbia stasera, che fregatura la vita, ma è bello ugualmente.
sabato 1 ottobre 2022
RECENSIONE: SUPERDOWNHOME (Blues Pyromaniacs)
SUPERDOWNHOME Blues Pyromaniacs (Dixiefrog, 2022)
Quante band italiane oggi possono vantare collaborazioni con gente come Popa Chubby, Charlie Musselwhite, i Nine Below Zero, e poi ancora Mike Zito, Bombino, Andy J. Forrest e Anders Osborne come avviene in questo ultimo disco? Io posso considerarmi pure un privilegiato per aver assistito da vicino alla crescita esponenziale del duo bresciano formato da Enrico Sauda (voce e chitarre) e Beppe Facchetti (batteria), partito veramente dal basso per trovarsi oggi a guidare la fila del rock blues moderno europeo.
Dai piccoli circoli che i due però continuano a frequentare assiduamente, tenendo saldamento unito il legame con il passato, ai grandi club e festival europei il passo è stato relativamente breve ma cercato con convinzione e dedizione. Un successo meritato e perseguito con ammirevole devozione, le conoscenze giuste, anche un po' di fortuna chissà (ma si sa, bisogna far combaciare tutto per bene per arrivare al top) tanto più che non parliamo di ventenni in erba ma di musicisti con già una certa esperienza alle spalle.
E questo Blues Pyromaniacs assume un significato importante per come è nato, è stato registrato e come è progredito nel lungo tempo di gestazione. Tutte cose che loro raccontano bene nei dodici minuti del video documentario che si può trovare in rete. Sì insomma, un disco registrato negli States con Anders Osborne (un fuoriclasse visto recentemente in Italia al Buscadero Day) in cabina di regia e un'esperienza che loro stessi denominano "magnifico disastro, disastrosa meraviglia" per via delle tante vicissitudini che hanno dovuto attraversare per vedere l'album fatto e finito oggi.
Tutto nasce nel Gennaio del 2020 quando il duo, forte di tre album in progressiva crescita artistica (e un paio di raccolte tattiche), parte per Memphis per presenziare all'IBC (International Blues Challenge). Durante il viaggio si presentano occasioni ghiotte per aumentare esperienza, auto stima e programmare il futuro. Prima il Cigar Box Festival a New Orleans messo in piedi da Samantha Fish e poi l'ncontro con Anders Osborne a New Orleans grazie all'intercedere del manager Giancarlo Trenti. Al musicista svedese da anni di casa negli States gli si chiede l'impossibile: lui accetta di produrre il disco. Prende forma qui Blues Pyromaniacs, tra gli Esplanade Studio e lo Studio mobile a casa di Osborne. In pochi giorni vengono affinate nuove canzoni, aggiunte parti e strumenti. Il disco viene pure missato ai Dockside Studio in Lousiana.
Sembrava veramente tutto bello, tutto troppo perfetto. Tutto facile. Un american dream concretizzato in poco tempo. Arriva l'imprevisto. Un grande imprevisto, totalmente inaspettato. È la pandemia a bloccare sogni e più o meno tutto il mondo. Ma anche il "tempo perso" del lockdown viene sfruttato per rimettere mano alle canzoni e cercare nuovi contatti. Arriviamo ai giorni nostri con in mano un prestigioso contratto con l'etichetta francese Dixiefrog e ben due versioni dello stesso disco. Quello americano "nudo e crudo" con il trattamento di Osborne che uscirà più avanti (fine Ottobre) in formato vinile e questo, forte di nuovi mix, nuovi ospiti, nuove canzoni aggiunte e la presenza di Brian Lucey (già al lavoro con i Black Keys) al missaggio.
È un disco che alza notevolmente l'asticella della loro musica: rimane la loro idea di rural blues 2.0 tutto batteria e chitarre (le tante rudimentali e artigianali suonate da Sauda) ma che spesso si indirizza verso nuove strade, meno grezze e impervie, a volte molto più melodiche. Nuovi orizzonti sonori si aprono immediatamente dopo la sventagliata blues dell'iniziale 'Utter Daze': dall'inaspettato soul gospel di 'Living Disgrace', al fascino tutto americano e da radio FM di 'Motorway Son', arricchita dai fiati e dall'ospite Mike Zito (presente anche nella distorta e già conosciuta 'I'm Broke'). Dalle atmosfere desertiche e polverose portate in dote dalla chitarra "sahariana" di Bombino in 'Like A Rag In The Sea' alle atmosfere lente e stonate della narcotica 'A Wandering Wino', che a me pare la loro 'Planet Caravan' di sabbathiana memoria. Ma si muove spesso anche il culo seguenfo il groove grazie agli up-tempo 'Nobody's Twist', il blues rockabilly di 'Ambition Craze' dai sentori vagamente psichedelici, con il boogie 'Disaster Noon' e con il twist bluesy 'My Girl C'Est Bon'.
