JOHN HIATT Dirty Jeans and Mudslide Hymns (NEW WEST Records, 2011)
Il buon Hiatt sembra averci preso gusto e anche quest'anno ci delizia l'estate con una nuova uscita a breve distanza dai suoi due, ottimi ultimi dischi: Same Old Man(2008) e The Open Road(2010), confermando tuttavia una prolificità da primato in questo nuovo millenio.
Registrato a Nashville, il suo ventesimo disco in carriera si può senza dubbio considerare il fratello del precedente, anche se alcune sostanziali differenze ne danno una lettura diversa. A partire dalla produzione affidata, questa volta ad un esterno, Kevin Shirley, produttore sudafricano noto soprattutto per i suoi lavori con gruppi di area heavy/hard rock.
Piace la tesa apertura affidata al primo singolo Damn this Town, una rock/ballad irrequieta e chitarristica, oscura ed affilata dove la sua band The Combo (Kenneth Blevins-batteria, Doug Lancio-chitarre, Patrick O'Hearn-basso) si mette in mostra accompagnando un testo che fa affiorare storie di vita in tempi duri da vivere per tutti.
Apertura di disco fuorviante, comunque, perchè il resto delle canzoni si adagia in tutta rilassatezza su un suono americana e roots che tocca l'elettrico ma poche volte si lascia andare al rock mantenendo comunque un suo carattere fortemente malinconico ed oscuro.
Un disco sempre in bilico tra la vita e l'amore, anche quando quest'ultimo sentimento è rivolto ad una macchina. E' il caso di Detroit Made dove Hiatt proclama tutto il suo amore per la Buick Electra 225, classico macchinone "vintage" americano soprannominato "Deuce and a quarter", con un divertente rock'n'roll "on the road". Ancora viaggi, questa volta cambiando mezzo di trasporto, in Train to Birmingham, un country/folk da viaggio tutto americano (...I been ridin' on this train, Drinkin' whiskey for the pain, just another good ol' boy goin home).
Le canzoni del cantautore dell'Indiana continuano la riscoperta della tradizione avvenuta ormai da alcuni dischi a questa parte, senza perdere di vista la varietà musicale che lo porta ad eseguire canzoni che toccano il rock come nell'opener, il blues, così come il country/folk, esempio ne sono le pedal steel che disegnano spazi dilatati nella celebrazione dell'amore in 'Til get my lovin'back.
Down Around My place è una delle due gemme del disco secondo il mio punto di vista, poetica e malinconica ballad che si apre in acustico fino a quando la chitarra elettrica di Doug Lancio irrompe per poi spegnersi così come era iniziata, l'altra è Hold on for your love, una dark ballad che nasconde un'anima soul con la voce di Hiatt e gli assoli di chitarra dilatati che fanno il resto. Bellissima.
La splendida e nera voce di Hiatt risalta anche nel blues di All the way Under.
Sprazzi di malinconici raggi di un tramonto west coast illuminano Adios to California, un'altra ballad fortemente evocativa (...Living in the canyon then Hangdown Hanna and Whiskey Jim, Dirty jeans and mudslide hymns, That all began with soon...) mentre un'orchestra fa capolino in Don't wanna leave you now , Hiatt canta la paura della perdita che accompagna un quasi sessantenne.
I love that Girl è divertita e leggera tanto quanto When New York had her heart broke è una lenta, triste e commossa dedica a chi esattamente l'11 Settembre di dieci anni fa piangeva i suoi cari nel cuore di New York.
Prendendo come metro di paragone gli ultimi dischi di Hiatt, quindi lasciando fuori i suoi capolavori Bring the family(1987) e Slow turning(1988), questo è quello che a pochi giorni dall'ascolto mi ha colpito di più, grazie ad un carattere uniforme e quasi darkeggiante negli umori, un disco sentito che conferma lo splendido stato di grazia del suo autore che continua un periodo di alta prolificità senza perderne in qualità. Buona e rara dote.
venerdì 29 luglio 2011
martedì 26 luglio 2011
BOB DYLAN & MARK KNOPFLER, unTOUR insieme a NOVEMBRE 2011: un rapporto di amore/odio lungo trent'anni...
L'annuncio del tour autunnale,che toccherà anche l'Italia, fa riemergere antichi ricordi di amore e odio tra Bob Dylan e Mark Knopfler. L'americano e l'inglese incrociarono le loro strade per la prima volta nel lontano 1979. Dylan stava entrando dentro il tunnel della sua conversione religiosa che lo porterà ad incidere un trittico fortemente influenzato dalla fede, Knopfler aveva appena pubblicato il primo e fortunato album dei suoi Dire Straits ed era in procinto di uscire con il seguito Communiqué, con il suo nome che inizia a girare nello star system, proiettandolo tra le nuove stelle del rock mondiale.
Dylan dopo aver assistito a Los Angeles ad uno show dei Dire Straits, rimase talmente folgorato dalla loro musica che attraverso l'intermissione di Jerry Wexler, produttore che aveva appena finito di collaborare con i Dire Straits per la stesura del loro secondo album Communiquè, avvicinò Knopfler proponendogli la collaborazione.
Tra i due fu subito uno scambio di complimenti"...sono un fan di Dylan da quando avevo undici anni..." e "Mark mi imita meglio di chiunque altro" parlano da soli.
Il risultato fu la stesura di Slow train coming che uscì nel 1979. Un disco che all'epoca stupì ma con il senno di poi si può considerare tra le cose migliori di Dylan. E se i testi non lasciano dubbi sulla scelta di Dylan, ebreo che aderisce ad una setta cristiana ( lo stesso Mark Knopfler fu stupito e incredulo quando ne venne a conoscenza e ascoltò i testi) a livello musicale è l'album più smaccatamente soul e "black" di Dylan.
Knopfler che si portò dietro il batterista Pick Withers lascia la sua riconoscibile impronta chitarristica in rock blues come Gotta serve somebody, Slow Train, Gonna change my way of thinking, nella ballad Precoius Angel ed in episodi particolari come la "reggaeggiante" Man gave names to all the animals.
Bisognerà aspettare il 1983 per vedere la coppia nuovamente al lavoro insieme in studio. Nel frattempo le situazioni si erano ribaltate. I Dire Straits erano nell'olimpo del rock, i loro concerti riempivano gli stadi, i loro album, Making Movies (1980) su tutti, vendevano benissimo e Mark Knopfler era un guitar-hero apprezzato. Dylan per contro, pagò la sua conversione, in termini di popolarità (a molti vecchi fans non andò giù questa svolta) e anche in termini artistici, Saved(1980) e Shot of love(1981) sono abbastanza controversi a livello testuale e pasticciati nella produzione, senza lasciare ricordo di canzoni memorabili.
Accortosi della deriva che la sua musica stava prendendo, Dylan cercò di rimediare andando a ricercare Knopfler, ma questa volta lo volle come produttore e non solamente come semplice esecutore finale. Infidels(1983) a conti fatti è uno dei
migliori lavori di Dylan ma poteva essere ancora meglio. Abbandonati in parte i testi da predicatore religioso, Dylan si ributta anche sul sociale (Union Sundown) e nel politico(Neighborhood Bully) e grazie all'apporto dello stesso Knopfler alla chitarra, dell'altro Dire Straits, Alan Clark alle tastiere, di Mick Taylor(ex Rolling Stones) alla chitarra e della sezione ritmica dei giamaicani Dumbar-Shakespeare confeziona un album fresco e in linea con i tempi. Jokerman diventerà un buon successo(il video passò anche nella allora nascente MTV). C'è però un episodio che scalfisce l'amicizia tra Dylan e Knopfler.
Durante la fase di registrazione, il chitarrista inglese dovette assentarsi per impegni live presi dai Dire Straits. Durante la sua assenza, Dylan, smanioso di
portare a termire il lavoro in tempi rapidi(uno dei grandi difetti di Dylan), mise mano alle canzoni in fase di produzione, rivoluzionandone l'aspetto e togliendo inspiegabilmente dalla scaletta finale del disco alcune perle che riappariranno in seguito( Blind Willie McTell su tutte). Naturale che a Knopfler, finito il tour con i Dire Straits, le scelte di Dylan non andarono a genio e la loro amicizia si interruppe bruscamente, tanto che i due non si parleranno più per alcuni anni.
Tracce di Knopfler su dischi di Dylan si troveranno ancora su Death is not the end, canzone inclusa su Down in the groove(1988) , ma risalente al periodo di Infidels.
Ora, anno 2011, le strade dei due si incontrano nuovamente per questo tour che celebrerà i 70 anni di Dylan, ognuno con la sua band, in uno show che molto probabilmente si dividerà in tre parti con la terza che li vedrà insieme sul palco(almeno la logica fa pensare a questo, anche se con Dylan, la logica, a volte, non serve). Sulla natura di questo tour si è già detto di tutto, rimpatriata tra vecchi amici, una mera mossa commerciale atta a far cassa, l'inizio di una nuova collaborazione. Vedremo. Di seguito le date del tour italiano:
09/11/2011, Palasport Arcella di Padova
11/11/2011, Nelson Mandela Forum di Firenze
12/11/2011, Palalottomatica di Roma
14/11/2011, Mediolanum Forum di Assago (Milano
RECENSIONE concerto DYLAN/KNOPFLER del 14/11/2011 Forum di Assago:
http://enzocurelli.blogspot.com/2011/11/recensionereportage-bob-dylanmark.html?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+Enzocurelli+%28enzo.curelli%29
lunedì 25 luglio 2011
RECENSIONE: GENTLEMANS PISTOLS (At Her Majesty's Pleasure)
GENTLEMANS PISTOLS At Her Majesty's Pleasure (Rise Above, 2011)
Seconda prova per il gruppo britannico, nato nel 2003 a Leeds,con una rilevante e determinante novità in organico che ne fa compiere un bel passo in avanti in qualità e uno indietro nel tempo, rispetto al pur buon esordio omonimo del 2007.
La novità ha un nome e cognome, Bill Steer e un curriculum da veterano della scena metal estrema britannica da metà anni ottanta ad oggi. Dopo aver gettato le coordinate del grind metal in seno a Napalm Death e Carcass, da alcuni anni Steer ha messo in piedi il suo progetto Firebird (anche loro freschi di uscita con il pregevole Double Diamond ), gruppo dedito ad una rivisitazione dei grandi anni settanta di matrice hard rock/blues (consigliato il loro "Hot Wings"-2006-). Non stupisce quindi il suo nuovo ruolo di chitarrista nei Gentlemans Pistols.
Guidati dal cantante James Atkinson, anche produttore , il gruppo si fa portabandiera di una rinascita del hard rock blues in terra d'albione, lontano dai proclami a prima colonna dei grandi magazine inglesi, ma vicini ad una attitudine sporca e senza compromessi che lascia comunque spazio alla melodia.
