domenica 31 dicembre 2023

30 DISCHI per ricordare il mio 2023


 


6x5 Italia


1-KARMA - K3

2-RUDY MARRA & The M.O.B. - Morfina

3-LUCIO CORSI - La Gente Che Sogna

4-OMAR PEDRINI - Sospeso

5-SABBIA - Domomental

GIORGIO CANALI & ROSSO FUOCO - Pericolo Giallo

DANIELE TENCA - Just A Dream

VINICIO CAPOSSELA - Tredici canzoni urgenti

DAVIDE VAN DE SFROOS - Manoglia



6x5 hard



1-URIAH HEEP - Chaos & Colour

2-TYGERS OF PAN TANG - Bloodlines

3-DIRTY HONEY - Can't Find The Brakes

4-ALICE COOPER - Road

5-GRAVEYARD - 6

DOKKEN - Heaven Comes Down

WINGER - Seven

EXTREME - Six

WINERY DOGS - III

L.A.GUNS - Black Diamonds



6x5 heavy


1-OVERKILL - Schorched

2-OBITUARY - Dying Of Everything

3-PRONG - State Of Emergency

4-CHURCH OF MISERY - Born Under A Mad Sign

5-BARONESS - Stone

METAL CHURCH - Congregation of Annihilation

THERAPY? - Hard Cold Fire



6x5  it's still rock'n'roll to Me



1-ROLLING STONES - Hackney Diamonds

2-IAN HUNTER - Defiance Part 1

3-THE HIVES - The Death Of Randy Fitzsimmons

4-RIVAL SONS - Lightbringer/Darkfighter

5-DEWOLFF - Love  Death & In Between

JIM JONES ALL STARS - Ain't No Peril

QUEENS OF THE STONE AGE - In Times New Roman

DANKO JONES - Electric Sounds

THE RECORD COMPANY - The Fourth Album

THE COLD STARES - Voices

GOV'T MULE - Peace...Like A River

DUFF MCKAGAN - Lighthouse



6x5 Made in Usa



1-DUANE BETTS - Wild & Precious Life

2-JOHN MELLENCAMP - Orpheus Descending

3-JONATHAN WILSON - Eat The Worm

4-MARTY STUART And His Fabulous Superlatives - Altitude

5-LUCINDA WILLIAMS - Stories From A Rock N Roll Heart

-MALCOLM HOLCOMBE - Bits & Pieces

-JASON ISBELL And The 400 Unit - Weathervanes

-RODNEY CROWELL - The Chicago Sessions

-ROBERT FINLEY - Black Bayou

-MYRON ELKINS - Factories, Farms & Amphetamines

-THE LONG RYDERS - September November

-ROSE CITY BAND - Garden Party

-GRAHAM NASH - Now

-BEN HARPER - Wide Open Light

-LUCERO - Should Have Learned By Now

-COLTER WALL - Little Songs

-MOLINA, TALBOT, LOFGREN, YOUNG - All Roads Lead Home



6x5: Live & Lost Album



1-TODD SNIDER - Crank It, We're Doomed

2-SPARKLEHORSE - Bird Machine

3-RORY GALLAGHER - All Around Man, Live in London 1990

4-THE DUCKS - High Flyin'

5-STEPHEN STILLS - Live At Berkeley 1971

-BOB DYLAN - Shadow Kingdom

-NEIL YOUNG - Chrome Dreams

-DRIVE BY TRUCKERS - The Complete Dirty South



venerdì 29 dicembre 2023

RECENSIONE: FOGHAT (Sonic Mojo)

FOGHAT  Sonic Mojo (Foghat Records, 2023)




sempre in pista

Dalle nostre parti seguire i Foghat non è mai stata cosa da gran fighi già negli anni settanta pur con un loro grande seguito e  successo in America. Forse proprio per via di quel successo aldilà  dell'oceano che certa critica altezzosa mal digeriva perché persa in ascolti più "impegnati". Come se non si potesse ascoltare tutto senza paraocchi.