Più due cover suonate alla loro maniera: 'New York City' di John Lennon e 'Don't Bring Me Down' degli Electric Light Orchestra.
Un disco che visti i personaggi coinvolti per qualcuno potrebbe essere un traguardo ma sono certo che per Beppe Facchetti e Henry Sauda sarà un nuovo stimolo in futuro per alzare di un'altra tacca l'asticella della loro musica e fare ancora meglio. Nuovamente.
RECENSIONE: SUPERDOWNHOME - Twenty Four Days (2017)
RECENSIONE: SUPERDOWNHOME - Get My Demons Straight (2019)
domenica 27 febbraio 2022
RECENSIONE: JAIME DOLCE'S INNERSOLE (Love Generator)
JAIME DOLCE'S INNERSOLE Love Generator (lo Stran Palato, 2022)
amore per la musica
Jaime Dolce è un bluesman che come tutti i buoni bluesmen assorbe: luoghi, amicizie, situazioni, temperature, generi musicali. Un viaggiatore partito dalla lontana New York che ha trovato in Italia, a Parma, la sua comfort zone. Chitarrista per Mason Casey nei primi anni novanta, arrivato in Italia ha partecipato e suonato per molti progetti ma quando ha da parte abbastanza canzoni per un disco tutto suo esce allo scoperto con il progetto Jaime Dolce's Innersole, accompagnato da Filippo Buccianelli alle tastiere, Matteo Sodini alla batteria, Andrea Mr. Tibia Tiberti al basso.
La sua chitarra guida canzoni trasversali, mai scontate che si abbeverano tra i generi, così che il passo dal blues al dub reggae di 'God Love If You Want It' (di Slim Harpo, una delle due cover, l'altra è 'Fire' del suo mentore Jimi Hendrix), dal RnB al funky di 'Bad Gone Blues' sembrano di una facilità disarmante. Ma si chiama bravura, stile e attitudine. Così come la chitarra che straborda nel finale di 'Money Ain't Nothing', la solarità quasi pop che circonda 'Zinfandel Blues', il blues sincopato 'Losing Me' portato a termine con la voce sporca il giusto, la classe della band che esce nella strumentale 'TTF (Lust Generator'), il southern funky travolgente di 'Holy Sole', il soul spartano e avvolgente di 'Time (Pietrasanta Blues)', il blues acustico di 'The Wind Cries Mississippi John Hurt', la ballata 'Love Generator' e l'arrivederci della finale 'Il Bacio Della Buona Notte' confermano la bontà del chitarrista americano, ma se lo chiamate italiano, credo non si offenda. Fa da buon sigillo di qualità blues la produzione e distribuzione da parte de Lo Stran Palato di Brescia.
Foto: Gianfilippo Masseranodomenica 19 settembre 2021
RECENSIONE: STEVE RUDIVELLI (Gasoline Beauty)
STEVE RUDIVELLI Gasoline Beauty (2021)
l'operaio del rock'n'roll
Nell'era in cui tutto viaggia smart e veloce attraverso applicazioni e bitcoin, Steve Rudivelli è ancora uno di quelli che sì, vi spedisce il suo nuovo disco ma per pagarlo dovete spedire a lui i soldi via posta, chiusi in una busta. Proprio come si faceva negli anni ottanta quando per ascoltare musica si era disposti a tutto e aspettare qualche giorno in più era un sacrificio sempre ben ricompensato. Un contratto di fiducia tra artista e fan. Un piccolo particolare che basta per raccontarvi lo spirito punk, (e po' anarchico) che vive annidato dentro a Steve. Proprio come quella copertina che mi ha subito riportato a Give 'Em Enough Rope dei Clash, i corvi sono gli stessi ma Steve ci mette la faccia e si immola nel nome del rock'n'roll. Ci lascia un po' del suo sangue contaminato di alcool.