Steer porta una componente metal debitrice del primissimo proto metal inglese di fine anni settanta, Comfortably Crazy potrebbe benissimo essere una outtake del primo omonimo album degli Iron Maiden mentre Your Majesty strizza l'occhio ai Thin Lizzy di Phil Lynott . Riff chitarristici caldi e pastosi e una sezione ritmica (Stuart Dobbins alla batteria e Douglas McLaughlan al basso) incalzante e senza cedimenti. Il repertorio dei Gentlemans Pistols è vario e attento a toccare tutte le espressioni del rock seventies, Midnight Crawler e Into the Haze si presentano più pesanti e sulfuree lambendo il doom, l'iniziale Living in Sin again e I Wouldn't let you sono due rock'n'roll songs tirate e divertenti. Some girls don't know what's good è un hard/blues al fulmicotone con un break acustico che sa tanto di dirigibile.
Pur essendo il disco di durata abbastanza limitata, nel finale si perde, senza comunque che questo scalfisca la passione e la dedizione dei musicisti coinvolti. Un ascolto più che piacevole dove la parola vintage è usata ancora in modo creativo.
Seconda prova per il gruppo britannico, nato nel 2003 a Leeds,con una rilevante e determinante novità in organico che ne fa compiere un bel passo in avanti in qualità e uno indietro nel tempo, rispetto al pur buon esordio omonimo del 2007.
La novità ha un nome e cognome, Bill Steer e un curriculum da veterano della scena metal estrema britannica da metà anni ottanta ad oggi. Dopo aver gettato le coordinate del grind metal in seno a Napalm Death e Carcass, da alcuni anni Steer ha messo in piedi il suo progetto Firebird (anche loro freschi di uscita con il pregevole Double Diamond ), gruppo dedito ad una rivisitazione dei grandi anni settanta di matrice hard rock/blues (consigliato il loro "Hot Wings"-2006-). Non stupisce quindi il suo nuovo ruolo di chitarrista nei Gentlemans Pistols.
Guidati dal cantante James Atkinson, anche produttore , il gruppo si fa portabandiera di una rinascita del hard rock blues in terra d'albione, lontano dai proclami a prima colonna dei grandi magazine inglesi, ma vicini ad una attitudine sporca e senza compromessi che lascia comunque spazio alla melodia.
Steer porta una componente metal debitrice del primissimo proto metal inglese di fine anni settanta, Comfortably Crazy potrebbe benissimo essere una outtake del primo omonimo album degli Iron Maiden mentre Your Majesty strizza l'occhio ai Thin Lizzy di Phil Lynott . Riff chitarristici caldi e pastosi e una sezione ritmica (Stuart Dobbins alla batteria e Douglas McLaughlan al basso) incalzante e senza cedimenti. Il repertorio dei Gentlemans Pistols è vario e attento a toccare tutte le espressioni del rock seventies, Midnight Crawler e Into the Haze si presentano più pesanti e sulfuree lambendo il doom, l'iniziale Living in Sin again e I Wouldn't let you sono due rock'n'roll songs tirate e divertenti. Some girls don't know what's good è un hard/blues al fulmicotone con un break acustico che sa tanto di dirigibile.
Pur essendo il disco di durata abbastanza limitata, nel finale si perde, senza comunque che questo scalfisca la passione e la dedizione dei musicisti coinvolti. Un ascolto più che piacevole dove la parola vintage è usata ancora in modo creativo.
sabato 23 luglio 2011
RECENSIONE e INTERVISTA: VERILY SO (Verily So)
VERILY SO Verily So (Inconsapevole Records, 2011)
Lo sguardo che si perde nella polvere alzata dai piccoli tornado di vento che scompigliano la tranquillità di quelle tipiche ghost town americane, dove vecchie case di legno dormono abbandonate nascondendo chissà quali storie e vite passate, l’udito è sordo ed incapace di cogliere rumori. I livornesi di Cecina, Verily So con le canzoni del loro debutto saprebbero infrangere quel silenzio creando un connubio musica-luogo perfetto.
I Verily So nascono nel 2009 ma solamente nel 2010 diventano un trio in pianta stabile. Già con un ep all’attivo “Just a Demo”(2010) la band è composta da tre polistrumentisti: Maria Laura Specchia, Simone Stefanini, Luca Dalpiaz che si dividono anche le vocals con risultati straordinari.
Gli spazi dilatati che emergono dal “dark” folk di canzoni come l’ipnotizzante Ordinary Minds, con la straordinaria voce femminile a disegnare malinconia nell’aria, come nell’apertura Wax Mask...
continua su Impatto Sonoro...
INTERVISTA
La prima cosa che mi preme sottolineare è quanto, quasi tutte le recensioni che ho letto su di voi , sottolineassero il fatto o meglio si domandassero se la vostra provenienza fosse proprio l’Italia. Ora ho la possibilità di chiedervelo di persona…siete italiani(o alieni?)?
Siamo italiani di provincia.
Appurato che siete italiani(…di provincia), riuscite a collocarvi in qualche modo e da qualche parte, nella scena musicale italiana?
Ai margini, come tutte le band medio piccole a cui vengono proposti concerti in ristoranti e pub. In Italia vanno, se non si fosse capito, i raccomandati, le cover band e le vecchie glorie.
Ho notato come anche in Italia, in questi anni, vi sia una riscoperta del folk di matrice americana(anche se le vostre influenze sono più ampie e varie), come vi spiegate questo fenomeno?
Secondo me è l’ultimo straccio di sogno americano, quello senza glitter, quello della gente di strada che canta. E’ lo spiritual contemporaneo, di quelli cresciuti con l’elettricità.
E’ semplice e possono farlo tutti. E’ il folk del dopo bomba, anche se la bomba come la immaginavamo non c’è stata, ce n’è stata una diversa, subdola.
continua su Impatto Sonoro...
Qui sotto l'intero album in streaming:
Lo sguardo che si perde nella polvere alzata dai piccoli tornado di vento che scompigliano la tranquillità di quelle tipiche ghost town americane, dove vecchie case di legno dormono abbandonate nascondendo chissà quali storie e vite passate, l’udito è sordo ed incapace di cogliere rumori. I livornesi di Cecina, Verily So con le canzoni del loro debutto saprebbero infrangere quel silenzio creando un connubio musica-luogo perfetto.
I Verily So nascono nel 2009 ma solamente nel 2010 diventano un trio in pianta stabile. Già con un ep all’attivo “Just a Demo”(2010) la band è composta da tre polistrumentisti: Maria Laura Specchia, Simone Stefanini, Luca Dalpiaz che si dividono anche le vocals con risultati straordinari.
Gli spazi dilatati che emergono dal “dark” folk di canzoni come l’ipnotizzante Ordinary Minds, con la straordinaria voce femminile a disegnare malinconia nell’aria, come nell’apertura Wax Mask...
continua su Impatto Sonoro...
INTERVISTA
La prima cosa che mi preme sottolineare è quanto, quasi tutte le recensioni che ho letto su di voi , sottolineassero il fatto o meglio si domandassero se la vostra provenienza fosse proprio l’Italia. Ora ho la possibilità di chiedervelo di persona…siete italiani(o alieni?)?
Siamo italiani di provincia.
Appurato che siete italiani(…di provincia), riuscite a collocarvi in qualche modo e da qualche parte, nella scena musicale italiana?
Ai margini, come tutte le band medio piccole a cui vengono proposti concerti in ristoranti e pub. In Italia vanno, se non si fosse capito, i raccomandati, le cover band e le vecchie glorie.
Ho notato come anche in Italia, in questi anni, vi sia una riscoperta del folk di matrice americana(anche se le vostre influenze sono più ampie e varie), come vi spiegate questo fenomeno?
Secondo me è l’ultimo straccio di sogno americano, quello senza glitter, quello della gente di strada che canta. E’ lo spiritual contemporaneo, di quelli cresciuti con l’elettricità.
E’ semplice e possono farlo tutti. E’ il folk del dopo bomba, anche se la bomba come la immaginavamo non c’è stata, ce n’è stata una diversa, subdola.
continua su Impatto Sonoro...
Qui sotto l'intero album in streaming:
giovedì 21 luglio 2011
RECENSIONE: WILLIAM ELLIOTH WHITMORE ( Field Songs)
WILLIAM ELLIOTH WHITMORE Field Songs (ANTI, 2011)
C'è qualcosa in più negli occhi di chi ha lavorato la terra per anni , staccando lo sguardo dal terreno solo per vedere il colore del cielo e i raggi accecanti del sole, vero padrone del raccolto annuale. Sole che brucia la pelle, la invecchia prima del tempo ma che sa anche colorare quegli occhi che parlano più di tante bocche aperte dentro ad un mercato di città. William Ellioth Withmore è cresciuto in quei campi nello Iowa e la semplicità di quella vita l'ha trasformata nella sua musica. Forse lui quei campi non li ha mai arati alla vecchia e faticosa maniera dei suoi avi e il richiamo della città è stato fatale e inevitabile come tutti quelli della sua generazione, ma ascoltandolo si capisce come quel mondo rurale faccia parte del suo DNA.
Dopo una gioventù passata intorno al punk rock, il richiamo della semplicità ha prevalso anche nella sua scelta artistica e del suo passato sono rimasti i tatuaggi che gli coprono gran parte del corpo. Field Songs è il suo ottavo album dal 2003 e come gli altri e più degli altri è ancora più spoglio: chitarra, banjo, qualche battito di piede e la sua incredibile voce. Mezz'ora di musica dove i rumori della campagna ci accompagnano in sottofondo dall'inizio alla fine. Una passeggiata con uccelli cinguettanti, galli, vento che sbuffa e rumori di zappa in lontananza che tradiscono subito il legame di Whitmore con la terra e la natura.
La voce di Whitmore è straordinaria, profonda e vissuta e non potrebbe essere voce migliore a raccontare la dura vita del lavoro di campagna( Field Song) , come se i fantasmi dei vecchi cantanti gospel-blues si fossero impossessati delle sue corde vocali e facessero cantare a lui quello che cantavano prima che le loro preghiere in musica venissero adottate e trasformate dall'uomo bianco. Whitmore (classe 1978) fa da portavoce e ponte tra i suoi avi, nonni e bisnonni, e la società di oggi.
La sua vita di campagna non è però colorata di verde e azzurro ma scava nella sofferenza di una esistenza condotta a stenti e sacrifici e molto deriva dalla sua esperienza, che lo ha visto molto presto privo di entrambi i genitori. Il senso di perdita è riscontrabile e presente come un marchio a fuoco, nelle sue liriche.
Le scarne partiture di canzoni folk , ti entrano dentro e il gioco di immedesimazione è forte e stupefacente. Se l'ultimo disco "Animals in the dark"(2008), lasciava un minimo spazio ad altri strumenti qui tutto è ridotto all'osso e graffia animo e corpo. L'unica concessione è il ritmo percussivo tenuto dal piede in alcune canzoni (Not feeling any pain, Don't need it). Una semplicità che stordisce, quanto è potente il messaggio. Difficile rimanere indifferenti e non amare ballate per voce e chitarra (Everithing gets gone) che disegnano paesaggi che sembrano lontani nel tempo ma che ancora oggi, sopravvivono in posti non così sperduti come il consumismo vuole farci credere e Whitmore è qui a testimoniarcelo. I ricordi della povertà, Let's do something impossible, lungo i campi del Mississippi in tempi di guerra possono essere gli stessi di chi ha vissuto il grande esodo dalle campagne in città, alla ricerca della fortuna nel dopoguerra italiano.