Hanno sempre snobbato il loro hard blues dalle tinte boogie relegandoli in serie che non sono la A ma forse nemmeno la B, figuriamoci oggi che hanno perso per strada tanti pezzi della loro storia. 

Per inciso: Foghat (1972), Energized (1974), Fool For The City (1975) e il live Foghat Live (1977) sarebbero tutti da rivalutare.

Ricordo in particolare come band come loro, con i Watt sopra la media e alcune hit commerciali (la loro 'Slow Ride' ha vissuto anche una seconda giovinezza con il gioco Guitar Hero) furono trattate in un volume chiamato Note di Pop Inglese (c'era anche il corrispettivo Americano) , tra i miei primi libri di musica negli anni ottanta: " rock blues di maniera incapace di provocare la pur minima emozione" si scriveva. Guarda caso tutte le band che piacevano a me venivano massacrate.

La compagnia era numerosa, ricordo pure i Nazareth ("uno dei tanti esempi di come si possa diventare miliardari giocando sui soliti tre accordi amplificati da qualche migliaio di Watt") e gli Status Quo ("un quartetto approssimativo persino nell'uso dello strumento" sempre in quel libro): tre gruppi che però, sarà una coincidenza, oggi pur con mille defezioni sono ancora vive e operanti.

Londinesi, nati nel 1970 da alcune costole estirpate ai Savoy Brown, oggi sono guidati dall'unico superstite dell'epoca, il batterista Roger Earl ,  dal chitarrista e produttore Bryan Bassett (Wild Cherry, Molly Hatchet), dal bassista Rodney O' Quinn (Pat Travers Band), e dal buon cantante Scott Holt (da anni sotto l'aurea di Buddy Guy), chitarra solista e voce. Ritornano dopo sette anni di assenza discografia con un disco di pregevole fattura che seppur non avendo e non potendo puntare sull'esuberanza giovanile si aggrappa al mestiere riuscendo  a portarsi a casa un pregevole titolo di "disco da viaggio" che dalle mie parti non si butta mai via.

Dodici canzoni che mettono in fila alcune cover di Chuck Berry, B.B.King, Willie Dixon, Rodney Crowell, Claude DeMetrius con quattro canzoni composte per l'occasione e tre pezzi lasciati da Kid Simmons, proprio dei Savoy Brown, prima di morire l'anno scorso (avrebbe dovuto anche suonarli su disco) che in qualche modo sembrano chiudere il cerchio con il passato.

"I brani che Kim ha scritto per noi penso siano tra i migliori dell'album e tra i miei preferiti" lascia detto Earl.

Tra trascinanti boogie alla ZZ Top ('She's A Little Bit Of Everything'), shuffle alla John Lee Hooker (la slide in 'Drivin' On'), rock melodici ('I Don't Appreciate You') e più pesanti ('Black Days & Blue Nights'), latin rock alla Santana ('Mean Woman Blues' già incisa anche da Elvis), incursioni nel country ('Wish I'd A Been There' scritta in collaborazione con Colin Earl dei Mungo Jerry, fratello maggiore di Roger Earl) e blues nostalgici e notturni ('Time Slips Away') la musica dei Foghat, inglesi ma di casa negli States (il disco è stato registrato al Boogie Motel South a Deland  in Florida), scorre ancora con incredibile disinvoltura e senza pretese di cambiare il mondo se non aggiungere altre fresche canzoni da portare in tour.

Tenacia e passione a volte riescono a sopperire l'inventiva, portando la carriera a superare il traguardo dei cinquant'anni di vita.







sabato 16 dicembre 2023

RECENSIONE: DUFF McKAGAN (Lighthouse)

DUFF McKAGAN  Lighthouse (BFD Records, 2023)





con la benedizione di Bob Dylan

Se vi siete persi Tenderness (2019), il precedente disco di Duff McKagan, recuperatelo, ne vale assolutamente la pena: un flusso di coscienza intimo e cantautorale scritto e musicato insieme a Shooter Jennings. Perfino Bob Dylan si è scomodato per elogiare una canzone lì contenuta: 'Chip Away'.