Gasoline Beauty è il fratello del precedente Metropolitan Chewingum, nato in piena pandemia. Qui però si torna finalmente a viaggiare a fari accesi, country rock, nero e da notte fonda, chitarra acustica, armonica dylaniana e qualche bel taglio di elettrica (Handy D.) come succede nell'apertura 'Gasnevada' e nel quadro in stile Hopper musicato in 'Giù Le Mani Dal Banco'. Atmosfere giuste per il suo personale Oh Mercy.
Si esce di casa anche se tutto sembra ancora avvolto in una nebbia da notte fonda, invernale e brianzola, con strade presidiate da corvi neri che "giocano" da un lato della strada grigia e il Lambro che scorre dall'altro ('Lambro River'), un'utilitaria da pochi soldi sotto il sedere come fosse una Cadillac lanciata a tutto gas verso Lecco ('Gasoline Road') e personaggi poco raccomandabili come Frankie che ti superano lungo l'autostrada Bergamo Nevada magari facendoti pure il dito.
E visto che " in fabbrica sono un numero, fuori devo tornare Steve Rudivelli, al più presto", così Steve mi raccontava il suo desiderio di riprendersi la sua vita artistica dopo questi due anni passati lontano dai palchi del suo personale Texas (a proposito ecco 'Coca Jack Jet' texana fino all'ultima goccia), dove le serate scorrevano scivolose tra il bancone, una ballerina di tango jazz e il sogno bagnato Mary con la sua maglietta bianca dei Rolling Stones. L'augurio migliore è quello di trovarsi questo inverno davanti a un bicchiere in qualche bar sperduto della Brianza per riprenderci la nostra vita migliore.
lunedì 26 luglio 2021
RECENSIONE: ANDREA VAN CLEEF & DIEGO DEADMAN POTRON (Safari Station)
ANDREA VAN CLEEF & DIEGO DEADMAN POTRON Safari Station (Rivertale, 2021)
next stop...
In adolescenza l'estate aveva due facce nello stesso luogo. C'era quella sudaticcia da tormentone estivo, chiassosa e disordinata, a tratti invivibile, ubicata tra un campeggio affollato, sempre sold out, e il centro città caotico al sopraggiungere della sera, poi bastava mettersi nelle sapienti mani di un Caronte dai capelli lunghi e ancora neri nonostante l'età, che di notte faceva il pescatore, con i suoi jeans arrotolati fino al ginocchio, la camicia aperta che lasciava intravedere i peli bianchi del petto e la pelle bruciata dal sole: con il suo motoscafo ti accompagnava verso l'altra facciata. Quella dove il sole picchiava ancora più duro, ma il silenzio richiamava la libertà: di spogliarsi, mettersi a nudo senza temere i giudizi altrui, vivere il caldo del sole all'ombra e l'oscurità della notte con un fuoco a fare luce abbracciato alla sorella luna. Ecco, l'ascolto di questo disco mi ha riportato verso quella seconda facciata esotica delle mie lontane estati. Mi pare che Andrea Van Cleef e Diego Potron siano arrivati a questo disco senza rincorrere nulla se non la loro folle voglia di fare musica in un'epoca non facile per cantare canzoni scritte di proprio pugno (avete notato quanti dischi di cover stanno uscendo?): non sono stati fermi a lucidare le loro chitarre con il block notes chiuso accanto, forse chissà, aspettando tempi migliori, mentre là fuori qualcosa si muoveva ma non ancora come ci piaceva una volta (sono solo due anni…paiono un'eternità). E inseguendo la stessa bandiera di libertà creativa, a loro volta Andrea e Diego percorrono ognuno la propria strada, simile ma diversa: quella del bresciano Andrea sembra più sperimentale, a tratti psichedelica (i blues del deserto 'Spiderweb Blues' e 'You and I Were Born For Better Things') e aperta ai suoni del mondo (la liquida 'Mozuela', la cover 'In Zaire" del cantautore britannico Johnny Wakelin, annata 1976), quella del brianzolo Diego più radicata nel folk (' 500 Miles Away') a tratti acido e straniante ('Gang Of Boyz'), esotico ('Kay Zanset') ma è anche sua la più orecchiabile delle dieci tracce: il gospel 'Rise Above All Gods' che apre il disco catturando al primo ascolto.