Whitmore si conferma come il più giovane dei "vecchi", un cantastorie d'altri tempi, con una straordinaria voce che fa trasparire tutta la passione e la devozione, dando una seconda vita alle sue antiche, nuove storie.
C'è qualcosa in più negli occhi di chi ha lavorato la terra per anni , staccando lo sguardo dal terreno solo per vedere il colore del cielo e i raggi accecanti del sole, vero padrone del raccolto annuale. Sole che brucia la pelle, la invecchia prima del tempo ma che sa anche colorare quegli occhi che parlano più di tante bocche aperte dentro ad un mercato di città. William Ellioth Withmore è cresciuto in quei campi nello Iowa e la semplicità di quella vita l'ha trasformata nella sua musica. Forse lui quei campi non li ha mai arati alla vecchia e faticosa maniera dei suoi avi e il richiamo della città è stato fatale e inevitabile come tutti quelli della sua generazione, ma ascoltandolo si capisce come quel mondo rurale faccia parte del suo DNA.
Dopo una gioventù passata intorno al punk rock, il richiamo della semplicità ha prevalso anche nella sua scelta artistica e del suo passato sono rimasti i tatuaggi che gli coprono gran parte del corpo. Field Songs è il suo ottavo album dal 2003 e come gli altri e più degli altri è ancora più spoglio: chitarra, banjo, qualche battito di piede e la sua incredibile voce. Mezz'ora di musica dove i rumori della campagna ci accompagnano in sottofondo dall'inizio alla fine. Una passeggiata con uccelli cinguettanti, galli, vento che sbuffa e rumori di zappa in lontananza che tradiscono subito il legame di Whitmore con la terra e la natura.
La voce di Whitmore è straordinaria, profonda e vissuta e non potrebbe essere voce migliore a raccontare la dura vita del lavoro di campagna( Field Song) , come se i fantasmi dei vecchi cantanti gospel-blues si fossero impossessati delle sue corde vocali e facessero cantare a lui quello che cantavano prima che le loro preghiere in musica venissero adottate e trasformate dall'uomo bianco. Whitmore (classe 1978) fa da portavoce e ponte tra i suoi avi, nonni e bisnonni, e la società di oggi.
La sua vita di campagna non è però colorata di verde e azzurro ma scava nella sofferenza di una esistenza condotta a stenti e sacrifici e molto deriva dalla sua esperienza, che lo ha visto molto presto privo di entrambi i genitori. Il senso di perdita è riscontrabile e presente come un marchio a fuoco, nelle sue liriche.
Le scarne partiture di canzoni folk , ti entrano dentro e il gioco di immedesimazione è forte e stupefacente. Se l'ultimo disco "Animals in the dark"(2008), lasciava un minimo spazio ad altri strumenti qui tutto è ridotto all'osso e graffia animo e corpo. L'unica concessione è il ritmo percussivo tenuto dal piede in alcune canzoni (Not feeling any pain, Don't need it). Una semplicità che stordisce, quanto è potente il messaggio. Difficile rimanere indifferenti e non amare ballate per voce e chitarra (Everithing gets gone) che disegnano paesaggi che sembrano lontani nel tempo ma che ancora oggi, sopravvivono in posti non così sperduti come il consumismo vuole farci credere e Whitmore è qui a testimoniarcelo. I ricordi della povertà, Let's do something impossible, lungo i campi del Mississippi in tempi di guerra possono essere gli stessi di chi ha vissuto il grande esodo dalle campagne in città, alla ricerca della fortuna nel dopoguerra italiano.
Whitmore si conferma come il più giovane dei "vecchi", un cantastorie d'altri tempi, con una straordinaria voce che fa trasparire tutta la passione e la devozione, dando una seconda vita alle sue antiche, nuove storie.
lunedì 18 luglio 2011
RECENSIONE: PAUL SIMON Live@Mjf Arena Civica, Milano 17 Luglio 2011
La prima magia della serata arriva pochi minuti prima dell'inizio del concerto. La pioggia che sembrava dovesse rovinare questa unica data italiana di Paul Simon, improvvisamente smette di scendere ed il minaccioso cielo nero sopra Milano, fortunatamente, non mantiene le promesse e si acquieta per tutto lo show. Tutti contenti, soprattutto i venditori dei famosi k-way (usa e getta) colorati di nylon, che hanno fatto il loro dovere pre-concerto e possono andare a casa con un cospicuo bottino.
Per le altre magie bisogna aspettare il piccolo uomo del New Jersey, che alle 21 precise sale sul palco e attacca con The Boy in the bubble presa dal multipremiato "Graceland" del 1986. La cornice del Milano Jazzin' Festival(non sarebbe ora di cambiare nome al festival? Visto che di jazz in cartellone ce n'è veramente poco) è la solita vecchia Arena Civica , che per il sottoscritto si presenta ancora una volta totalmente inadeguata per ospitare concerti o meglio potrebbe essere usata diversamente eliminando tribune(veramente lontanissime dal palco) e sedie (puntualmente a metà concerto ci si alza tutti in piedi e ci si avvicina al palco, quindi i posti numerati rimangono solo dei numeri sopra ad una sedia senza padrone).
Ma è meglio tornare alle magie e al mondo di Paul Simon che non conosce confini e steccati. Un musicista che avrebbe potuto vivere di rendita per tutta la vita con le sole canzoni cantate con il vecchio compare Art Garfunkel ed invece ha continuato a sperimentare e divertirsi con la musica raccolta in giro lungo tutti i continenti.
Stasera si presenta con una strepitosa "big" band ( tra cui i chitarristi Mark Stewart, e Vincent Nguini, il pianista Mick Rossi e il polistrumentista Tony Cedras), di otto strumentisti, multirazziale e perfettamente oliata, dai suoni brillanti e caldi. C'è da promuovere il nuovo disco (So Beautiful os So What) uscito questa primavera e bisogna dire che le canzoni estrapolate(...tante) si inseriscono alla perfezione con il vecchio materiale facendo dimenticare in fretta il mezzo passo falso di un lavoro come "Surprise" ,esperimento insieme a Brian Eno che non entusiasmò.
Le nuove: Dazzing Blue, So beatiful or so what(la canzone),The Afterlife, Rewrite e Questions for the Angels(cantata in solitaria) sono belle canzoni che continuano la personale ricetta di world music iniziata con Graceland, ancora a oggi, il suo bestseller anche durante i live. Dalla atmosfera di festa che sprigiona That was your mother, a Crazy Love vol II a Diamonds on the Soles of Her Shoes, "Graceland", rimane una delle opere musicali più coraggiose e riuscite di musica totale, in bilico tra America e Africa.
Simon non è di tantissime parole ma il suo modo di porsi, molto ossequioso verso il pubblico, che ringrazia spesso, lo rendono umile e assolutamente alla mano.
Nonostante possa attingere ad un vasto catalogo di canzoni autografe, Simon stasera inserisce anche alcune cover in scaletta, sottolineando la sua forte devozione musicale. Il reggae di Vietnam di Jimmy Cliff, a cui attacca la sua Mother and Child Reunion dal suo primo disco solista del 1972, scritta sempre con Cliff, il blues Mistery Train di Junior Parker, la country Wheels di Chet Atkins ed una stupenda versione di Here comes the sun ( Beatles).
Certo chi era venuto a vedere Simon sperando di sentire un buon numero di canzoni della coppia Simon & Garfunkel potrebbe tornare a casa deluso, ma fortunatamente quando si ha in mano un asso come The Sound of Silence, gli si perdona tutto. Eseguita con sola voce e chitarra, assolutamente folk, The Sound of Silence è una di quelle canzoni che anche se già ascoltata migliaia di volte, lascia il segno. Pubblico silenziosamente in piedi ed ipnotizzato, brividi ed ovazione finale. Serata portata a casa. Per la cronaca l'altra canzone del duo eseguita è stata The Only living boy in New York e non è stata da meno, con la voce di Simon che ha mantenuto intatta la magia di 40 e più anni fa.
Ci sono poi i classici da solista come Hearts and Bones(molto bella), la sempre scatenata e primordiale The Obvious Child, con le sue percussioni, Gone at last, Kodachrome, Slip slidin' away e Still crazy after all these years , eseguita nell'ultimo bis prima di concludere in festa con You can call me Al.
Un tripudio finale con Simon che presenta uno ad uno, dopo due ore e dieci minuti di concerto, i suoi bravi musicisti e lascia la scena con un piacevolissimo ricordo e uno scia di magia nell'aria.
SETLIST: Boy in the bubble, Dazzing blue, 50 ways to leave your lover, So beautiful or so what, Vietnam/ Mother and child reunion, That was your mother, Hearts and bones, Mistery train/Wheels, Slip slidin' away, Rewrite, Peace like a river, The obvious child, The only living boy in New York, The afterlife, Questions for the angels, Diamonds on the soles of her shoes, Gumboots, The sound of silence, Kodachrome, Gone at last, Here comes the sun, Crazy love vol II, Late in the evening, Still crazy after all these years, You can call me Al
sabato 16 luglio 2011
RECENSIONE: GENERAL STRATOCUSTER and THE MARSHALS
GENERAL STRATOCUSTER and the MARSHALS ( Rock Over Horus Records , 2011)
Prima di lasciare che l'affascinante fruscio della puntina appoggiata al vinile si trasformi in musica e ci travolga , è bene sottolineare quanto il debutto del supergruppo italiano General Stratocuster and the Marshals (ebbene sì anche in Italia abbiamo il nostro supergruppo di "vintage" rock)sia tra le più genuine uscite di puro e semplice rock uscito dai nostri confini negli ultimi anni, in compagnia dei friulani W.I.N.D.
Alla larga pseudo alternativi e viziati cantastorie salottieri in libera uscita, i General Stratocuster & the Marshals sono quanto di meglio si possa chiedere ad una band che suona rock'n'roll e non date retta a chi, invidioso, vi dice che sono derivativi, l'intera storia del rock lo è. Punto e a capo.
Nati come semplice svago da parte di esperti musicisti, vogliosi di jammare insieme nei tempi liberi in giro per gli scantinati di Firenze, il progetto ha preso forma e coraggio con la partecipazione a Pistoia blues 2010(esperienza replicata anche quest'anno) fino ad arrivare alla stesura dei dieci pezzi (più una cover) di questo debutto.