Questo per dire che questo Lighthouse non riesce ad avvicinare l'intensità di quella raccolta di canzoni, puntando piuttosto sulla varietà rafforzata dalla presenza di alcuni ospiti: il sodale Slash che lascia il suo assolo su 'Hope', l'amico Jerry Cantrell presente nella ballata acustica 'I Just Don't Know' e Iggy Pop con uno spoken, in verità poco incisivo, nell'ultima traccia del disco 'Lighthouse' che riprende la title track che apre il disco. Presenze discrete e poco ingombranti di amici che si mettono al servizio delle canzoni.

Duff McKagan ha confessato che nell'ultimo periodo ha buttato giù una enorme quantità di canzoni dal tiro punk. Non sono però su questo disco a parte la veloce 'Just Another Shakedown', certamente la più movimentata.

Cosa ci troviamo allora? Una raccolta di  canzoni intimiste dai toni scuri ('Longfeather) e malinconici ('Forgivness') ma anche pop come in  'Holy Water' che sembra guardare agli U2. Se con 'I Saw God On 10th St.', un folk punk che gioca sull'effetho elettro acustico  portando la memoria a Johnny Thunders, certamente tra gli eroi musicali di Mckagan, 'Fallen' e 'Fallen Ones' sono ballate da  classic rock vecchio stampo che rinforzano il legame con la tradizione cantautorale americana.

Il faro di Duff McKagan in questi ultimi anni sta proiettando la sua luce verso strade cantautorali sempre più marcate. Anche se poi, lui il titolo di questa raccolta lo spiega così: "ho una moglie straordinaria: è sempre stata un vero faro di speranza, bellezza ed eccitazione, e affronterei qualsiasi cosa per lei", dice. “Mi ha fatto passare così tante cose. Lei è il mio faro, ma su scala più ampia, la stiamo tutti cercando. Si tratta di speranza e di chiedersi cosa accadrà dopo". 

Un sopravvissuto, come spesso si dichiara, che sta vivendo una dignitosa seconda parte di carriera lontana dagli eccessi di gioventù ma sempre più vicina a quella tranquillità di mezza età che però non sembra imbrigliarne l'ispirazione. Pollice verso per la copertina che seppur disegnata dal compagno della figlia, non sembra regalare una buona vetrina al disco. 





venerdì 8 dicembre 2023

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Before + After)

NEIL YOUNG  Before + After (Reprise, 2023)





la carriera in una canzone

Mai passare al negozio in prossimità dell'uscita di un nuovo disco di Neil Young. Che poi equivarrebbe a: non passare mai in un negozio di dischi, visto la frequenza delle uscite del nostro. Perché anche se mi prometto "questa volta salto questo inutile disco" poi ci casco sempre. E non ho nemmeno mai visto il vecchio canadese fuori dal negozio con il fucile puntato: "compralo!".

Ed eccolo qui infatti, con la sua copertina minimale e quel font che ruba pari pari da After The Goldrush, con il retro copertina dove il titolo scritto sulla sabbia riporta direttamente a On The Beach, con la foto interna che lo ritrae seduto su una panchina a Zuma Beach -tre rimandi a tre dischi cardine dei settanta- e quel lenzuolo gigantesco di carta con i testi delle canzoni stampati su, quasi consuetudine ultimamente. Un aiuto ai fan che invecchiano insieme a lui. Combattiamo la presbiopia insieme pare il messaggio. Grazie Neil.

Cos'è questa ennesima uscita di Neil Young? L'ennesima bizzarria che misura la temperatura della sua salute a 78 anni. Con tutti i guai che ha passato non sta male il vecchio Neil. Primo: c'è qualcosa di nuovo? Una canzone ma non è nuova.  'If You Got Love' che doveva uscire su Trans ma non vide mai la luce dove canta "se hai l’amore, il mondo in cui cammini sarà ai tuoi ordini" su un tappeto costruito da un organo a pompa. Amore e quella paura di invecchiare inseguita per tutta la vita legano le canzoni.

Quarantotto minuti di canzoni ininterrotte suonate da solo (quasi), chitarra, armonica, pianoforte e organo a pompa appunto, e quel "ininterrotte" è l'altra novità ( ricorda un po' il recente Shadow Kingdom di Dylan), un flusso di coscienza che lo stesso Young spiega così: "le canzoni della mia vita, registrate di recente, creano un montaggio musicale senza inizio o fine, il sentimento viene catturato, non in pezzi, ma come un pezzo intero, progettato per essere ascoltato in quel modo. Questa presentazione musicale sfida la mescolanza, l'organizzazione digitale, la separazione. Solo per l'ascolto. Questo dice tutto". In pratica un concerto, senza pubblico e interruzioni tra una canzone e l'altra. Una sfida a Spotify.

Un ripescaggio comunque assortito e non banale di canzoni quasi oscure, prese dal suo infinito repertorio che parte da 'Burned' e 'Mr. Soul' dei Buffalo Springfield, passa da 'On The Way Home' uscita quando la band era già sciolta ma che farà la sua parte su 4 Way Street di CSN &Y  arriva al più recente Barn con 'Don't Forget Love'. In mezzo quella 'Comes A Time' per me fatale quando uscì improvvisa da una radio tantissimi anni fa aprendomi un mondo che quarant'anni dopo sono qui a raccontare a modo mio, 'Homefires' presa dal vecchio ma fresco d'uscita Homegrown e poi molti anni novanta con 'I'm Ocean' (da Mirrorball con i Pearl Jam) a 'A Dream That Can Last' e 'My Heart' da Sleeps With Angels, 'Mother Earth' da Ragged Glory. Canzoni elettriche che si svestono di Watt e si rivestono di acustico.

Completano 'When I Hold You In My Arms' da Are You Passionate? del  2002 la più complessa musicalmente con la chitarra elettrica di Jeff Tweedy e  l'intervento di Bob Rice  al piano e 'Birds' da After The Goldrush, dando senso ai caratteri con i quali è scritto il suo nome in copertina.

Secondo: è utile questo disco? Naturalmente  no se poi siete di quelli "i miei soldi non li avrai per le ennesime canzoni". 

Quasi sessant'anni di carriera presentati da una voce che, a tratti dolorante e con qualche caduta di stanchezza dovuta all'età, continua a mantenere quella antica magia a cui non so mai rinunciare. La sua voce è Neil Young. Neil Young è la sua voce. Anche se a tratti stanca, pare sempre il 1973, regalando però nuove sfumature, saggezza e calore. Quando poi sbuffa dentto un'armonica apre varchi temporali.

Neil Young sarà duro e crudo fino alla fine dei suoi giorni e se lo avete sposato lo amerete e lo perdonerete ogni volta. Oppure lo manderete a cagare ancora una volta.

Poche magie in sala di registrazione, le esecuzioni sono live, prodotto insieme al novantenne Lou Adler ma sfido chiunque a capirlo,  Before + After serve a mantenere vivo il fuoco. Forse una volta un disco così lo avrebbe suonato e poi accantonato. Oggi lo fa uscire. Tanto vale prenderlo subito perché comunque lo avremmo preso comunque anche se fosse uscito tra dieci anni. Ma fra dieci anni ci sarà ancora Neil Young, ci saremo ancora noi, ma soprattutto un negozio di dischi dove poter entrare e chiedere l'ultimo di Neil Young? (Quest'anno siamo riusciti a chiedere l'ultimo Beatles, figurati!). Certo, roba da vecchi indefessi ma...God bless you.





domenica 3 dicembre 2023

RECENSIONE: TODD SNIDER (Crank It, We're Doomed)

 

TODD SNIDER  Crank It, We're Doomed (Thirty Tigers, 2023/2007)



tesoro nascosto

Il mio disco americano dell'anno è vecchio di sedici anni. Proprio così, Todd Snider fa uscire il suo disco perduto, perché tutti i grandi hanno un lost record da qualche parte,  registrato a Nashville nel 2007 fu accantonato per essere abbondantemente saccheggiato di alcune canzoni che appariranno in modo e titoli diversi in alcuni album successivi tra cui Peace Queer (2008), The Excitement Plan (2009) e Agnostic Hymns & Stoner Fables (2012).

Ora esce la versione dei tempi che si pensava persa del tutto. Trovato il master originale (dal tecnico Jim Demain), nulla è stato toccato di queste quindici canzoni che ci mostrano Snider in uno dei suoi tanti stati di grazia, liricamente e musicalmente. 

"A quel tempo stavo inventando così tante canzoni. Ho inventato così tante canzoni su così tante cose" dice.

Grezzo e spartano tra folk ('Doll Face), il violino dylaniano di 'Mercer's Folly', garage rock'n'roll ('Handlemab's Revenge'), funk ('Juice'), surf rock ('Slim Chance is Still a Chance'), sgangherati shuffle e bluesacci (lo stomper alla Bo Didgley di 'Mission Accomplushed'), Snider ci racconta la sua versione del mondo nel consueto e unico modo, ficcante e acuto: il "viaggio" con LSD di 'America's Favorite Pastine' vale il disco.

Riprende pure 'West Nashville Grand Ballroom Gown' di Jimmy Buffett e ospita due pezzi da novanta come Loretta Lynn (nel frattempo anche lei scomparsa insieme a Buffett e amici vari) con la quale ha coscritto lo swing 'Don't Tempt Me'  e Kris Kristofferson nella finale 'Good Fortune'. Un piccolo tesoro che lo stesso Snider ha raccontato essere un  personale incrocio tra Exile On Main Street degli Stones  e Desire di Dylan. Ora Snider sta attraversando un periodo di convalescenza, speriamo che queste canzoni perdute siano da spunto per una ennesima rinascita.





venerdì 24 novembre 2023

RECENSIONE: DIRTY HONEY (Can't Find The Brakes)

 

DIRTY HONEY  Can't Find The Brakes (Dirt Records, 2023)




California dreamin'

Siamo ancora fortunati dai. Nel 2023 abbiamo due possibilità per ascoltare quello che tutti chiamano ancora classic rock, quella miscela di rock&roll,  blues e hard rock che non sembra avere date di scadenza pur avendo vissuto i propri giorni migliori in passato con strascichi a scadenza più o meno fissa: da una parte ci sono ancora band in pista da sessant'anni che sfornano dischi freschi e battaglieri (sì mi sto riferendo ai Rolling Stones) dall'altra si può dar fiducia a giovani band che certi suoni li hanno metabolizzati così bene nel proprio DNA che a volte pare di ascoltare gli originali dei bei tempi che furono, come i californiani Dirty Honey arrivati all'importante traguardo del secondo disco (c'è anche un Ep di debutto). Tra una decina di anni (ad essere ottimisti) ci rimarranno solo i secondi, lo sapete vero?  Quindi stiamo buoni e godiamoci entrambi senza troppe seghe filosofiche dietro. Il titolo Can't Find The Brakes gioca sul fatto che la band californiana è in tour ininterrotto da un paio di anni, aprendo per colossi come The Who, Kiss, Black Crowes e Guns 'N Roses ma anche come headliner, proprio come li ho visti questa estate a Torino e devo dire che mi hanno fatto una buonissima impressione, presentando anche qualche canzone qui presente. Una band senza trucchi e sovrastrutture, gente che sale sopra a un palco, attacca gli strumenti e parte. Un po' come l'artista graffitaro Kelly “RISK” Graval ha disegnato la copertina: d'istinto.

Musicisti con l'attitudine giusta che sanno scrivere canzoni, buoni riff e conosco così bene il passato da riuscire a proiettarlo in qualche modo nel futuro. Gente che ha studiato la storia del rock'n'roll con passione e voti alti. Ecco quello che ci aspetta nel futuro.

Pure per registrare queste nuove undici canzoni i Dirty Honey hanno viaggiato: sono volati in Australia dal produttore Nick DiDia.

L’album Can’t Find The Brakes è stata un’esperienza completamente diversa rispetto alla realizzazione dell’album Dirty Honey. Il Covid ha creato una situazione in cui non stavamo realmente vivendo o sperimentando. Ma, per il nostro nuovo album, abbiamo potuto trascorrere di nuovo del tempo insieme. Abbiamo trascorso più di un mese con Nick, il nostro produttore, nel suo studio in Australia. Il semplice fatto di tornare in studio con lui – senza Zoom questa volta – essendo tutti noi fisicamente insieme nello stesso spazio, ci ha permesso di fare qualche sperimentazione, il che ha contribuito all’ampio spettro di emozioni del nuovo album” racconta il cantante Marc LaBelle.

Quello che più mi piace dei Dirty Honey, a parte la voce di LaBelle che insieme a Jay Buchanan dei Rival Sons possiamo considerare tra le migliori voci hard con sfumature soul di questi anni, è quel groove funky che batte come un metronomo sotto a quasi tutte le canzoni, quel ritmo incalzante che avevano gli Aerosmith negli anni settanta per intenderci. Lo si può ascoltare in episodi come 'Won't
Take Me Alive' o nella più veloce 'Can't Find The Brakes'. Altrove lasciano trasparire influenze southern come in 'Get A Little High' o nell'apertura 'Don't Put Out The Fire', che rievoca i primi Black Crowes o i Cinderella di Heartbreak Station,  bluesy in 'Ride On', country e folk nella ballata 'You Make It All Right', i Led Zeppelin della finale 'Rebel Son'.

Li si può apprezzare ancora meglio dal vivo guardando il bassista Justin Smolian che da questo disco ha un nuovo compagno di ritmo: il batterista Jaidon Bean.



Detto di Labelle, del suo carisma sul palco e della sua voce in evidenza nelle altre slow song, l' acustica e molto Led Zeppelin giocata sul fingerpicking 'Coming Home' e il falsetto che usa nella ballata 'Roam" puntellata da un Hammond , merita un plauso anche la chitarra di John Notto, sul palco le sue mosse sono un ben calibrato mix tra Eddie Van Halen e Gary Moore, mentre la sua tecnica non è in discussione e i riff e la ritmica in una canzone cone 'Dirty Mind' sono lì da ascoltare.

I Dirty Honey non vogliono certo rivoluzionare il rock ma portarlo solo il più avanti possibile nel tempo e hanno tutti i numeri per farlo.





domenica 12 novembre 2023

KARMA live@Spazio 211, Torino, 11 Novembre 2023


Le rimpatriate in stile "compagni di scuola" dopo trent'anni di lontananza spesso si consumano in delusione. Ma ti ricordi come era bella quella lì? Ma cosa le  è successo? E quello? Irriconoscibile senza capelli. Queste le conclusioni più scontate. La musica invece, a volte, fa miracoli e possono succedere cose straordinarie tipo: che i Karma tornino dopo 27 anni di assenza con un disco monstre come K3 e un nuovo tour che ne conferma tutta la bontà.  L'hanno suonato integralmente creando un lungo ponte che dagli anni novanta li ha catapultati nei nostri giorni. Poi nel futuro. E il tempo sembra essersi fermato veramente ma con la maturità acquisita in tutti questi anni: Andrea Viti dall'alto della sua calma Zen è lo stesso motore ritmico di sempre, David Moretti canta e dirige (da art director) con strordinaria presenza scenica e pienezza, Ralph Salati (Destrage) è il chitarrista che in un mese ha imparato le canzoni di tre dischi ed è partito in tour in sostituzione dell'assente Andrea Bacchini, Pacho e Diego Besozzi là dietro creano un muro percussivo che ha pochi eguali, un fiore all'occhiello concesso a pochi.


La seconda tappa del tour, dopo l'esordio sold out in casa della sera prima, al Bloom di Mezzago, con tanto di ospite (Manuel Agnelli), li vede sul piccolo palco dello Spazio 211, locale  che ha vissuto momenti terribili pochi mesi fa ma che oggi è ancora qui, aperto e resistente per ospitarci. La sua chiusura sarebbe stata un fallimento della società tutta e la musica non lo avrebbe certamente meritato.

Se K3 è un disco monolitico e intenso da prendere in blocco seppur ricco di sfumature, contempraneo e per nulla nostalgico, un'ascesa, le sue canzoni ('Neri Relitti', 'Abbandonati A Me', 'Atlante', 'Il Monte Analogo' e 'Eterna' le mie preferite)  vanno a incastrarsi in modo perfetto con il passato, o meglio è K3 che sembra accoglierie e lasciare spazio al resto.

Alle due cover, 'Quello Che Non C'è' degli Afterhours (sbirciando la scaletta prima del concerto qualcuno aveva ipotizzato la presenza di Agnelli anche stasera ma "non possiamo portarcerlo sempre dietro" ha ironizzato Moretti) canzone che Viti contribuì a scrivere durante la sua permanenza nel gruppo di Agnelli, e 'Teardrop' dei Massive Attack, scritta e dedicata a Jeff Buckley, fino alle canzoni dei due storici album degli anni novanta: 'Cosa Resta', 'Terzo Millennio', 'La Terra', 'Jaisalmer' e l'immancabile 'Il Cielo' che fa da sipario e grido di liberazione. Un grido di nuova accoglienza e speranza per il futuro.

I Karma sono tornati. Guardando avanti non c'è più troppo spazio per un'altra lunga assenza, quindi per "restare" è l'imperativo che facciamo nostro. Il pubblico caloroso di questa sera il messaggio l'ha mandato chiaro e preciso. Bentornati. 


RECENSIONE: KARMA - K3 (2023)


domenica 5 novembre 2023

RECENSIONE: PAUL RODGERS (Midnight Rose)

PAUL RODGERS  Midnight Rose (Sun Records, 2023)



libero

Il mondo è anche quel brutto posto dove nessuno parla del nuovo disco di inediti di Paul Rodgers dopo 23 anni di assenza (l'ultimo fu Electric del 2000) con in mezzo tante cose tra cui i Queen naturalmente, un buon potenziale buttato in canzoni così e così tendenti al "dimenticate in fretta" (The Cosmos Rocks), un tour di reunion con i Bad Company, parecchie cover e un buon live per ricordare i vecchi tempi dei Free (Free Spirit del 2018).

Sì ok, anche Midnight Rose  non sarà un capolavoro ma lui è pur sempre uno dei più grandi e influenti cantanti rock blues apparsi sulla scena e dimenticarsene così non fa  noi onore. Midnight Rose, suonato insieme alla band che lo accompagna in tour,  ha il lancio del nuovo disco dopo tanta assenza, la produzione di Bob Rock (e della moglie Cynthia Rodgers), l'uscita per la prestigiosa Sun Records (un sogno per lui cresciuto a pane e Elvis) ma nella sostanza ha numeri di un EP: otto canzoni per la durata totale di poco più di mezz'ora. