WILLIE NILE World War Willie (River House Records, 2016)
Dopo la breve parentesi, unica e forse irripetibile, di IF I WAS A RIVER (2014), disco notturno di ballate suonate al pianoforte, WILLIE NILE si rituffa con immutato spirito combattivo nel rock’n’roll. Quello più divertente e cazzone, quello registrato live in studio da quasi buona alla prima. Un disco che si apre in modo epico con il testo di ‘Forever Wild’, un' esplicita dichiarazione di eterna giovinezza (sognare si può ancora), e con la seguente ‘Let’s All Come Togheter’, una chiamata alle armi, un invito a trasformare le cattive notizie che ci assalgono da ogni direzione in buone speranze. Non a caso nella foto di copertina (scattata da Cristina Arrigoni) Nile si è fatto ritrarre davanti ad una gigantografia che mostra le macerie di una Dresda bombardata durante la seconda guerra mondiale. Come a dire: davanti a tutto ciò possiamo solo fare di meglio. Ricostruiamo.
E se c'è qualcuno che di ricostruzioni se ne intende, questo è proprio il cantautore di Buffalo. Nile sta vivendo una seconda giovinezza che ha cancellato gli anni più bui piombati sulla sua carriera dopo i primi due basilari album d'esordio.
Allora sotto, ancora una volta, con il rock'n'roll.
Spinge sul rockabilly sporcato punk con la divertentissima ‘Grandpa Rocks’ dai contagiosi cori “oi!”: un simpatico giretto sopra a una Chevy 57 in compagnia del vostro nonno rock preferito, ascoltando gli Stones in autoradio e indossando con orgoglio la vecchia t-shirt dei Clash.
Un nonno che non vuole mollare. Chi può dargli torto? Chi può fermarlo?
Una botta di vigore e divertimento attraversa quasi tutto il disco: ancora energici rockabilly con le chitarre di Matt Hogan davanti (‘World War Willie’, ‘Hell Yeah’), e (auto)ironici blues (‘Citibank Nile’, ‘Bad Boy’), interrotti solamente dalle romantiche parentesi d’amore (‘Beautiful You’, Runaway Girl’). Ad accompagnarci in questo giro tra le strade di New York, con le quattro frecce accese davanti ai vecchi mattoni del CBGB, i fidi Johnny Pisano al basso, Matt Hogan alle chitarre e Alex Alexander alla batteria siedono davanti al fianco dell’autista, con alcuni ospiti adagiati nel sedile posteriore: “l’Eagles” Steuart Smith, James Maddock, Leslie Mendelson, Christine Santelli.
In più, due omaggi al rock da “artista fan del rock”: la sua folkie ‘When Levon Sings’ dedicata a Levon Helm e The Band (“Once Upon a time was a drummer in a band/He kept a mighty beat ‘cross the Promised Land/ He Played with a smile from ear to ear/ Now up in heaven all the angels wanna ear” ) e una ‘Sweet Jane’ per Lou Reed che chiude degnamente un disco, tra i più divertenti e spensierati della sua produzione, che conferma (ma non ne avevo bisogno) quanto Willie Nile sia un rocker senza carta d’identità.
RECENSIONE: WILLIE NILE-If I Was A River (2014)
RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
RECENSIONE: WILLIE NILE-The Innocent Ones (2010)
WILLIE NILE: recensione CONCERTO Asti Musica 14 Luglio 2010
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: PARKER MILLSAP-The Very Last Day (2016)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
mercoledì 30 marzo 2016
martedì 29 marzo 2016
RECENSIONE: PARKER MILLSAP (The Very Last Day)
PARKER MILLSAP The Very Last Day (Thirty Tigers, 2016)
"Non di soli Rolling Stones che suonano a Cuba si vive", fortunatamente. Lo penso mentre sto ascoltando la versione di 'You Gotta Move', spiritual interpretato da Mississippi Fred McDowell e portato sulle prime pagine rock dagli stessi Stones in STICKY FINGERS, che Parker Millsap ha rifatto splendidamente, caricata d'enfasi, nel suo nuovo, terzo, album THE VERY LAST DAY. Una rilettura personale (l'unica del disco) cantata quasi fosse Robert Plant nel 1969 sopra a un dirigibile che deve ancora lasciare terra, interpretazione che può solo ridare fiducia a chi non crede che il futuro della musica debba ripartire necessariamente dal passato. Un disco intenso che lancia direttamente il ventitreenne nell'olimpo dei songwriter (in erba) che contano, perché Millsap non ha paura di mettere in discussione la sua infanzia, ancora troppo vicina e lì dietro l'angolo vista la faccia ancora così pulita, trascorsa a Purcell, un piccolo paese di seimila anime dell' Oklahoma, un angolo tra i più conservatori degli States. "Non c'è molto da fare a Purcell. Se ti regalano una chitarra quando sei abbastanza giovane, scrivere musica è un buon modo per passare il tempo".
Pur crescendo in una comunità evangelica a diretto contatto con la chiesa Pentacostale, continua a raccogliere buoni spunti di osservazione sulla religione, mettendola in discussione, e pescandone pregi e difetti, come fatto nel precedente e apprezzato disco PARKER MILLSAP (2014), e come fa, immedesimandosi in un ragazzo omosessuale alle prese con un padre predicatore, in 'Heaven Sent'. Pezzo di punta che sa conquistare e commuovere fin dal primo ascolto grazie al suo crescendo emozionale. "Io non sono gay e non sono discriminato, ma mi infastidisce molto quando persone che lo sono vengono trattate male"
C'è poi tutta la sua curiosità sul mondo nell'apertura 'Hades Pleades', rock'n'roll veloce che si rotola nella polvere del bluegrass, scritta dopo aver letto un libro sulla mitologia greca, e nella descrizione dell' ultimo giorno in terra prima di una imminente apocalisse nucleare, un tema presente in più pieghe dei suoi testi, cantata nella title track, caricata a gospel. Registrato con il produttore Gary Paczosa e con la sua efficace band ridotta all'osso: un basso (Michael Rose), una chitarra acustica e un violino presentissimo (Daniel Foulks) che si uniscono nel frizzante ma antico rockabilly 'Heads Up' e nel trascinante blues alla Bo Diddley di 'Pining', lasciando il compito agli oscuri folk solitari e intimisti di 'Jealous Sun' e 'A Little Fire' di mettere in risalto la sua voce, e alla finale 'Tribulation Hymn', di avvicinarsi ad un irish folk che pare uscito dal catalogo del primo Rod Stewart.
Un ragazzo cresciuto a buona musica (la collezione di dischi dei genitori) e con le idee chiare e giuste. "Ho iniziato a suonare quando avevo nove anni. Ero sempre circondato dalla musica, i miei genitori anche, mio padre aveva una collezione di dischi piuttosto interessante (Lyle Lovett, Ry Cooder, Robert Earl keen, Muddy Waters). Non abbiamo mai ascoltato troppo la radio". Racconta in un'intervista.