Si incontrano nel finale desertico, riverberato e sentito di 'Safari Station'.
Un progetto che ha visto nell'instancabile e passionale Paolo Paggetti, patron della Rivertale Records, il gran cerimoniere mentre dalle mani esperte di Antonio Gramentieri (Don Antonio) è arrivata la benedizione in produzione, laggiù nascosti e isolati tra le campagne romagnole.
Andrea e Diego suggellano un'amicizia e un percorso artistico e musicale che spesso si è incrociato come quando nell'autunno del 2020 hanno girato insieme per qualche concerto (ho assistito a quello svoltosi al Bloom, fu il mio primo dopo tanti mesi). Sembrava ci fosse la strada libera per ripartire, fu solo un abbaglio che in qualche modo continua ma che speriamo finisca presto. Intanto ora c'è un disco in più.
domenica 13 giugno 2021
RECENSIONE: CEK FRANCESCHETTI (Sarneghera Stomp)
CEK FRANCESCHETTI Sarneghera Stomp (Slang Records, 2021)
incroci sul lago
Con un po' di immaginazione lo si può vedere il piccolo e curioso Andrea Franceschetti mentre in piedi davanti alle sponde del suo lago, sotto un cielo nero, tanti anni fa, attende l'arrivo della Sarneghera, nome dato alla forte tempesta proveniente da sud che si abbatte sul lago soprattutto nelle calde giornate estive, mentre da lontano una voce famigliare gli intima di rientrare presto in casa: potrebbe essere pericoloso. Siamo a Pisogne, l'ultimo dei paesi sul lago di Iseo salendo verso la bassa Valcamonica. Come la più violenta delle tempeste, il nuovo disco del bluesman bresciano irrompe in un momento che sa di rinascita, anche se dentro si porta dietro tutte le ansie, le paure, le perdite (il disco è dedicato al padre scomparso a inizio pandemia) e poi le speranze di un anno di lockdown che lo ha comunque visto nascere.
"All this world have been set on fire, I'm locked down in my room, I keep on punchin' my own hangin' bag I'm Spittin' out all my blood" canta nell'apertura 'Moanin' Rain'.
Dieci canzoni pure e genuine, violente e distese come la caduta dei chicchi di grandine sull'acqua, registrate in soli quattro giorni negli studi di registrazione dell'amico Carlo Poddighe a Brescia e masterizzato da David Farrel a New Orleans (USA), usando solo chitarra resophonica, voce e stomp. Non serve altro al Cek per farci capire con quanta naturalezza sa maneggiare il verbo del blues. Chi lo conosce lo sa bene, tutti gli altri dovrebbero cercare la data più vicina per farsene un'idea e lui è uno che non si formalizza troppo, potreste trovarlo anche sopra al tetto della casa adiacente alla vostra appena aprite la finestra al canto del gallo nelle prime ore del mattino, a qualunque ora del giorno o meglio della notte.
Non c'è il rischio di rimanere delusi ma di innamorarsene sì. Ma è un rischio che vale la pena di affrontare. Se togliamo le presenze "pesanti" di Andy J Forest (armonica in un paio di tracce), Luca Manenti (acustica in 'Maybe Tomorrow') e Roberto Luti, chitarra ospite in tre canzoni tra cui 'I Don’t Live Today' di Jimi Hendrix (una delle due cover presenti insieme a una sorprendente 'Maybe Tomorrow' degli Stereophonics che lo stesso Cek dice essere "un blues camuffato" già nella versione originale) qui dentro c'è la sua vera essenza primordiale. E come la Sarneghera, la cui nascita è avvolta nella leggenda di due innamorati morti sui fondali del lago d'Iseo, il Cek sa essere prima seducente ('Lady Lake'), poi minaccioso ('Chicks And Wine') e infine impetuoso nel gioco di squadra di 'Horny Dog'. Canta dei suoi affetti ('Home Lake Blues'), di un amico diavolo sempre dietro l'angolo ('Breakin' Deal') conclude il disco con una bellissima e sorprendente 'Nothin 'At All', acustica con voce fantasticamente impostata.
Passata la bufera, ritorna la calma. Ma attenzione tutto si ripete ciclicamente e quando meno te lo aspetti. Un occhio al cielo, uno alle acque del lago…e uno ai tetti se potete.