Un vero e proprio atto d'amore verso gli anni in cui al rock bastavano una chitarra ed un amplificatore(da qui l'originale nome) per dire tutto e far sognare. Dietro al monicker si nascondono l'esperienza del chitarrista Fabio Fabbri (Mr.General Stratocuster), il cantante Jacopo Meille (attuale vocalist dei britannici Tygers of Pan Tang, tra i primi esponenti della NWOBHM sul finire degli anni settanta, insieme a Iron Maiden e Saxon) , l'italo-americano Richard Ursillo al basso(ex componente di vari gruppi progressive degli anni settanta tra cui i Campo di Marte) e il batterista dei Bandabardò, Alessandro "Nuto" Nutini.
Quando la calda polvere americana del southern/country rock si sparge lungo le verdi vallate dell'hard rock/blues britannico finendo la sua corsa lungo gli argini dell'Arno. Una corsa verso la libertà musicale e di vita nel manifesto di Highway, con la voce di Meille che si staglia sopra tutto come il miglior Plant, il pianto blues di Little Miss Sunshine o della bella Great Ol' Times Blues, canto da saloon tra slide e pianoforte, il trascinante rock'n'roll di All Because of you con uno splendido riff di chitarra stoniano e la quadrata apertura affidata al rock di Gift & Gold.
Tra polvere di sabbia, whiskey e ruote bollenti sull'asfalto, una sosta, sdraiandosi nell'immensa distesa verde a contemplare il cielo è necessaria, cullandosi con Who's to blame e Today & Tomorrow ballate acustice, melodiche e sognanti , per poi ripartire all'ora del rosso tramonto sulle note southern, degne dei migliori Black Crowes, di Sweet Candy e della cover Fortunate son dei Creedence Clearwater Revival di John Fogerty, riletta in modo originale e divertente.
La giornata è terminata, il disco pure, domani è un altro giorno da vivere e il fruscio della puntina può ripartire ancora una volta...Grande passione.
Prima di lasciare che l'affascinante fruscio della puntina appoggiata al vinile si trasformi in musica e ci travolga , è bene sottolineare quanto il debutto del supergruppo italiano General Stratocuster and the Marshals (ebbene sì anche in Italia abbiamo il nostro supergruppo di "vintage" rock)sia tra le più genuine uscite di puro e semplice rock uscito dai nostri confini negli ultimi anni, in compagnia dei friulani W.I.N.D.
Alla larga pseudo alternativi e viziati cantastorie salottieri in libera uscita, i General Stratocuster & the Marshals sono quanto di meglio si possa chiedere ad una band che suona rock'n'roll e non date retta a chi, invidioso, vi dice che sono derivativi, l'intera storia del rock lo è. Punto e a capo.
Nati come semplice svago da parte di esperti musicisti, vogliosi di jammare insieme nei tempi liberi in giro per gli scantinati di Firenze, il progetto ha preso forma e coraggio con la partecipazione a Pistoia blues 2010(esperienza replicata anche quest'anno) fino ad arrivare alla stesura dei dieci pezzi (più una cover) di questo debutto.
Un vero e proprio atto d'amore verso gli anni in cui al rock bastavano una chitarra ed un amplificatore(da qui l'originale nome) per dire tutto e far sognare. Dietro al monicker si nascondono l'esperienza del chitarrista Fabio Fabbri (Mr.General Stratocuster), il cantante Jacopo Meille (attuale vocalist dei britannici Tygers of Pan Tang, tra i primi esponenti della NWOBHM sul finire degli anni settanta, insieme a Iron Maiden e Saxon) , l'italo-americano Richard Ursillo al basso(ex componente di vari gruppi progressive degli anni settanta tra cui i Campo di Marte) e il batterista dei Bandabardò, Alessandro "Nuto" Nutini.
Quando la calda polvere americana del southern/country rock si sparge lungo le verdi vallate dell'hard rock/blues britannico finendo la sua corsa lungo gli argini dell'Arno. Una corsa verso la libertà musicale e di vita nel manifesto di Highway, con la voce di Meille che si staglia sopra tutto come il miglior Plant, il pianto blues di Little Miss Sunshine o della bella Great Ol' Times Blues, canto da saloon tra slide e pianoforte, il trascinante rock'n'roll di All Because of you con uno splendido riff di chitarra stoniano e la quadrata apertura affidata al rock di Gift & Gold.
Tra polvere di sabbia, whiskey e ruote bollenti sull'asfalto, una sosta, sdraiandosi nell'immensa distesa verde a contemplare il cielo è necessaria, cullandosi con Who's to blame e Today & Tomorrow ballate acustice, melodiche e sognanti , per poi ripartire all'ora del rosso tramonto sulle note southern, degne dei migliori Black Crowes, di Sweet Candy e della cover Fortunate son dei Creedence Clearwater Revival di John Fogerty, riletta in modo originale e divertente.
La giornata è terminata, il disco pure, domani è un altro giorno da vivere e il fruscio della puntina può ripartire ancora una volta...Grande passione.
giovedì 14 luglio 2011
RECENSIONE: BLACK COUNTRY COMMUNION (2)
BLACK COUNTRY COMMUNION 2 (J/R Adventures-Mascot, 2011)
A Glenn Hughes, è tornata la voglia di cantare e suonare in una band e tutto nonostante i suoi ultimi tre album solisti siano veramente ottimi. L'uscita del secondo lavoro del supergruppo Black Country Communion ad un solo anno dal debutto è significativo, ma quello che più sembra importante , è la conferma della durabilità e bontà artististica del progetto ribadita a fuoco con il tour che ha toccato l'Italia nella tappa del 28 Giugno a Vigevano in compagnia di John Mayall..
Come tutti i supergruppi, nato come svago da tempi morti, i Black Country Communion sembra vogliano fare sul serio, spingendosi ancora oltre quanto fatto nel già buon esordio. Hughes ha trovato nel blues guitar hero Joe Bonamassa una spalla ideale su cui appoggiarsi per tornare all'hard rock, come ai vecchi tempi dei Deep Purple(mark III) negli anni settanta e Bonamassa a sua volta , con questa band, riesce a dare sfogo a certi riff pesanti, che nelle sue prove soliste sono solo abbozzati. Al tutto si aggiungono un Jason Bonham mai così in stato di grazia( e il padre da lassù osserva orgoglioso) e un Derek Sherinian alquanto prezioso con sue tastiere mai invasive ma fondamentali per ricreare un suono seventies.
Con questo secondo disco , i BCC estremizzano le canzoni, toccando punte hard che il primo disco solo sfiorava e momenti di pura melodia. Lo si capisce immediatamente dalle due canzoni d'apertura. The Outsider è una mazzata in pieno viso con Hughes che gioca a fare il verso a Chris Cornell ( o meglio sarebbe dire il contrario). Canzone pesante, immediatamente doppiata da Man in the middle, che sfodera il riff di chitarra miù moderno dell'intero disco, incisiva e immediatamente memorizzabile da sembrare già un piccolo classico.
Save me rimanda immediatamente a Kashmir dei Led Zeppelin. Una citazione più che voluta che comunque nella sua lunghezza si trasforma diventando una suite dove le tastiere dal sapore orientale suonate da Sherinian prendono il sopravvento. Canzone proposta da Bohaman e scritta durante la sua permanenza nella reunion dei Led Zeppelin e si sente.
Su Little Secret, un classico blues scritto da Hughes, Joe Bonamassa va a nozze mentre Crossfire alterna ottimi chorus melodici a riff pesanti e cadenzati. The battle for Hadrian's wall cantata da Bonamassa (sua la voce anche su An Ordinary son) parte acustica raggiungendo quel phatos e grandiosità che rievocano certe composizioni care ad un gruppo come gli Uriah Heep, mantenendo l'assetto acustico dei migliori Led Zeppelin "bucolici".
Una seconda prova che pareggia e supera in alcuni momenti il debutto, anche se richiede un ascolto più attento, soprattutto dovuto ad una produzione volutamente sporcata che inizialmente sembra fare da freno alla fluidità del disco. Un disco fatto da professionisti della musica che rincorre ancora le emozioni dettate dal cuore, ma questo con la presenza del carisma di Mr. Hughes era un dato assodato.
A Glenn Hughes, è tornata la voglia di cantare e suonare in una band e tutto nonostante i suoi ultimi tre album solisti siano veramente ottimi. L'uscita del secondo lavoro del supergruppo Black Country Communion ad un solo anno dal debutto è significativo, ma quello che più sembra importante , è la conferma della durabilità e bontà artististica del progetto ribadita a fuoco con il tour che ha toccato l'Italia nella tappa del 28 Giugno a Vigevano in compagnia di John Mayall..
Come tutti i supergruppi, nato come svago da tempi morti, i Black Country Communion sembra vogliano fare sul serio, spingendosi ancora oltre quanto fatto nel già buon esordio. Hughes ha trovato nel blues guitar hero Joe Bonamassa una spalla ideale su cui appoggiarsi per tornare all'hard rock, come ai vecchi tempi dei Deep Purple(mark III) negli anni settanta e Bonamassa a sua volta , con questa band, riesce a dare sfogo a certi riff pesanti, che nelle sue prove soliste sono solo abbozzati. Al tutto si aggiungono un Jason Bonham mai così in stato di grazia( e il padre da lassù osserva orgoglioso) e un Derek Sherinian alquanto prezioso con sue tastiere mai invasive ma fondamentali per ricreare un suono seventies.
Con questo secondo disco , i BCC estremizzano le canzoni, toccando punte hard che il primo disco solo sfiorava e momenti di pura melodia. Lo si capisce immediatamente dalle due canzoni d'apertura. The Outsider è una mazzata in pieno viso con Hughes che gioca a fare il verso a Chris Cornell ( o meglio sarebbe dire il contrario). Canzone pesante, immediatamente doppiata da Man in the middle, che sfodera il riff di chitarra miù moderno dell'intero disco, incisiva e immediatamente memorizzabile da sembrare già un piccolo classico.
Save me rimanda immediatamente a Kashmir dei Led Zeppelin. Una citazione più che voluta che comunque nella sua lunghezza si trasforma diventando una suite dove le tastiere dal sapore orientale suonate da Sherinian prendono il sopravvento. Canzone proposta da Bohaman e scritta durante la sua permanenza nella reunion dei Led Zeppelin e si sente.
Su Little Secret, un classico blues scritto da Hughes, Joe Bonamassa va a nozze mentre Crossfire alterna ottimi chorus melodici a riff pesanti e cadenzati. The battle for Hadrian's wall cantata da Bonamassa (sua la voce anche su An Ordinary son) parte acustica raggiungendo quel phatos e grandiosità che rievocano certe composizioni care ad un gruppo come gli Uriah Heep, mantenendo l'assetto acustico dei migliori Led Zeppelin "bucolici".
Una seconda prova che pareggia e supera in alcuni momenti il debutto, anche se richiede un ascolto più attento, soprattutto dovuto ad una produzione volutamente sporcata che inizialmente sembra fare da freno alla fluidità del disco. Un disco fatto da professionisti della musica che rincorre ancora le emozioni dettate dal cuore, ma questo con la presenza del carisma di Mr. Hughes era un dato assodato.
domenica 10 luglio 2011
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP Live@Vigevano 9 Luglio 2011
Tante luci e qualche ombra per la prima di John Mellencamp in Italia. Assente da diciannove anni dai palchi europei, quest'anno il sessantenne giaguaro dell'Indiana fa le cose in grande e si ferma addirittura per tre tappe in Italia, paese che non aveva mai toccato durante i suoi 35 anni di carriera. L'attesa era più che legittima e giustificata.
Dopo lo straordinario No better than this(http://enzocurelli.blogspot.com/2010/08/john-mellencamp-un-vecchio-microfono.html), vero e proprio viaggio nelle radici della musica americana che partendo dalla stanza di Hotel a San Antonio dove ancora aleggia lo spirito blues di Robert Johnson, passava a Menphis negli Sun studio, luogo imprescindibile per il rock'n roll, finendo con il battesimo nella prima Chiesa Battista nera del Nord America, Mellencamp porta in giro per l'Europa uno spettacolo che ricalca in parte la ricerca musicale alla base di quel disco.
Nella splendida piazza del castello di Vigevano, il Festival "Dieci giorni suonati" quest'anno ha proposto grandi concerti e tante anteprime a partire dai Primus, John Mayall, Jeff Beck, Black Country Communion, Brian Setzer e Black Crowes e non ultimo un'altro battesimo per Mellencamp, quello davanti ai suoi fans italiani.
L'attesa per l'inizio del concerto viene ingannata con la proiezione del film/documentario "It's About You" che testimonia la nascita di questo suo ultimo disco prodotto da T-Bone Burnett con immagini rubate in studio, commenti dell'autore e spezzoni di musica live. Gli ultimi anni di musica di Mellencanp( fresco di coppia con l'attrice Meg Ryan, ma questo c'entra poco stasera) che si intrecciano con l'America rurale e di provincia da lui amata. Un documento di per sè interessante, che perde il suo fascino se proiettato prima di un concerto con i fans in attesa e qualcuno che sembra non gradire la scelta, disturbando senza un reale motivo.
Quando lo schermo scompare, sale sempre di più l'impazienza che finalmente viene interrotta dalla voce di Johnny Cash e la sua God's gonna cut you down, scelta come base di introduzione. Alle 22 e 25 Mellencamp e la sua band salgono sul palco per un concerto che durerà un'ora e mezza e sarà sostanzialmente diviso in tre parti.
La prima parte, se da un lato è la più affascinante musicalmente, rimane a fine serata la più fredda sotto l'aspetto emotivo e di coinvolgimento. Il salto indietro nel tempo che Mellencamp e band ci vogliono far compiere è tangibile e segue la scia degli ultimi due lavori in studio sotto la regia di Burnett. L'America delle radici folk, country-blues e rockabilly di un set semi-acustico, il contrabbasso suonato da Jon E.Gee, regalano a Authority song, No one Cares about you, Death Letter un fascino antico ed impolverato che sa di vecchi vinili e immagini in bianco e nero. Piace Check it out tratta da "The Lonesome Jubilee", dove la sinuosa figura della brava violinista Miriam Sturm si erge a protagonista.
Nella parte centrale del concerto Mellencamp mette sul piatto la sua vena da folk singer solitario, la chitarra acustica e la sua voce conquistano. Save some time to dream, apertura del suo ultimo disco, Jackie Brown (splendida), Jack and Diane, Small Town, il ricordo dell'amata nonna prima di Longest days( con la fisarmonica di Troye Kinnett) e anche qualche problema "di testa"(come dice lui, scusandosi) prima di attaccare a "cappella" Cherry Bomb iniziano a scaldare la serata, mentre qualche timida goccia di pioggia cade.
Con Rain on the scarecrow si apre la terza parte del concerto, che fino ad ora non ha concesso pause. Dane Clark alla batteria, Andy York e il fidato Michael Wanchic alle chitarre iniziano a fare sul serio aprendo un set rock fiammeggiante e potente, ora il pubblico è entrato definitivamente nella parte. Forse troppo tardi. Perchè Cramblin' Down, If i Die Sudden e Pink Houses sembrano scorrere via veloci e fiere più del previsto, tanto che R.O.C.K. in the USA sembra arrivare anche troppo presto. Mellencamp fa salire un fan sul palco a scandire il chorus, divertimento che purtroppo si interrompe qui.
Le richieste e la vana attesa di un bis scemano con l'illuminazione intorno al palco che si accende e le ombre che accennavo all'inizio che calano a infastidire la festa. Partendo dal pressuposto che avere Mellencamp in Italia è già un valore che mette in secondo piano tutto, le fantomatiche ombre che si possono scorgere sono: una setlist che poteva essere arricchita con una manciata di minuti e di canzoni in più, un Mellencamp un pò rigido nel cercare di coinvolgere il pubblico (insomma non è Springsteen e forse lo si sapeva già) e l'impressione di voler concedere troppo poco all' improvvisazione seguendo una scaletta standard. Qualche regalino ai fans italiani poteva essere concesso.
E' comunque un pezzo di storia musicale americana che sbarca in Italia per la prima e forse unica volta. Chi c'era potrà raccontare orgoglioso tutte le luci e anche le "ombre" della serata.
SETLIST: Authority song, No one cares about me, Death letter, John Cockers, Walk tall, The West End, Check it out, Save some time to dream, Cherry bomb, Jack and Diane, Jackie Brown, Longest days, Small town, Rain on the scarecrow, Crumblin’ down, If I die sudden, Pink houses, R.O.C.K. in the U.S.A.
Un grazie a Gabriella Ascari per le foto:2,4,5(quelle belle!)
Dopo lo straordinario No better than this(http://enzocurelli.blogspot.com/2010/08/john-mellencamp-un-vecchio-microfono.html), vero e proprio viaggio nelle radici della musica americana che partendo dalla stanza di Hotel a San Antonio dove ancora aleggia lo spirito blues di Robert Johnson, passava a Menphis negli Sun studio, luogo imprescindibile per il rock'n roll, finendo con il battesimo nella prima Chiesa Battista nera del Nord America, Mellencamp porta in giro per l'Europa uno spettacolo che ricalca in parte la ricerca musicale alla base di quel disco.
Nella splendida piazza del castello di Vigevano, il Festival "Dieci giorni suonati" quest'anno ha proposto grandi concerti e tante anteprime a partire dai Primus, John Mayall, Jeff Beck, Black Country Communion, Brian Setzer e Black Crowes e non ultimo un'altro battesimo per Mellencamp, quello davanti ai suoi fans italiani.
L'attesa per l'inizio del concerto viene ingannata con la proiezione del film/documentario "It's About You" che testimonia la nascita di questo suo ultimo disco prodotto da T-Bone Burnett con immagini rubate in studio, commenti dell'autore e spezzoni di musica live. Gli ultimi anni di musica di Mellencanp( fresco di coppia con l'attrice Meg Ryan, ma questo c'entra poco stasera) che si intrecciano con l'America rurale e di provincia da lui amata. Un documento di per sè interessante, che perde il suo fascino se proiettato prima di un concerto con i fans in attesa e qualcuno che sembra non gradire la scelta, disturbando senza un reale motivo.
Quando lo schermo scompare, sale sempre di più l'impazienza che finalmente viene interrotta dalla voce di Johnny Cash e la sua God's gonna cut you down, scelta come base di introduzione. Alle 22 e 25 Mellencamp e la sua band salgono sul palco per un concerto che durerà un'ora e mezza e sarà sostanzialmente diviso in tre parti.
La prima parte, se da un lato è la più affascinante musicalmente, rimane a fine serata la più fredda sotto l'aspetto emotivo e di coinvolgimento. Il salto indietro nel tempo che Mellencamp e band ci vogliono far compiere è tangibile e segue la scia degli ultimi due lavori in studio sotto la regia di Burnett. L'America delle radici folk, country-blues e rockabilly di un set semi-acustico, il contrabbasso suonato da Jon E.Gee, regalano a Authority song, No one Cares about you, Death Letter un fascino antico ed impolverato che sa di vecchi vinili e immagini in bianco e nero. Piace Check it out tratta da "The Lonesome Jubilee", dove la sinuosa figura della brava violinista Miriam Sturm si erge a protagonista.
Nella parte centrale del concerto Mellencamp mette sul piatto la sua vena da folk singer solitario, la chitarra acustica e la sua voce conquistano. Save some time to dream, apertura del suo ultimo disco, Jackie Brown (splendida), Jack and Diane, Small Town, il ricordo dell'amata nonna prima di Longest days( con la fisarmonica di Troye Kinnett) e anche qualche problema "di testa"(come dice lui, scusandosi) prima di attaccare a "cappella" Cherry Bomb iniziano a scaldare la serata, mentre qualche timida goccia di pioggia cade.
Con Rain on the scarecrow si apre la terza parte del concerto, che fino ad ora non ha concesso pause. Dane Clark alla batteria, Andy York e il fidato Michael Wanchic alle chitarre iniziano a fare sul serio aprendo un set rock fiammeggiante e potente, ora il pubblico è entrato definitivamente nella parte. Forse troppo tardi. Perchè Cramblin' Down, If i Die Sudden e Pink Houses sembrano scorrere via veloci e fiere più del previsto, tanto che R.O.C.K. in the USA sembra arrivare anche troppo presto. Mellencamp fa salire un fan sul palco a scandire il chorus, divertimento che purtroppo si interrompe qui.
Le richieste e la vana attesa di un bis scemano con l'illuminazione intorno al palco che si accende e le ombre che accennavo all'inizio che calano a infastidire la festa. Partendo dal pressuposto che avere Mellencamp in Italia è già un valore che mette in secondo piano tutto, le fantomatiche ombre che si possono scorgere sono: una setlist che poteva essere arricchita con una manciata di minuti e di canzoni in più, un Mellencamp un pò rigido nel cercare di coinvolgere il pubblico (insomma non è Springsteen e forse lo si sapeva già) e l'impressione di voler concedere troppo poco all' improvvisazione seguendo una scaletta standard. Qualche regalino ai fans italiani poteva essere concesso.
E' comunque un pezzo di storia musicale americana che sbarca in Italia per la prima e forse unica volta. Chi c'era potrà raccontare orgoglioso tutte le luci e anche le "ombre" della serata.
SETLIST: Authority song, No one cares about me, Death letter, John Cockers, Walk tall, The West End, Check it out, Save some time to dream, Cherry bomb, Jack and Diane, Jackie Brown, Longest days, Small town, Rain on the scarecrow, Crumblin’ down, If I die sudden, Pink houses, R.O.C.K. in the U.S.A.
Un grazie a Gabriella Ascari per le foto:2,4,5(quelle belle!)
venerdì 8 luglio 2011
RECENSIONE: ALICE GOLD ( Seven Rainbows)
ALICE GOLD Seven Rainbows ( Fiction, 2011)
A volte ci si può innamorare a prima vista, dopo il primo incontro durato poco più che mezz'ora. Con Alice Gold è stato così, dopo aver ascoltato il suo breve set in apertura agli Eels nella tappa milanese del settembre 2010. Alice Gold si presentò da totale sconosciuta davanti al pubblico italiano, in completa solitudine e con la sua Fender elettrica iniziò a proporre i suoi pezzi che poi saranno quelli che finiranno in questo suo primo disco , anticipato in questi mesi da alcuni singoli e relativi video.
Quelle canzoni, allora nude, suonano ora diverse e ricche confermando quindi le grandi potenzialità di questa cantautrice londinese che partendo dalla vocalità espressiva e blues di Janis Joplin e dal rock di fine anni sessanta, costruisce canzoni con una intelaiatura pop che sanno toccare la psichedelia e lo space rock più commerciale con grande grazia ed eleganza, mettendo a nudo una sbalorditiva vena compositiva, fresca ed accattivante. La sua bravura nell'affrontare il pubblico con sola voce e chitarra basterebbe già ad innalzarla a futura stella della musica ed il suo disco si presenta totalmente diverso dalla cantautrice solitaria che ho visto, rappresentando certamente una sorpresa.
Aiutata dalla produzione di Dan Carey (già al lavoro con Franz Ferdinand, The Kills, Hot Chip), il suo raggio d'azione è ampio e variegato a partire dall'anima soul che esce da canzoni funky come Conversations Of Love e And you'll be there, creando atmosfere da disco dance anni settanta senza mai sconfinare in scelte pacchiane.
How long can these streets be empty? è un rock blues che si perde nei fumi psichedelici e fa il paio con i frizzi e lazzi della "groovy" Orbiter, canzone da airplay radiofonico dal successo assicurato. Fairweather friend è in bilico tra rock e new wave.
Ma questo disco nasconde anche una parte dark ed introspettiva come nell'iniziale Seasons change, la pianistica Sadness is coming, o nella finale End of the world
Runaway Love e Cry cry cry al pari di "Orbiter" possiedono tutte le caratteristiche per diventare dei tormentoni, fortunatamente lontani dalla musica usa e getta che popola radio e tv.
In Inghilterra , la sua fama sta crescendo e gli anni di dura gavetta, viaggiando in tutta Europa a bordo del suo camper al seguito di act di prim'ordine come Eels, Twilight Singers e Band of Skulls tra i tanti, iniziano a dare i frutti sperati. The next big thing?
A volte ci si può innamorare a prima vista, dopo il primo incontro durato poco più che mezz'ora. Con Alice Gold è stato così, dopo aver ascoltato il suo breve set in apertura agli Eels nella tappa milanese del settembre 2010. Alice Gold si presentò da totale sconosciuta davanti al pubblico italiano, in completa solitudine e con la sua Fender elettrica iniziò a proporre i suoi pezzi che poi saranno quelli che finiranno in questo suo primo disco , anticipato in questi mesi da alcuni singoli e relativi video.
Quelle canzoni, allora nude, suonano ora diverse e ricche confermando quindi le grandi potenzialità di questa cantautrice londinese che partendo dalla vocalità espressiva e blues di Janis Joplin e dal rock di fine anni sessanta, costruisce canzoni con una intelaiatura pop che sanno toccare la psichedelia e lo space rock più commerciale con grande grazia ed eleganza, mettendo a nudo una sbalorditiva vena compositiva, fresca ed accattivante. La sua bravura nell'affrontare il pubblico con sola voce e chitarra basterebbe già ad innalzarla a futura stella della musica ed il suo disco si presenta totalmente diverso dalla cantautrice solitaria che ho visto, rappresentando certamente una sorpresa.
Aiutata dalla produzione di Dan Carey (già al lavoro con Franz Ferdinand, The Kills, Hot Chip), il suo raggio d'azione è ampio e variegato a partire dall'anima soul che esce da canzoni funky come Conversations Of Love e And you'll be there, creando atmosfere da disco dance anni settanta senza mai sconfinare in scelte pacchiane.
How long can these streets be empty? è un rock blues che si perde nei fumi psichedelici e fa il paio con i frizzi e lazzi della "groovy" Orbiter, canzone da airplay radiofonico dal successo assicurato. Fairweather friend è in bilico tra rock e new wave.
Ma questo disco nasconde anche una parte dark ed introspettiva come nell'iniziale Seasons change, la pianistica Sadness is coming, o nella finale End of the world
Runaway Love e Cry cry cry al pari di "Orbiter" possiedono tutte le caratteristiche per diventare dei tormentoni, fortunatamente lontani dalla musica usa e getta che popola radio e tv.
In Inghilterra , la sua fama sta crescendo e gli anni di dura gavetta, viaggiando in tutta Europa a bordo del suo camper al seguito di act di prim'ordine come Eels, Twilight Singers e Band of Skulls tra i tanti, iniziano a dare i frutti sperati. The next big thing?
giovedì 7 luglio 2011
RECENSIONE: DAVE ALVIN ( Eleven Eleven)
DAVE ALVIN Eleven Eleven (yepROC records, 2011)
Non cercate significati astrologici e numerologici nel titolo del nuovo lavoro di Dave Alvin,è lui stesso a mettere le mani avanti e spiegare semplicemente quanto il numero undici rappresenti solo il suo undicesimo album, si componga di altrettante canzoni ed esca nell'undicesimo anno del nuovo secolo.
Un Alvin in grande forma che dopo aver coronato il sogno di suonare con la band dei suoi sogni, sue testuali parole, le Guilty women, all-star band tutta al femminile, si presenta con un disco dal carattere blues ed elettrico scritto "on the road" durante i vari spostamenti fatti in tour. Autostrade, ferrovie e stanze di hotel come ispirazione e già il quadro si colora di America e tante storie da raccontare prendendo spunto dall'America di oggi e del recente passato popolate con personaggi "perdenti" come protagonisti.
Conoscete la storia di Johnny Ace? E' il prototipo delle favole di rock maledetto con finale tragico. Giovanissimo bluesman che nel momento di maggior successo commerciale, la vigilia di Natale del 1954, giocando alla roulette russa con i componenti della sua band, si giocò la vita a soli venticinque anni. Alvin ne costruisce un torrido e veloce blues chitarristico, Johnny Ace is Dead.
Viaggi che portano alla conoscenza di personaggi, le cui storie non basterebbero a costruirci un intero libro, Run Conejo Run, è uno stomp blues che parla di uno di questi loser, combattente di natura e con la vita sempre appesa ad un sottile filo. Come i "losers" ma fortunati e vincenti della conclusiva Two Lucky Bums, cantata in duetto con Chris Gaffney, amico cantautore scomparso nel 2008 a cui la canzone è dedicata.
Altri due importanti ospiti che duettano con Dave sono il fratello Phil Alvin in What's up with your brother?, ricomponendo per un attimo la speciale favola sonora che furono i Blasters nei primi anni ottanta in un canonico blues di strada ironico e di poche pretese e con la cantautrice Christy McWilson nell'acustica e country, ballata romantica Manzanita.
Ma il carattere grigio che esce da canzoni come Black Rose of Texas e Gary, Indiana 1959, sono l'aspetto migliore di un disco che fa a botte con il bel sogno americano. La prima guidata da una slide ci porta in giro nella desolazione di posti dimenticati, dove c'è ancora qualcuno che scappa dalla povertà e dalla tristezza mentre il testo di Gary, Indiana 1959 non avrebbe sfigurato all'interno di Darkness on the edge of town( B. Springsteen), facendo a cazzotti con l'happy honk tonk jazz della musica, raccontandoci di un vecchio operaio meccanico e della sua triste vita di stenti.
Dave Alvin ci racconta uno spaccato di America che da Guthrie in poi ha visto la working class protagonista nel ritagliarsi un un posto sempre più grande della vita di un paese estremamente giovane che non ha mantenuto quei sogni di gloria che promettteva o meglio sembra che solo pochi eletti riescano a vivere quel sogno ad occhi aperti.
Non cercate significati astrologici e numerologici nel titolo del nuovo lavoro di Dave Alvin,è lui stesso a mettere le mani avanti e spiegare semplicemente quanto il numero undici rappresenti solo il suo undicesimo album, si componga di altrettante canzoni ed esca nell'undicesimo anno del nuovo secolo.
Un Alvin in grande forma che dopo aver coronato il sogno di suonare con la band dei suoi sogni, sue testuali parole, le Guilty women, all-star band tutta al femminile, si presenta con un disco dal carattere blues ed elettrico scritto "on the road" durante i vari spostamenti fatti in tour. Autostrade, ferrovie e stanze di hotel come ispirazione e già il quadro si colora di America e tante storie da raccontare prendendo spunto dall'America di oggi e del recente passato popolate con personaggi "perdenti" come protagonisti.
Conoscete la storia di Johnny Ace? E' il prototipo delle favole di rock maledetto con finale tragico. Giovanissimo bluesman che nel momento di maggior successo commerciale, la vigilia di Natale del 1954, giocando alla roulette russa con i componenti della sua band, si giocò la vita a soli venticinque anni. Alvin ne costruisce un torrido e veloce blues chitarristico, Johnny Ace is Dead.
Viaggi che portano alla conoscenza di personaggi, le cui storie non basterebbero a costruirci un intero libro, Run Conejo Run, è uno stomp blues che parla di uno di questi loser, combattente di natura e con la vita sempre appesa ad un sottile filo. Come i "losers" ma fortunati e vincenti della conclusiva Two Lucky Bums, cantata in duetto con Chris Gaffney, amico cantautore scomparso nel 2008 a cui la canzone è dedicata.
Altri due importanti ospiti che duettano con Dave sono il fratello Phil Alvin in What's up with your brother?, ricomponendo per un attimo la speciale favola sonora che furono i Blasters nei primi anni ottanta in un canonico blues di strada ironico e di poche pretese e con la cantautrice Christy McWilson nell'acustica e country, ballata romantica Manzanita.
Ma il carattere grigio che esce da canzoni come Black Rose of Texas e Gary, Indiana 1959, sono l'aspetto migliore di un disco che fa a botte con il bel sogno americano. La prima guidata da una slide ci porta in giro nella desolazione di posti dimenticati, dove c'è ancora qualcuno che scappa dalla povertà e dalla tristezza mentre il testo di Gary, Indiana 1959 non avrebbe sfigurato all'interno di Darkness on the edge of town( B. Springsteen), facendo a cazzotti con l'happy honk tonk jazz della musica, raccontandoci di un vecchio operaio meccanico e della sua triste vita di stenti.
Dave Alvin ci racconta uno spaccato di America che da Guthrie in poi ha visto la working class protagonista nel ritagliarsi un un posto sempre più grande della vita di un paese estremamente giovane che non ha mantenuto quei sogni di gloria che promettteva o meglio sembra che solo pochi eletti riescano a vivere quel sogno ad occhi aperti.
martedì 5 luglio 2011
RECENSIONE: EMA (Past Life Martyred Saints)
EMA Past Life Martyred Saints (Souterrain Transmission, 2011)
Miss Erika M Anderson in arte EMA, con le dita della mano forma una pistola e ci invita, quasi minacciandoci, ad entrare nel suo disturbato mondo, obbligandoci a compiere un viaggio nella sua psiche dopo aver lasciato la sua precedente band, i Gowns ( ...prima ancora nei folk-noise Amps for Christ), duo formato insieme al suo ex compagno Ezra Buchla. C'è un problema: il viaggio si presenta fin dall'inizio assai complicato da seguire ma sorprendentemente pieno di interessanti input disseminati lungo il cammino.
Nel suo blog si definisce una visual artist e distruttrice di chitarre, non facendoci mancare autoscatti in cui si ritrae con il labbro tumefatto dopo aver festeggiato il Natale e altri bizzarri scatti. http://cameouttanowhere.com/
Il periodo post-adolescenziale di Ema è pieno di mostri dati in pasto senza censure e filtri, un disagio che sembrerebbe trovare il suo habitat naturale nella Seattle dei primi anni novanta, ma Ema ha solo 24 anni ed è originaria del South Dakota, nonostante giri nel circuito musicale da parecchio e non è per nulla un adolescente come si potrebbe pensare. Canzoni disturbate e pericolose che non seguono un filone logico-musicale, un continuo alternarsi tra acustico ed elettrico, pop elettronico e industrial. Un immaginario tanto reale quanto disperato dove la nostra si fa carico e portabandiera delle nuove riot-grrrls proseguendo il discorso di chi già l'aveva preceduta negli anni: da Nico a Patti Smith, da P.J.Harvey a Cat Power fino a Courtney Love.
I sette minuti che aprono il lavoro sono una summa di quello che ci aspetta, The Grey Ship si apre in acustico lo-fi per crescere in un lugubre e grigio viaggio di distorsione accompagnato da un morboso denudarsi di sentimenti che spiazza, irrita ma attrae.
Ema con questo disco sembra compiere un viaggio a ritroso nella sua vita, quasi a esorcizzare quei momenti passati, sputandoli fuori una volta per tutte, per poterli analizzare e coprire per sempre con della terra scalciata con violenza.
California, sembra una pagina di diario strappata che esordisce con un "Fuck California, you made me boring..." , che spegne immediatamente l'immagine da colorata e solare cartolina west coast che ci immaginiamo per addentrarsi in una canzone di pop disturbato e psichedelico che ci tramanda le disillusioni di una diciasettenne che abbandona casa per la finta terra promessa.
Anteroom riprende le confessioni grunge acustiche dei Nirvana unplugged e Breakfast è uno sfogo bulimico senza veli.
Tra le chitarre elettriche della finale e rock Red Star, emerge la "Patti Smith" che è in ogni cantautrice americana così come in Milkman che è un potente battito elettro-industrial che cattura al primo ascolto.
Con Marked si sprofonda in un lamento disperato di straniante e disturbante rapporto con il proprio corpo in bassa fedeltà acustica, mentre Coda e Butterfly Knife sono i due episodi, la prima cantata a cappella, la seconda con una chitarra punk distorta che impazza, che confermano quanto questo esordio, oltre ad essere interessante non ha punti di riferimento precisi se non quello d'essere il punto di partenza spiazzante della carriera solista della sua autrice. Ne sentiremo parlare.
Miss Erika M Anderson in arte EMA, con le dita della mano forma una pistola e ci invita, quasi minacciandoci, ad entrare nel suo disturbato mondo, obbligandoci a compiere un viaggio nella sua psiche dopo aver lasciato la sua precedente band, i Gowns ( ...prima ancora nei folk-noise Amps for Christ), duo formato insieme al suo ex compagno Ezra Buchla. C'è un problema: il viaggio si presenta fin dall'inizio assai complicato da seguire ma sorprendentemente pieno di interessanti input disseminati lungo il cammino.
Nel suo blog si definisce una visual artist e distruttrice di chitarre, non facendoci mancare autoscatti in cui si ritrae con il labbro tumefatto dopo aver festeggiato il Natale e altri bizzarri scatti. http://cameouttanowhere.com/
Il periodo post-adolescenziale di Ema è pieno di mostri dati in pasto senza censure e filtri, un disagio che sembrerebbe trovare il suo habitat naturale nella Seattle dei primi anni novanta, ma Ema ha solo 24 anni ed è originaria del South Dakota, nonostante giri nel circuito musicale da parecchio e non è per nulla un adolescente come si potrebbe pensare. Canzoni disturbate e pericolose che non seguono un filone logico-musicale, un continuo alternarsi tra acustico ed elettrico, pop elettronico e industrial. Un immaginario tanto reale quanto disperato dove la nostra si fa carico e portabandiera delle nuove riot-grrrls proseguendo il discorso di chi già l'aveva preceduta negli anni: da Nico a Patti Smith, da P.J.Harvey a Cat Power fino a Courtney Love.
I sette minuti che aprono il lavoro sono una summa di quello che ci aspetta, The Grey Ship si apre in acustico lo-fi per crescere in un lugubre e grigio viaggio di distorsione accompagnato da un morboso denudarsi di sentimenti che spiazza, irrita ma attrae.
Ema con questo disco sembra compiere un viaggio a ritroso nella sua vita, quasi a esorcizzare quei momenti passati, sputandoli fuori una volta per tutte, per poterli analizzare e coprire per sempre con della terra scalciata con violenza.
California, sembra una pagina di diario strappata che esordisce con un "Fuck California, you made me boring..." , che spegne immediatamente l'immagine da colorata e solare cartolina west coast che ci immaginiamo per addentrarsi in una canzone di pop disturbato e psichedelico che ci tramanda le disillusioni di una diciasettenne che abbandona casa per la finta terra promessa.
Anteroom riprende le confessioni grunge acustiche dei Nirvana unplugged e Breakfast è uno sfogo bulimico senza veli.
Tra le chitarre elettriche della finale e rock Red Star, emerge la "Patti Smith" che è in ogni cantautrice americana così come in Milkman che è un potente battito elettro-industrial che cattura al primo ascolto.
Con Marked si sprofonda in un lamento disperato di straniante e disturbante rapporto con il proprio corpo in bassa fedeltà acustica, mentre Coda e Butterfly Knife sono i due episodi, la prima cantata a cappella, la seconda con una chitarra punk distorta che impazza, che confermano quanto questo esordio, oltre ad essere interessante non ha punti di riferimento precisi se non quello d'essere il punto di partenza spiazzante della carriera solista della sua autrice. Ne sentiremo parlare.
domenica 3 luglio 2011
RECENSIONE: PSYCHOVOX (La Scelta)
PSYCHOVOX La Scelta (autoproduzione,2011)
L'uomo che vaga solitario per campi desolati ed immensi, attento ad evitare le grandi e profonde buche lasciate dalle nostre radici estirpate a volte con forza, altre con estrema cautela attraverso i secoli, tanto da non accorgersene. Strappi che ci lasciano dei vuoti profondi da colmare e tante domande. Buchi dell'anima , buchi della fede e buchi esistenziali. Un labirinto di fori da percorrere cercando il modo di non sprofondarci dentro e quando succede, trovare le forze per risalire con quello che abbiamo: noi stessi, mani e psiche sono le nostre armi. Sensazioni di claustrofobia esistenziale che ascoltando il nuovo lavoro dei Psychovox vengono a galla.
Gli Psychovox sono un gruppo brianzolo guidati dalla frontwoman Laura Spada che in un concept di 12 canzoni segna le via crucis dell'essere umano. L'avidità, la fame di successo e il potere(Occhi secolari, Caino) non hanno prezzo, l'uomo prevarica l'uomo, la libertà(L'ultimo giorno) è una chimera persa in tempi privi di comunicazione dove le distanze tra gli uomini invece di accorciarsi , sembrano aumentare sempre più (Altalena).
Creato il quadro poco alettantante in cui il genere umano è costretto a sguazzare, si cercano i rimedi. La ricerca del primordiale legame alla natura intorno a noi(Una cosa sola), la ricerca della nostra unicità, del divino che è in noi(Il divino) lontano dalle false promesse di una fede (verso chissà a quale Dio), a volte troppo precostruita per essere elastico e rimedio per tutti(Preghiera), incapace di dare risposte concrete persa nei suoi dogmi.
Quando la caduta è inevitabile e ormai cosa fatta, la lucidità e la verità che ogni essere umano nasconde dentro di sè, a volte nei meandri più nascosti(Addio), avranno la meglio su scelte affrettate e dettate dalla disperazione(Baobab).
Giunti al secondo album dopo l'ep d'esordio e il primo full lenght album "Paura del vuoto" uscito nel 2008 (lavori autoprodotti, ma che da poche settimane sono distribuiti digitalmente dalla Prismopaco http://psychovox.believeband.com/), gli Psychovox sono un trio che vede, oltre alla già citata Laura Spada, autrice della maggior parte dei testi, alla voce e basso, il chitarrista Francesco Carbone e il batterista Mauro Giletto.
Gli Psychovox sono uno sguardo furtivo ma penetrante verso il destino che l'uomo sembra aver costruito per autodistruggersi. Partendo dal rock alternatvivo italiano degli anni novanta e viaggiando sopra ad aperture chitarristiche space stoner, concedendosi brevi esperimenti sonori come in Jabura.
Piacciono la tensione che le canzoni riescono a trasmettere, si percepiscono l'inquietudine e lo smarrimento su cui si basa il loro concept lirico e musicale, sia nelle parti più lente ed oscure che nei pezzi più tirati e rock senza mai perdere la bussola melodica. Un prodotto autoctono, in tutto e per tutto che conferma già un carattere e una direzione di intenti precisa. Forse l'incontro con un grande produttore potrebbe far fare il grande salto o comunque far uscire altre potenzialità nascoste nella loro musica.
L'uomo che vaga solitario per campi desolati ed immensi, attento ad evitare le grandi e profonde buche lasciate dalle nostre radici estirpate a volte con forza, altre con estrema cautela attraverso i secoli, tanto da non accorgersene. Strappi che ci lasciano dei vuoti profondi da colmare e tante domande. Buchi dell'anima , buchi della fede e buchi esistenziali. Un labirinto di fori da percorrere cercando il modo di non sprofondarci dentro e quando succede, trovare le forze per risalire con quello che abbiamo: noi stessi, mani e psiche sono le nostre armi. Sensazioni di claustrofobia esistenziale che ascoltando il nuovo lavoro dei Psychovox vengono a galla.
Gli Psychovox sono un gruppo brianzolo guidati dalla frontwoman Laura Spada che in un concept di 12 canzoni segna le via crucis dell'essere umano. L'avidità, la fame di successo e il potere(Occhi secolari, Caino) non hanno prezzo, l'uomo prevarica l'uomo, la libertà(L'ultimo giorno) è una chimera persa in tempi privi di comunicazione dove le distanze tra gli uomini invece di accorciarsi , sembrano aumentare sempre più (Altalena).
Creato il quadro poco alettantante in cui il genere umano è costretto a sguazzare, si cercano i rimedi. La ricerca del primordiale legame alla natura intorno a noi(Una cosa sola), la ricerca della nostra unicità, del divino che è in noi(Il divino) lontano dalle false promesse di una fede (verso chissà a quale Dio), a volte troppo precostruita per essere elastico e rimedio per tutti(Preghiera), incapace di dare risposte concrete persa nei suoi dogmi.
Quando la caduta è inevitabile e ormai cosa fatta, la lucidità e la verità che ogni essere umano nasconde dentro di sè, a volte nei meandri più nascosti(Addio), avranno la meglio su scelte affrettate e dettate dalla disperazione(Baobab).
Giunti al secondo album dopo l'ep d'esordio e il primo full lenght album "Paura del vuoto" uscito nel 2008 (lavori autoprodotti, ma che da poche settimane sono distribuiti digitalmente dalla Prismopaco http://psychovox.believeband.com/), gli Psychovox sono un trio che vede, oltre alla già citata Laura Spada, autrice della maggior parte dei testi, alla voce e basso, il chitarrista Francesco Carbone e il batterista Mauro Giletto.
Gli Psychovox sono uno sguardo furtivo ma penetrante verso il destino che l'uomo sembra aver costruito per autodistruggersi. Partendo dal rock alternatvivo italiano degli anni novanta e viaggiando sopra ad aperture chitarristiche space stoner, concedendosi brevi esperimenti sonori come in Jabura.
Piacciono la tensione che le canzoni riescono a trasmettere, si percepiscono l'inquietudine e lo smarrimento su cui si basa il loro concept lirico e musicale, sia nelle parti più lente ed oscure che nei pezzi più tirati e rock senza mai perdere la bussola melodica. Un prodotto autoctono, in tutto e per tutto che conferma già un carattere e una direzione di intenti precisa. Forse l'incontro con un grande produttore potrebbe far fare il grande salto o comunque far uscire altre potenzialità nascoste nella loro musica.
venerdì 1 luglio 2011
RECENSIONE: DEVOTCHKA live@Libra Festival, Sordevolo(BI) 30 Giugno 2011
"100 Lovers" è il titolo dell'ultimo album della band di Denver e prendendoli alla lettera, stasera nell'unica data italiana del loro tour si sono presentati 100 amanti della loro musica , poche unità in più se vogliamo essere benevoli. Tralasciando i motivi che spingono i "pigri" italiani a muoversi solamente per i grandi nomi in cartellone , senza fare lo sforzo di mettere in moto la curiosità(...e stasera c'erano tanti buoni motivi per spingere un amante della musica a salire nelle verdi colline biellesi a ridosso dei monti, non ultimo il basso costo del biglietto), un plauso lo faccio a chi c'era e ha fatto di tutto per sostenere i Devotchka e i Depedro.
Anche perchè un grande pregio i Devotchka lo hanno: riescono a farti compiere tanti viaggi mentali, chiudendo gli occhi anche i sogni e le mete più lontane sembrano avvicinarsi. La versatilità della loro musica è un'agenzia viaggi sempre aperta e modestamente economica, a portata di tutti e i pochi che stasera erano qui nel grande anfiteatro di Sordevolo, se ne sono accorti.
Ad aprire i Depedro, il gruppo messo in piedi da Jairo Zavala, chitarrista e cantante spagnolo che dal 2004, quasi in pianta stabile, può vantare collaborazioni sia live che in studio nei ben più conosciuti americani Calexico. Accompagnato da un batterista e un chitarrista, Zavala propone le canzoni dei suoi due album.Un coinvolgente mix tra la melodia mediterranea e il folk americano, dove la latinità prevale con sporadiche ma ficcanti puntate nel rock e jazz. Zavala cerca a più riprese il contatto con il pubblico facendolo partecipare e la lingua spagnola di tutte le sue canzoni aiuta nella comunicazione. Canzoni fresche e leggere(Nubes De Papel, Como el viento, La memoria) , che ben si adattano al periodo estivo, che però non mettono in secondo piano la bravura compositiva di Zavala che unisce anche la tradizione della bossa nova e del flamenco con le gradevoli armonie pop. Recentemente anche la rivista americana Rolling Stone ne ha tessuto le doti.
I Devotchka si presentano sul palco con l'apertura del loro ultimo disco, The Alley e subito l'orecchio si apre nello ascoltare la voce potente, tesa e drammatica di Nick Urata( dalla sua anche una vaga somiglianza con George Clooney). La musica dei Devotchka viaggia in un continuo alternarsi tra la drammacità e la malinconia unita allo sguardo gioioso di una finestra aperta sui colori del mondo.
Gli esordi legati al gypsy punk con gli anni hanno lasciato la strada alle composizioni più articolate e mature degli ultimi due album(A mad and Faithfull Telling e 100 Lovers) e proprio da lì costruiscono lo show.
Due anime appunto, malinconica teatralità e gioia che si scontrano in modo perfetto, senza che l'una prevarichi l'altra trovando un punto d'incontro nelle mille direzioni che la loro musica riesce a prendere ed al phatos che riesce a comunicare.
La leggerezza di un fischiettio che si alza nell'aria diventa enfasi nella voce espressiva di Urata nel folk di Exaustible e il moderno pop che permea How it Ends, All the sand in all the sea si schianta con la tradizione di strumenti antichi come il contrabbasso e la basso tuba suonata dalla brava Jeanie Schroder e il violino e la fisarmonica (protagonista in The man from San Sebastian e Head Honcho) suonati dal maestro Tom Hagerman . La dote di polistrumentisti accumuna tutti i membri della band che diventano all'occasione anche una grande banda con il batterista Shawn King impegnato anche alla tromba e il quinto uomo aggiunto "tuttofare" ,percussioni, tastiere e anche alla seconda chitarra. Una piccola orchestra di cinque elementi.
La multirazzialità degli States incanalata nelle scelte musicali della band.L'Indie-folk americano sposa l'Europa balcanica (Contrabanda) non così lontana dal sapore tex-mex mariachi di We're leaving o dal rock desertico di The enemy Guns. Mentre vedere uno strumento grosso ed ingombrante come la tuba fa sempre uno strano effetto mentre riveste completamente il corpo della brava Schroder( quando non è impegnata nell'altrettanto ingombrante contrabbasso) in Basso Profundo.
Tutto questo in una sola serata da una sola band, senza tempo e confini musicali, dove rock e marcette da circo possono convivere tranquillamente, dove il sombrero vola alto trasportato dai venti dei deserti asiatici e il romanticismo prende per mano la fantasia. Ovunque dove c'è vita.
La colonna sonora( a proposito non dimentichiamoci che i Devotchka devono un pò della loro popolarità anche grazie alla soundtrack di Little Miss Sunshine con relativa candidatura al Grammy ) ideale per una sera d'estate che segue una calda giornata di sole e anticipa una nottata ancora più calda.
Anche perchè un grande pregio i Devotchka lo hanno: riescono a farti compiere tanti viaggi mentali, chiudendo gli occhi anche i sogni e le mete più lontane sembrano avvicinarsi. La versatilità della loro musica è un'agenzia viaggi sempre aperta e modestamente economica, a portata di tutti e i pochi che stasera erano qui nel grande anfiteatro di Sordevolo, se ne sono accorti.
Ad aprire i Depedro, il gruppo messo in piedi da Jairo Zavala, chitarrista e cantante spagnolo che dal 2004, quasi in pianta stabile, può vantare collaborazioni sia live che in studio nei ben più conosciuti americani Calexico. Accompagnato da un batterista e un chitarrista, Zavala propone le canzoni dei suoi due album.Un coinvolgente mix tra la melodia mediterranea e il folk americano, dove la latinità prevale con sporadiche ma ficcanti puntate nel rock e jazz. Zavala cerca a più riprese il contatto con il pubblico facendolo partecipare e la lingua spagnola di tutte le sue canzoni aiuta nella comunicazione. Canzoni fresche e leggere(Nubes De Papel, Como el viento, La memoria) , che ben si adattano al periodo estivo, che però non mettono in secondo piano la bravura compositiva di Zavala che unisce anche la tradizione della bossa nova e del flamenco con le gradevoli armonie pop. Recentemente anche la rivista americana Rolling Stone ne ha tessuto le doti.
I Devotchka si presentano sul palco con l'apertura del loro ultimo disco, The Alley e subito l'orecchio si apre nello ascoltare la voce potente, tesa e drammatica di Nick Urata( dalla sua anche una vaga somiglianza con George Clooney). La musica dei Devotchka viaggia in un continuo alternarsi tra la drammacità e la malinconia unita allo sguardo gioioso di una finestra aperta sui colori del mondo.
Gli esordi legati al gypsy punk con gli anni hanno lasciato la strada alle composizioni più articolate e mature degli ultimi due album(A mad and Faithfull Telling e 100 Lovers) e proprio da lì costruiscono lo show.
Due anime appunto, malinconica teatralità e gioia che si scontrano in modo perfetto, senza che l'una prevarichi l'altra trovando un punto d'incontro nelle mille direzioni che la loro musica riesce a prendere ed al phatos che riesce a comunicare.
La leggerezza di un fischiettio che si alza nell'aria diventa enfasi nella voce espressiva di Urata nel folk di Exaustible e il moderno pop che permea How it Ends, All the sand in all the sea si schianta con la tradizione di strumenti antichi come il contrabbasso e la basso tuba suonata dalla brava Jeanie Schroder e il violino e la fisarmonica (protagonista in The man from San Sebastian e Head Honcho) suonati dal maestro Tom Hagerman . La dote di polistrumentisti accumuna tutti i membri della band che diventano all'occasione anche una grande banda con il batterista Shawn King impegnato anche alla tromba e il quinto uomo aggiunto "tuttofare" ,percussioni, tastiere e anche alla seconda chitarra. Una piccola orchestra di cinque elementi.
La multirazzialità degli States incanalata nelle scelte musicali della band.L'Indie-folk americano sposa l'Europa balcanica (Contrabanda) non così lontana dal sapore tex-mex mariachi di We're leaving o dal rock desertico di The enemy Guns. Mentre vedere uno strumento grosso ed ingombrante come la tuba fa sempre uno strano effetto mentre riveste completamente il corpo della brava Schroder( quando non è impegnata nell'altrettanto ingombrante contrabbasso) in Basso Profundo.
Tutto questo in una sola serata da una sola band, senza tempo e confini musicali, dove rock e marcette da circo possono convivere tranquillamente, dove il sombrero vola alto trasportato dai venti dei deserti asiatici e il romanticismo prende per mano la fantasia. Ovunque dove c'è vita.
La colonna sonora( a proposito non dimentichiamoci che i Devotchka devono un pò della loro popolarità anche grazie alla soundtrack di Little Miss Sunshine con relativa candidatura al Grammy ) ideale per una sera d'estate che segue una calda giornata di sole e anticipa una nottata ancora più calda.
Iscriviti a:
Post (Atom)