Dopo la sorpresa del disco del neo zelandese Marlon Williams, ecco un' altra raccolta di canzoni (undici per trentasei minuti) fresche, viscerali, intense e frizzanti che amano e rispettano la tradizione roots americana ma allo stesso tempo sanno soffiare sopra alla polvere depositata nel tempo e osare quel poco necessario per differenziarsi dalla massa. Millsap si candida a nuovo trascinatore del movimento Red Dirt Music e questo THE VERY LAST DAY lascerà sicuramente il segno.
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: BLACK STONE CHERRY-Kentucky (2016)
RECENSIONE: RAY LAMONTAGNE-Ouroboros (2016)
RECENSIONE: SUPERSONIC BLUES MACHINE-West Of Flushing, South Of Frisco (2016)
RECENSIONE: MONSTER TRUCK-Sittin' Heavy (2016)
RECENSIONE: THE RECORD COMPANY-Give It Back To You (2016)
RECENSIONE: MARLON WILLIAMS-Marlon Williams (2016)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
"Non di soli Rolling Stones che suonano a Cuba si vive", fortunatamente. Lo penso mentre sto ascoltando la versione di 'You Gotta Move', spiritual interpretato da Mississippi Fred McDowell e portato sulle prime pagine rock dagli stessi Stones in STICKY FINGERS, che Parker Millsap ha rifatto splendidamente, caricata d'enfasi, nel suo nuovo, terzo, album THE VERY LAST DAY. Una rilettura personale (l'unica del disco) cantata quasi fosse Robert Plant nel 1969 sopra a un dirigibile che deve ancora lasciare terra, interpretazione che può solo ridare fiducia a chi non crede che il futuro della musica debba ripartire necessariamente dal passato. Un disco intenso che lancia direttamente il ventitreenne nell'olimpo dei songwriter (in erba) che contano, perché Millsap non ha paura di mettere in discussione la sua infanzia, ancora troppo vicina e lì dietro l'angolo vista la faccia ancora così pulita, trascorsa a Purcell, un piccolo paese di seimila anime dell' Oklahoma, un angolo tra i più conservatori degli States. "Non c'è molto da fare a Purcell. Se ti regalano una chitarra quando sei abbastanza giovane, scrivere musica è un buon modo per passare il tempo".
Pur crescendo in una comunità evangelica a diretto contatto con la chiesa Pentacostale, continua a raccogliere buoni spunti di osservazione sulla religione, mettendola in discussione, e pescandone pregi e difetti, come fatto nel precedente e apprezzato disco PARKER MILLSAP (2014), e come fa, immedesimandosi in un ragazzo omosessuale alle prese con un padre predicatore, in 'Heaven Sent'. Pezzo di punta che sa conquistare e commuovere fin dal primo ascolto grazie al suo crescendo emozionale. "Io non sono gay e non sono discriminato, ma mi infastidisce molto quando persone che lo sono vengono trattate male"
C'è poi tutta la sua curiosità sul mondo nell'apertura 'Hades Pleades', rock'n'roll veloce che si rotola nella polvere del bluegrass, scritta dopo aver letto un libro sulla mitologia greca, e nella descrizione dell' ultimo giorno in terra prima di una imminente apocalisse nucleare, un tema presente in più pieghe dei suoi testi, cantata nella title track, caricata a gospel. Registrato con il produttore Gary Paczosa e con la sua efficace band ridotta all'osso: un basso (Michael Rose), una chitarra acustica e un violino presentissimo (Daniel Foulks) che si uniscono nel frizzante ma antico rockabilly 'Heads Up' e nel trascinante blues alla Bo Diddley di 'Pining', lasciando il compito agli oscuri folk solitari e intimisti di 'Jealous Sun' e 'A Little Fire' di mettere in risalto la sua voce, e alla finale 'Tribulation Hymn', di avvicinarsi ad un irish folk che pare uscito dal catalogo del primo Rod Stewart.
Un ragazzo cresciuto a buona musica (la collezione di dischi dei genitori) e con le idee chiare e giuste. "Ho iniziato a suonare quando avevo nove anni. Ero sempre circondato dalla musica, i miei genitori anche, mio padre aveva una collezione di dischi piuttosto interessante (Lyle Lovett, Ry Cooder, Robert Earl keen, Muddy Waters). Non abbiamo mai ascoltato troppo la radio". Racconta in un'intervista.
Dopo la sorpresa del disco del neo zelandese Marlon Williams, ecco un' altra raccolta di canzoni (undici per trentasei minuti) fresche, viscerali, intense e frizzanti che amano e rispettano la tradizione roots americana ma allo stesso tempo sanno soffiare sopra alla polvere depositata nel tempo e osare quel poco necessario per differenziarsi dalla massa. Millsap si candida a nuovo trascinatore del movimento Red Dirt Music e questo THE VERY LAST DAY lascerà sicuramente il segno.
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: BLACK STONE CHERRY-Kentucky (2016)
RECENSIONE: RAY LAMONTAGNE-Ouroboros (2016)
RECENSIONE: SUPERSONIC BLUES MACHINE-West Of Flushing, South Of Frisco (2016)
RECENSIONE: MONSTER TRUCK-Sittin' Heavy (2016)
RECENSIONE: THE RECORD COMPANY-Give It Back To You (2016)
RECENSIONE: MARLON WILLIAMS-Marlon Williams (2016)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
giovedì 24 marzo 2016
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Tre date: 28 Luglio a Ravenna, 29 Luglio a Trieste, 30 Luglio a Brescia
“Non ero più un ragazzo: avevo 20, 22 anni. Io e un mio amico eravamo seduti a bere delle birre, quando suo padre iniziò a suonare canzoni di John Prine e Bob Dylan. Un giorno gli chiesi di mostrarmi alcuni accordi appena avessi avuto una chitarra tra le mani. E lui rispose: sicuramente. Così appena uscito di casa, sono corso al banco dei pegni ad acquistarne una da pochi soldi, da lì ho iniziato a scrivere canzoni”. Così Jake Smith, l’omone grande e grosso che fisicamente pare un incrocio tra Warren Haynes e il grande Lebowski, racconta i suoi tardivi approcci con la musica. Ora di anni ne ha qualcuno in più, la chitarra la suona bene ed è arrivato al quinto disco in carriera. Dopo l’esordio del 2007, il grande pubblico si accorse di lui grazie alla serie tv Sons Of Anarchy (i brani di Smith sono stati ospitati più volte nella serie. e a lui è toccato l'onore di chiudere in maniera struggente l'ultima puntata della saga dei criminali motociclisti, con la lunga 'Come Join The Murder) e a quel ‘Once Upon The Time In The West’ (2011) che sembrava costruire il ponte ideale tra la vecchia America cantata dagli outlaw country men degli anni settanta e l'America della generazione grunge di metà anni ’90, che celebrò il funerale di tutte le vecchie speranze. “Beh, io sono una persona abbastanza gioviale ma so che il lato più oscuro della vita può essere più interessante. Sono un uomo di famiglia, ma ogni tanto possono esserci ancora problemi. Alcune cose di cui scrivo sono d'attualità, ma cerco sempre di lasciarle vaghe, per fare in modo che ognuno possa interpretarle a modo suo”. Dopo l’ambizioso concept ‘Shadows, Greys & Evil Ways’ (2013) che intrecciava amore e guerra, nel nuovo album ‘Love And The Death Of Damnation’ le canzoni, pur vivendo di vita propria, sembrano ancora una volta seguire un percorso narrativo ben preciso dove i protagonisti lottano contro la diabolica oscurità che gravita intorno alle loro strade.
Qualcuno troverà la luce, altri no. Buio mimetizzato negli accadimenti di tutti i giorni (‘Dark Days’, ‘Modern Times’), nelle disperata ricerca di fede e redenzione, nei complicati meccanismi delle relazioni umane: nei rapporti d’amore ( ‘I Got You’ cantata in coppia con Audra Mae), tra genitori e figli, tra uomini in perenne conflitto. "Musicalmente e liricamente, questo è l'album più diversificato che abbia mai fatto. Amore, morte, luce e oscurità. Vi farà ridere e vi farà piangere. Un concentrato di emozioni." Alta drammaticità serpeggiante dentro ai repentini e sbuffanti attacchi cow rock (‘Rocky’) ben sostenuti dalla sezione ritmica (Matt Lynott alla batteria, Bruce Witkin al basso), alle eteree ballate pianistiche (‘Radio With No Sound’), alle trombe mariachi che colorano gli spietati confini geografici delle terre del sud in ‘Chico’, allo strepitoso gospel soul condotto dall’hammond nella finale ‘Come On Love, Come On In’ e al traditional folk americano che si fa anche scuro e tenebroso come un abito da giorno del giudizio in ‘Last Call To Heaven’, dove protagonista è ancora una volta la sua inconfondibile voce. Ricca, profonda, intensa e sincera come la parte nascosta di quell’ America che ci vuole raccontare. (Enzo Curelli) da CLASSIX! #46 (Gennaio/Febbraio 2016)
THE WHITE BUFFALO Once Upon A Time In The West ( Unison Music, 2012 )
[...]Once Upon A Time In The West (omaggio a Sergio Leone?) è il secondo album dopo Hoghtide Revisited(2008) ed alcuni Ep. I White Buffallo, nome che oltre a rievocare il sacro bisonte dei nativi americani , ricorda vecchi western con Charles Bronson, comprendono oltre a Jake Smith, Tommy Andrews al basso e Matt Lynott alla batteria, e sono una vera e propria band proveniente dalla California.
Qualcuno troverà la luce, altri no. Buio mimetizzato negli accadimenti di tutti i giorni (‘Dark Days’, ‘Modern Times’), nelle disperata ricerca di fede e redenzione, nei complicati meccanismi delle relazioni umane: nei rapporti d’amore ( ‘I Got You’ cantata in coppia con Audra Mae), tra genitori e figli, tra uomini in perenne conflitto. "Musicalmente e liricamente, questo è l'album più diversificato che abbia mai fatto. Amore, morte, luce e oscurità. Vi farà ridere e vi farà piangere. Un concentrato di emozioni." Alta drammaticità serpeggiante dentro ai repentini e sbuffanti attacchi cow rock (‘Rocky’) ben sostenuti dalla sezione ritmica (Matt Lynott alla batteria, Bruce Witkin al basso), alle eteree ballate pianistiche (‘Radio With No Sound’), alle trombe mariachi che colorano gli spietati confini geografici delle terre del sud in ‘Chico’, allo strepitoso gospel soul condotto dall’hammond nella finale ‘Come On Love, Come On In’ e al traditional folk americano che si fa anche scuro e tenebroso come un abito da giorno del giudizio in ‘Last Call To Heaven’, dove protagonista è ancora una volta la sua inconfondibile voce. Ricca, profonda, intensa e sincera come la parte nascosta di quell’ America che ci vuole raccontare. (Enzo Curelli) da CLASSIX! #46 (Gennaio/Febbraio 2016)
THE WHITE BUFFALO Once Upon A Time In The West ( Unison Music, 2012 )
[...]Once Upon A Time In The West (omaggio a Sergio Leone?) è il secondo album dopo Hoghtide Revisited(2008) ed alcuni Ep. I White Buffallo, nome che oltre a rievocare il sacro bisonte dei nativi americani , ricorda vecchi western con Charles Bronson, comprendono oltre a Jake Smith, Tommy Andrews al basso e Matt Lynott alla batteria, e sono una vera e propria band proveniente dalla California.
La voce di Jake Smith è l'elemento catalizzante delle canzoni che, obiettivamente, non hanno nulla di veramente originale: americana che staziona in perfetto equilibrio tra le ombre crepuscolari di desolate ballate folk, oppure up-tempos trascinanti e sporcate sul polveroso ritmo di un country/rock viscerale che ripercorre i sentieri tracciati da vecchi fuorilegge come Waylon Jennings o lo Steve Earle di Copperhead Road, perdendone la parte più elettrica.
Ma un qualcosa di magico sembra sempre prevalere. Uno storyteller, quasi d'altri tempi, che affascina e seduce con il divino dono di una profonda voce da rocker che contrasta con il carattere intimo, nostalgico e doloroso delle sue liriche. Il contrasto è una delle armi di questo disco. [...] leggi recensione completa
Ma un qualcosa di magico sembra sempre prevalere. Uno storyteller, quasi d'altri tempi, che affascina e seduce con il divino dono di una profonda voce da rocker che contrasta con il carattere intimo, nostalgico e doloroso delle sue liriche. Il contrasto è una delle armi di questo disco. [...] leggi recensione completa
[...] narrativo concept che ci fa addentrare nell'appassionato amore di una giovane coppia di amanti: Joe e Jolene, divisa dalla guerra con i suoi orrori ben descritti nelle drammaticità acustiche di Redemption #2 e Fire don’t Know, dagli eventi della vita non meno violenti, dal difficile ruolo di un reduce all'interno degli schemi vitali della quotidiana routine, ma riunita, redenta e salvata (forse) dalla fede come testimonia la finale Pray To You Now. Tante domande esistenziali, con le risposte lì, in sospeso, affidate all'ascoltatore[...] Meno immediato del suo predecessore Once Upon The Time In The West, più impegnativo e ambizioso, ma con la forza di uscire vincitore alla lunga distanza, confermando Jake Smith come uno dei più interessanti songwriters di “americana” degli ultimi anni, con tutte le credenziali per arrivare anche al (grande) pubblico più distratto che evidentemente sta ancora sonnecchiando. Meglio così o lo svegliamo? leggi recensione completa
THE WHITE BUFFALO Love And The Death Of Damnation (Unison Music/Earache Records, 2015)
[...]LOVE AND THE DEATH OF DAMNATION è il suo quarto disco. Anche se non è propriamente un concept album come il precedente e ambizioso Shadows, Greys, and Evil Ways uscito nel 2013, le canzoni che lo compongono, pur vivendo tutte di vita propria, sembrano ancora una volta seguire un percorso narrativo ben preciso dove i personaggi protagonisti lottano contro la diabolica oscurità che gravita intorno alle loro strade, ma non tutti riescono ad arrivare all’agognato traguardo dove, ai bordi dei marciapiedi meno battuti, nuove luci irradiano chiarezza sull’esistenza. Buio mimetizzato negli accadimenti di tutti i giorni (‘Dark Days’, ‘Modern Times’ accompagnata da un divertente video), nelle disperata ricerca di fede e redenzione (‘Where Is Your Saviour’), nei complicati meccanismi delle relazioni umane: nei rapporti d’amore (‘Go The Distance’, ‘I Got You’ cantata in coppia con Audra Mae), tra genitori e figli, tra uomini in perenne conflitto e prevaricazione[...] leggi recensione completa
[...]LOVE AND THE DEATH OF DAMNATION è il suo quarto disco. Anche se non è propriamente un concept album come il precedente e ambizioso Shadows, Greys, and Evil Ways uscito nel 2013, le canzoni che lo compongono, pur vivendo tutte di vita propria, sembrano ancora una volta seguire un percorso narrativo ben preciso dove i personaggi protagonisti lottano contro la diabolica oscurità che gravita intorno alle loro strade, ma non tutti riescono ad arrivare all’agognato traguardo dove, ai bordi dei marciapiedi meno battuti, nuove luci irradiano chiarezza sull’esistenza. Buio mimetizzato negli accadimenti di tutti i giorni (‘Dark Days’, ‘Modern Times’ accompagnata da un divertente video), nelle disperata ricerca di fede e redenzione (‘Where Is Your Saviour’), nei complicati meccanismi delle relazioni umane: nei rapporti d’amore (‘Go The Distance’, ‘I Got You’ cantata in coppia con Audra Mae), tra genitori e figli, tra uomini in perenne conflitto e prevaricazione[...] leggi recensione completa
Bagana Rock Agency e PMA Promotion presentano:
THE WHITE BUFFALO, per la prima volta in Italia
giovedì 28 Luglio STRADE BLU, Ravenna
venerdì 29 Luglio Hot In The City,Trieste
sabato 30 Luglio Arena Sonica, Brescia
Ingressi gratuiti
THE WHITE BUFFALO live@Arena Sonica, Brescia, 30 Luglio 2016 [FOTO]
THE WHITE BUFFALO, per la prima volta in Italia
giovedì 28 Luglio STRADE BLU, Ravenna
venerdì 29 Luglio Hot In The City,Trieste
sabato 30 Luglio Arena Sonica, Brescia
Ingressi gratuiti
THE WHITE BUFFALO live@Arena Sonica, Brescia, 30 Luglio 2016 [FOTO]
mercoledì 23 marzo 2016
RECENSIONE: MARLON WILLIAMS (Marlon Williams)
MARLON WILLIAMS Marlon Williams (Dead Oceans, 2016)
I venti minuti (di più con traffico intenso) del tragitto casa lavoro spesso diventano il tempo meglio speso della mattinata. Quello giusto per ascoltare le tante cose nuove. Il debutto solista (ma uscito l'anno scorso in patria) del neo zelandese venticinquenne Marlon Williams ha i sapori di altre epoche: parte in quarta come un treno nel selvaggio west con l'uptempo rockabilly 'Hello Miss Lonesome' ma poi si assesta su tempi distesi, carichi di sentimento, riempiti da murder ballads intense, emozionali e molto più lente. Anche la sua voce cambia dalla terza canzone in avanti.
Ci sono gli anni 50 e 60, ci sono Hank Williams, Roy Orbison e Bob Dylan, c'è il folk, il bluegrass, il soul, ci sono tre cover rilette benissimo ( 'I'm Lost Without You' di Teddy Randazzo e Billy Barberis, 'Silent Passage' di Bob Carpenter e il traditional 'When I Was A Young Girl').
Ha una voce straordinaria allenata nell'adolescenza cantando nei cori di Chiesa. Un talento da coltivare. 35 minuti per un debutto che lascerà sicuramente il segno anche se il secondo disco potrà dare risposte più convincenti e restringere il suo raggio d'azione che ora pare essere fin troppo dispersivo, quasi fosse in cerca della strada giusta da imboccare. Intanto io sono arrivato a destinazione e questo sarà uno dei migliori dischi dell'anno in corso.
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: BLACK STONE CHERRY-Kentucky (2016)
RECENSIONE: RAY LAMONTAGNE-Ouroboros (2016)
RECENSIONE: SUPERSONIC BLUES MACHINE-West Of Flushing, South Of Frisco (2016)
RECENSIONE: MONSTER TRUCK-Sittin' Heavy (2016)
RECENSIONE: THE RECORD COMPANY-Give It Back To You (2016)
I venti minuti (di più con traffico intenso) del tragitto casa lavoro spesso diventano il tempo meglio speso della mattinata. Quello giusto per ascoltare le tante cose nuove. Il debutto solista (ma uscito l'anno scorso in patria) del neo zelandese venticinquenne Marlon Williams ha i sapori di altre epoche: parte in quarta come un treno nel selvaggio west con l'uptempo rockabilly 'Hello Miss Lonesome' ma poi si assesta su tempi distesi, carichi di sentimento, riempiti da murder ballads intense, emozionali e molto più lente. Anche la sua voce cambia dalla terza canzone in avanti.
Ci sono gli anni 50 e 60, ci sono Hank Williams, Roy Orbison e Bob Dylan, c'è il folk, il bluegrass, il soul, ci sono tre cover rilette benissimo ( 'I'm Lost Without You' di Teddy Randazzo e Billy Barberis, 'Silent Passage' di Bob Carpenter e il traditional 'When I Was A Young Girl').
Ha una voce straordinaria allenata nell'adolescenza cantando nei cori di Chiesa. Un talento da coltivare. 35 minuti per un debutto che lascerà sicuramente il segno anche se il secondo disco potrà dare risposte più convincenti e restringere il suo raggio d'azione che ora pare essere fin troppo dispersivo, quasi fosse in cerca della strada giusta da imboccare. Intanto io sono arrivato a destinazione e questo sarà uno dei migliori dischi dell'anno in corso.
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: BLACK STONE CHERRY-Kentucky (2016)
RECENSIONE: RAY LAMONTAGNE-Ouroboros (2016)
RECENSIONE: SUPERSONIC BLUES MACHINE-West Of Flushing, South Of Frisco (2016)
RECENSIONE: MONSTER TRUCK-Sittin' Heavy (2016)
RECENSIONE: THE RECORD COMPANY-Give It Back To You (2016)
lunedì 21 marzo 2016
NEIL YOUNG: HUMAN HIGHWAY/RUST NEVER SLEEPS DVD
Le versioni restaurate dei due film HUMAN HIGHWAY e RUST NEVER SLEEPS (prodotti tra il 1978 e il 1979) sono state presentate in anteprima nei cinema americani il 29 Febbraio scorso nel corso di una serata denominata An Evening With NEIL YOUNG. I due film, da tempo fuori catalogo, usciranno il 22 Aprile in versione DVD.
HUMAN HIGHWAY è una commedia "anti nucleare" ambientata tra l’officina meccanica del proprietario Lionel Switch (interpretato dallo stesso Neil Young) e il ristorante dove lavorano vari personaggi interpretati da veri attori come Dennis Hopper (il cuoco), Dean Stockwell e Sally Kirkland. Neil Young veste anche i panni della rockstar Frankie Fontaine e nel film compaiono pure i Devo. Tutti i protagonisti stanno vivendo come se fosse l’ultimo giorno della loro vita, attentata dall’imminente esplosione della vicina centrale nucleare.
“Human Highway prevedeva che filmassimo su un set interno che sembrasse una stazione di servizio situata in un luogo immaginario, la Linear Valley. In lontananza si vedeva Megapolitan City e sullo sfondo, a meno di due chilometri, una centrale nucleare…Finite le riprese, durante il montaggio il film passò attraverso varie versioni. Ci fu una proiezione a San Diego, dove furono distribuite delle cartoline al pubblico perché commentasse il film. Fu un disastro, ma fu molto divertente…”
RUST NEVER SLEEPS documenta, invece, il famoso concept tour diviso in due atti (acustico ed elettrico con i Crazy Horse), caratterizzato dai vestiti bianchi e candidi di Neil Young, nel ruolo di un bambino che si sveglia dal sonno in mezzo ad un palco-dove tutto è gigante- che lo avvolge, dopo aver sognato di diventare una rockstar. “ Un ragazzo sogna di essere in un gruppo rock, ma è un ragazzino per cui tutto è più grande della realtà, ogni aggeggio è enorme. Così se ne sta lì addormentato in cima a questo amplificatore, poi si sveglia e suona un paio di canzoni sulla gioventù”.Famose anche le figure dei roadie (road-eyes) vestiti come Jawa di Guerre Stellari. “ La saga di Guerre Stellari era appena iniziata ed era una gran cosa per i giovani, così ho preso tutto ciò che poteva fare effetto sui giovani e l’ho mischiato”. Uno dei tour più bizzarri della storia del rock.
Un buon passatempo davanti alla TV in attesa dell’ennesimo album (EARTH?) che uscirà in estate e dei quattro concerti programmati a Luglio in Italia.
RECENSIONE: NEIL YOUNG-A Treasure (2011)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE- Americana (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, 21 Luglio 2014
RECENSIONE: NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL-The Monsanto Years (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-BLUNOTE CAFE (2015)
HUMAN HIGHWAY è una commedia "anti nucleare" ambientata tra l’officina meccanica del proprietario Lionel Switch (interpretato dallo stesso Neil Young) e il ristorante dove lavorano vari personaggi interpretati da veri attori come Dennis Hopper (il cuoco), Dean Stockwell e Sally Kirkland. Neil Young veste anche i panni della rockstar Frankie Fontaine e nel film compaiono pure i Devo. Tutti i protagonisti stanno vivendo come se fosse l’ultimo giorno della loro vita, attentata dall’imminente esplosione della vicina centrale nucleare.
“Human Highway prevedeva che filmassimo su un set interno che sembrasse una stazione di servizio situata in un luogo immaginario, la Linear Valley. In lontananza si vedeva Megapolitan City e sullo sfondo, a meno di due chilometri, una centrale nucleare…Finite le riprese, durante il montaggio il film passò attraverso varie versioni. Ci fu una proiezione a San Diego, dove furono distribuite delle cartoline al pubblico perché commentasse il film. Fu un disastro, ma fu molto divertente…”
RUST NEVER SLEEPS documenta, invece, il famoso concept tour diviso in due atti (acustico ed elettrico con i Crazy Horse), caratterizzato dai vestiti bianchi e candidi di Neil Young, nel ruolo di un bambino che si sveglia dal sonno in mezzo ad un palco-dove tutto è gigante- che lo avvolge, dopo aver sognato di diventare una rockstar. “ Un ragazzo sogna di essere in un gruppo rock, ma è un ragazzino per cui tutto è più grande della realtà, ogni aggeggio è enorme. Così se ne sta lì addormentato in cima a questo amplificatore, poi si sveglia e suona un paio di canzoni sulla gioventù”.Famose anche le figure dei roadie (road-eyes) vestiti come Jawa di Guerre Stellari. “ La saga di Guerre Stellari era appena iniziata ed era una gran cosa per i giovani, così ho preso tutto ciò che poteva fare effetto sui giovani e l’ho mischiato”. Uno dei tour più bizzarri della storia del rock.
Un buon passatempo davanti alla TV in attesa dell’ennesimo album (EARTH?) che uscirà in estate e dei quattro concerti programmati a Luglio in Italia.
RECENSIONE: NEIL YOUNG-A Treasure (2011)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE- Americana (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, 21 Luglio 2014
RECENSIONE: NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL-The Monsanto Years (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-BLUNOTE CAFE (2015)
venerdì 18 marzo 2016
RECENSIONE: THE RECORD COMPANY (Give It Back To You)
THE RECORD COMPANY Give It Back To You (Concord Records, 2016)
Nati a Los Angeles nel 2011, i Record Company potrebbero bleffare benissimo sulla loro età. Dandosi qualche decennio in più, naturalmente. Il progetto prende forma dopo aver fatto bisboccia intorno ad un tavolo colmo di birre di un pub, con un disco di John Lee Hooker e Canned Heat in sottofondo (il mitico doppio Hooker 'N Heat del 1970), e proprio ad una birra (massì facciamo pubblicità: la birra Miller Lite), che ha scelto la loro canzone ‘Off The Ground’ per uno spot commerciale, devono il primo grande successo in larga scala. Da lì all'incisione del debutto il passo è stato breve: esattamente un anno dopo, nonostante avessero già all'attivo diversi EP e aperture live per nomi importanti come Buddy Guy, B.B. King e Social Distortion. La copertina del disco è fin troppo chiara su quale sia la loro vera attitudine. Qualcuno li avrà anche visti lo scorso autunno a Milano in apertura per i southern rockers Blackberry Smoke. Il loro primo album è appena uscito: un sentiero sonoro lungo dieci tracce per quaranta minuti che lascia pochi dubbi sui dischi che hanno girato nei loro piatti dopo le serate stonate al pub: tanto blues di casa Chess Records (Muddy Waters, Bo Diddley), di conseguenza Canned Heat (‘On The Move’), Stones e Led Zeppelin (‘Hard Day Coming Down’), il vecchio rockabilly (‘Don’t Let Me Get Lonely’), soul (‘This Crooked City’ con le voci femminili di Maesa e Rosa Pullman), coralità contagiante ('Feels So Good') a cui si aggiunge la sporca urgenza della Detroit rock a cavallo tra i 60 e i 70 (la finale ‘In The Mood For You’ fa tanto Stooges).
A spiccare: l'armonica, le chitarre e la voce del vocalist Chris Vos, un cantante rubato all’agricoltura (non è un insulto, Vos è cresciuto veramente in una fattoria del Wisconsin), e una sezione ritmica (Alex Stiff al basso e Marc Cazorla alla batteria) carica di groove degna dei migliori power trio degli anni che contano. Derivativi come tanti altri ma con quella voglia di sbattersi che li fa galleggiare a testa alta tra l'inevitabile selezione naturale di questo folle music business marchiato 2.0 e senza regole scritte. Se le ultime mosse dei Black Keys vi hanno deluso, The Record Company non lo faranno. Per ora.
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: BLACK STONE CHERRY-Kentucky (2016)
RECENSIONE: RAY LAMONTAGNE-Ouroboros (2016)
RECENSIONE: SUPERSONIC BLUES MACHINE-West Of Flushing, South Of Frisco (2016)
RECENSIONE: MONSTER TRUCK-Sittin' Heavy (2016)
Nati a Los Angeles nel 2011, i Record Company potrebbero bleffare benissimo sulla loro età. Dandosi qualche decennio in più, naturalmente. Il progetto prende forma dopo aver fatto bisboccia intorno ad un tavolo colmo di birre di un pub, con un disco di John Lee Hooker e Canned Heat in sottofondo (il mitico doppio Hooker 'N Heat del 1970), e proprio ad una birra (massì facciamo pubblicità: la birra Miller Lite), che ha scelto la loro canzone ‘Off The Ground’ per uno spot commerciale, devono il primo grande successo in larga scala. Da lì all'incisione del debutto il passo è stato breve: esattamente un anno dopo, nonostante avessero già all'attivo diversi EP e aperture live per nomi importanti come Buddy Guy, B.B. King e Social Distortion. La copertina del disco è fin troppo chiara su quale sia la loro vera attitudine. Qualcuno li avrà anche visti lo scorso autunno a Milano in apertura per i southern rockers Blackberry Smoke. Il loro primo album è appena uscito: un sentiero sonoro lungo dieci tracce per quaranta minuti che lascia pochi dubbi sui dischi che hanno girato nei loro piatti dopo le serate stonate al pub: tanto blues di casa Chess Records (Muddy Waters, Bo Diddley), di conseguenza Canned Heat (‘On The Move’), Stones e Led Zeppelin (‘Hard Day Coming Down’), il vecchio rockabilly (‘Don’t Let Me Get Lonely’), soul (‘This Crooked City’ con le voci femminili di Maesa e Rosa Pullman), coralità contagiante ('Feels So Good') a cui si aggiunge la sporca urgenza della Detroit rock a cavallo tra i 60 e i 70 (la finale ‘In The Mood For You’ fa tanto Stooges).
A spiccare: l'armonica, le chitarre e la voce del vocalist Chris Vos, un cantante rubato all’agricoltura (non è un insulto, Vos è cresciuto veramente in una fattoria del Wisconsin), e una sezione ritmica (Alex Stiff al basso e Marc Cazorla alla batteria) carica di groove degna dei migliori power trio degli anni che contano. Derivativi come tanti altri ma con quella voglia di sbattersi che li fa galleggiare a testa alta tra l'inevitabile selezione naturale di questo folle music business marchiato 2.0 e senza regole scritte. Se le ultime mosse dei Black Keys vi hanno deluso, The Record Company non lo faranno. Per ora.
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: BLACK STONE CHERRY-Kentucky (2016)
RECENSIONE: RAY LAMONTAGNE-Ouroboros (2016)
RECENSIONE: SUPERSONIC BLUES MACHINE-West Of Flushing, South Of Frisco (2016)
RECENSIONE: MONSTER TRUCK-Sittin' Heavy (2016)
martedì 15 marzo 2016
RECENSIONE:BLACK STONE CHERRY (Kentucky)
BLACK STONE CHERRY Kentucky (Mascot Records, 2016)
Ritorno al passato
Se avevate puntato le vostre preziose fiches su questa band di giovani e sconosciuti americani, quando uscì il loro debutto nel 2006, e poi siete rimasti parzialmente delusi dalle successive mosse discografiche che sempre più spesso hanno abbandonato il roccioso southern rock a forti dosi hard per sviare verso la melodia, viatico per raggiungere il grande pubblico e il successo su scala mondiale, questo quinto album ha tutte le prerogative per farvi tornare sui vostri passi. Un ritorno al coraggio istintivo rispetto alla minuziosa cura dei dettagli della maturità.
Titolo e metodo di lavorazione (tante analogie con il debutto) sembrano chiudere il cerchio nel migliore dei modi: a Chris Robertson e compagni non è mai venuta meno la bravura (sono quasi tutti figli d’arte) ma questa volta sembrano superarsi riacciuffando quei pesanti riff cari allo Zakk Wylde più mainstream (The way Of The Future, Rescue Me) e quel sano e primigenio spirito da figli del sud (la ballata acustica The Rambler, la cover “Motown era” War) che quando fu camuffato da nuovi Nickelback non faceva loro onore. Enzo Curelli 8 da Classic Rock (Marzo 2016)
vedi anche
RECENSIONE: SUPERSONIC BLUES MACHINE-West Of Flushing, South Of Frisco (2016)
RECENSIONE: MONSTER TRUCK-Sittin' Heavy (2016)
Ritorno al passato
Se avevate puntato le vostre preziose fiches su questa band di giovani e sconosciuti americani, quando uscì il loro debutto nel 2006, e poi siete rimasti parzialmente delusi dalle successive mosse discografiche che sempre più spesso hanno abbandonato il roccioso southern rock a forti dosi hard per sviare verso la melodia, viatico per raggiungere il grande pubblico e il successo su scala mondiale, questo quinto album ha tutte le prerogative per farvi tornare sui vostri passi. Un ritorno al coraggio istintivo rispetto alla minuziosa cura dei dettagli della maturità.
Titolo e metodo di lavorazione (tante analogie con il debutto) sembrano chiudere il cerchio nel migliore dei modi: a Chris Robertson e compagni non è mai venuta meno la bravura (sono quasi tutti figli d’arte) ma questa volta sembrano superarsi riacciuffando quei pesanti riff cari allo Zakk Wylde più mainstream (The way Of The Future, Rescue Me) e quel sano e primigenio spirito da figli del sud (la ballata acustica The Rambler, la cover “Motown era” War) che quando fu camuffato da nuovi Nickelback non faceva loro onore. Enzo Curelli 8 da Classic Rock (Marzo 2016)
vedi anche
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RECENSIONE: MONSTER TRUCK-Sittin' Heavy (2016)
venerdì 11 marzo 2016
RECENSIONE: RAY LAMONTAGNE-Ouroboros (2016)
RAY LAMONTAGNE-Ouroboros (RCA Records, 2016)
Forse il primo Lamontagne (periodo Ethan Johns) lo abbiamo perso definitivamente. Dopo SUPERNOVA, prodotto da Dan Auerback, disco mal digerito dai fan della prima ora ma segno di una voglia di sperimentare che non gli si può reprimere, anche questo nuovo OUROBOROS cerca di cambiare le carte in tavola in modo diverso. Nuovamente. Jim James dei New Morning Jacket in produzione favorisce un nuovo viaggio cosmico diviso in otto atti che marciano uniti senza stacchi come un corpo celeste perso nell'universo. Un moto ciclico.
Lamontagne ha già definito la collaborazione con James presso lo studio di registrazione a Louisville come la migliore della sua carriera artistica e l'apertura 'Homecoming' con i suoi quasi nove minuti di durata è il miglior esempio di quanta libertà artistica si sia preso questa volta.
Sempre meno folk più space rock, blues elettrico alieno ('The Changing Man', 'Hey, No Pressure') e psichedelia e più di un gancio pinkfloidiano ('While It Stills Beats', 'In My Own Way'). Quaranta minuti poco immediati, da affrontare nel buio a occhi chiusi. Per me è un sì!
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
Forse il primo Lamontagne (periodo Ethan Johns) lo abbiamo perso definitivamente. Dopo SUPERNOVA, prodotto da Dan Auerback, disco mal digerito dai fan della prima ora ma segno di una voglia di sperimentare che non gli si può reprimere, anche questo nuovo OUROBOROS cerca di cambiare le carte in tavola in modo diverso. Nuovamente. Jim James dei New Morning Jacket in produzione favorisce un nuovo viaggio cosmico diviso in otto atti che marciano uniti senza stacchi come un corpo celeste perso nell'universo. Un moto ciclico.
Lamontagne ha già definito la collaborazione con James presso lo studio di registrazione a Louisville come la migliore della sua carriera artistica e l'apertura 'Homecoming' con i suoi quasi nove minuti di durata è il miglior esempio di quanta libertà artistica si sia preso questa volta.
Sempre meno folk più space rock, blues elettrico alieno ('The Changing Man', 'Hey, No Pressure') e psichedelia e più di un gancio pinkfloidiano ('While It Stills Beats', 'In My Own Way'). Quaranta minuti poco immediati, da affrontare nel buio a occhi chiusi. Per me è un sì!
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
mercoledì 9 marzo 2016
RECENSIONE: JESSE MALIN live@Latteria Molloy, Brescia, 8 Marzo 2016
C'è stato un particolare momento, tra i tanti di ieri sera, che mi ha fatto capire quanto Jesse Malin sia un grande artista. Paradossalmente però la musica si era zittita, sono cresciuti gli applausi e il sipario era appena calato dopo quasi tre ore di concerto (comprese le buonissime aperture del giovane Trapper Schoepp-ne sentiremo parlare-e il tosto set dell'esperto Don DiLego che oltre a presentare il suo nuovo lavoro ha proposto una 'State Trooper' di Springsteen mica male). Il concerto era appena terminato. Finito. Ma torniamo indietro di tre minuti. Ultima canzone in scaletta è 'You Know It's Dark When Atheists Start To Pray', brano che conclude anche l'ultimo album OUTSIDERS, suonata in stile New Orleans con tromba e sax in grande evidenza. Malin balza giù dal palco insieme ai fiati, come del resto ha fatto più volte durante la serata (riuscendo pure a far sedere tutta la sala senza troppi sforzi), e cammina in mezzo al pubblico che riempie la Latteria Molloy, continuando a cantare e portando al termine la canzone dal banchetto del merchandising dove pochi istanti dopo, posato il microfono, inizia a firmare autografi e posare per le consuete foto. Fino alla chiusura del locale. Bene, in questo inconsueto finale ho visto tutta l'attitudine e la passione di un artista che vive ancora il rock in modo sano. Libero. Con la ingenua visione da fan che ancora lo attanaglia e le numerose cover che piazza durante i suoi concerti testimoniano benissimo quanto sia ancora un prigioniero del rock'n'roll senza via di scampo: 'Russian Roulette' dei sempre dimenticati Lords Of The New Church di Stiv Bators è stata tra i pezzi forti della serata, le sue pose, i suoi movimenti ricordano spesso lo Springsteen dell'Hammersmith Odeon, annata 1975. Ma lui è ancora lontanissimo da quelle barriere artista-pubblico che a certi livelli diventano insostenibili, se non odiose quando non c'è rispetto da entrambe le parti. E di barriere, anche tra generi musicali, ieri sera ne sono state abbattute parecchie. Lo stesso Malin ci ha scherzato su quando ha posato la chitarra acustica che lo faceva sembrare un "Jesse Cougar Mellencamp" per incamminarsi verso l'infuocato finale che lo ha riportato ai tempi dei D Generation, primi anni novanta, con due versioni da togliere il fiato di 'Rudie Can't Fail' (Clash) e 'Do You Remember Rock'n'Roll Radio' (Ramones). E poi c'è stata la sua New York che ha sempre aleggiato nell'aria, la difficile infanzia al Queens superata camminando dal lato giusto della strada come dirà parlando di quel suo debutto solista THE FINE ART OF SELF DESTRUCTION uscito nel 2003: i giornalisti hanno sempre associato la Grande Mela e quel titolo alle droghe che però non hanno mai avuto troppa importanza nella sua vita. Stasera abbiamo avuto la conferma: Jesse Malin si è sempre fatto di rock'n'roll. Anche a musica finita.
SETLIST: She's So Dangerous/Boots Of Immigration/Hotel Columbia/Addicted/Downliner/The Year That I Was Born/If I Should Fall From Grace With God (THE POGUES)/She Don't Love Me Now/Outsiders/Bar Life/Death Star/Mona Lisa/Wendy/Turn Up The Mains/Russian Roulette (LORDS OF THE NEW CHURCH)/All The Way From Moscow/Rudie Can't Fail (THE CLASH)/Do You Remember Rock'n'Roll Radio (RAMONES)/You Know It's Dark When Atheists Start To Pray
domenica 6 marzo 2016
RECENSIONE:STEVE FORBERT (Compromised)
STEVE FORBERT
Compromised
(Rock Ridge Music, 2016)
Nessun compromesso
Superato l’impatto cromatico con la poco riuscita copertina che in qualche modo sembra voler ricordare il suo capolavoro JACKRABBIT SLIM del 1979, quel secondo disco di un autore che a soli venticinque anni sembrava predestinato a seguire le orme dei grandi folk singer , il nuovo album è tutto in discesa pur se tenuto in piedi dal gran mestiere. Forbert un grande lo è a tutti gli effetti ma la sua carriera si è sviluppata sempre dietro al sipario che divide il palco delle star dal backstage di chi, per sfortuna o (strana) scelta, il pubblico delle grandi occasioni davanti a sé lo ha visto raramente. Il sedicesimo album è la summa della carriera (folk, rock e gusto pop) con un marcato accento nostalgico che esce in due tracce: ‘You’d See the Things That I See (The Day John Met Paul)’, in cui cerca di descrivere il primo incontro tra gli adolescenti John Lennon e Paul McCartney e ‘Welcome To The Rolling Stones’ in cui si immedesima in chi era presente nel triste concerto degli Stones ad Altamont nel 1969. Se non è amore per la musica questo… (Enzo Curelli) da Classic Rock # (Marzo, 2016)
Nessun compromesso
Superato l’impatto cromatico con la poco riuscita copertina che in qualche modo sembra voler ricordare il suo capolavoro JACKRABBIT SLIM del 1979, quel secondo disco di un autore che a soli venticinque anni sembrava predestinato a seguire le orme dei grandi folk singer , il nuovo album è tutto in discesa pur se tenuto in piedi dal gran mestiere. Forbert un grande lo è a tutti gli effetti ma la sua carriera si è sviluppata sempre dietro al sipario che divide il palco delle star dal backstage di chi, per sfortuna o (strana) scelta, il pubblico delle grandi occasioni davanti a sé lo ha visto raramente. Il sedicesimo album è la summa della carriera (folk, rock e gusto pop) con un marcato accento nostalgico che esce in due tracce: ‘You’d See the Things That I See (The Day John Met Paul)’, in cui cerca di descrivere il primo incontro tra gli adolescenti John Lennon e Paul McCartney e ‘Welcome To The Rolling Stones’ in cui si immedesima in chi era presente nel triste concerto degli Stones ad Altamont nel 1969. Se non è amore per la musica questo… (Enzo Curelli) da Classic Rock # (Marzo, 2016)
mercoledì 2 marzo 2016
RECENSIONE: SUPERSONIC BLUES MACHINE (West Of Flushing, South Of Frisco)
SUPERSONIC BLUES MACHINE West Of Flushing, South Of Frisco (Mascot Records, 2016)
Un mese fa avevo anticipato l’uscita. Ora i SUPERSONIC BLUES MACHINE (nome abbastanza orribile in verità) sono realtà concreta nel mio stereo. WEST OF FLUSHING, SOUTH OF FRISCO è l'album di debutto di questo nuovo power blues trio esistente dal 2012 e formato in realtà da tre veterani dell'ambiente musicale: il texano Lance Lopez (cantante e chitarrista con una buona carriera solista), Fabrizio Grossi (bassista, principale songwriter e produttore del lavoro) dalle chiare origini italiane e prezzemolo "fior fiore di professionista" Kenny Aronoff (batteria). Si candida, fin da ora, a diventare uno dei dischi più bollenti di questo primo scorcio del 2016, pur non proponendo nulla di assolutamente nuovo ma facendo leva sulla varietà, il mestiere e le ospitate, anche se loro dicono di essere una sola, unica grande famiglia. Progetto aperto quindi. Potente blues dalle massicce fiammate hard (‘I Ain't Fallin' Again’), southern rock ('Miracle man' con la slide in evidenza) ma anche tanto amore per il soul, il funky (la divertente ‘Watchagonnado’) e le atmosfere notturne che avvolgono la cover di ‘Ain’t No Love (In The Heart Of The City’ di Bobby "Blue" Bland, conosciuta anche nella versione dei Whitesnake.
E poi con una lista di ospiti così provano a vincere già in partenza: Billy Gibbons, padrino del progetto, nella esplosiva e alcolica 'Running Whiskey' scarto dell’ultimo LA FUTURA dei ZZ Top, Warren Haynes che piazza un assolo mirabolante in 'Remedy', e ancora Robben Ford nella ballata pianistica ‘Let’s Call It a Day’, Eric Gales nella rocciosa ‘Nightmare’s And Dreams’, il redivivo Walter Trout in ‘Can’t Take It No More’ tra i picchi del disco se non altro per le ultime vicissitudini di quest'ultimo, e Chris Duarte in ‘That’s My Way’. Piacevole ascolto con chitarre in grande spolvero da cima a fondo.
vedi anche
RECENSIONE: MONSTER TRUCK-Sittin' Heavy (2016)
Un mese fa avevo anticipato l’uscita. Ora i SUPERSONIC BLUES MACHINE (nome abbastanza orribile in verità) sono realtà concreta nel mio stereo. WEST OF FLUSHING, SOUTH OF FRISCO è l'album di debutto di questo nuovo power blues trio esistente dal 2012 e formato in realtà da tre veterani dell'ambiente musicale: il texano Lance Lopez (cantante e chitarrista con una buona carriera solista), Fabrizio Grossi (bassista, principale songwriter e produttore del lavoro) dalle chiare origini italiane e prezzemolo "fior fiore di professionista" Kenny Aronoff (batteria). Si candida, fin da ora, a diventare uno dei dischi più bollenti di questo primo scorcio del 2016, pur non proponendo nulla di assolutamente nuovo ma facendo leva sulla varietà, il mestiere e le ospitate, anche se loro dicono di essere una sola, unica grande famiglia. Progetto aperto quindi. Potente blues dalle massicce fiammate hard (‘I Ain't Fallin' Again’), southern rock ('Miracle man' con la slide in evidenza) ma anche tanto amore per il soul, il funky (la divertente ‘Watchagonnado’) e le atmosfere notturne che avvolgono la cover di ‘Ain’t No Love (In The Heart Of The City’ di Bobby "Blue" Bland, conosciuta anche nella versione dei Whitesnake.
E poi con una lista di ospiti così provano a vincere già in partenza: Billy Gibbons, padrino del progetto, nella esplosiva e alcolica 'Running Whiskey' scarto dell’ultimo LA FUTURA dei ZZ Top, Warren Haynes che piazza un assolo mirabolante in 'Remedy', e ancora Robben Ford nella ballata pianistica ‘Let’s Call It a Day’, Eric Gales nella rocciosa ‘Nightmare’s And Dreams’, il redivivo Walter Trout in ‘Can’t Take It No More’ tra i picchi del disco se non altro per le ultime vicissitudini di quest'ultimo, e Chris Duarte in ‘That’s My Way’. Piacevole ascolto con chitarre in grande spolvero da cima a fondo.
vedi anche
RECENSIONE: MONSTER TRUCK-Sittin' Heavy (2016)
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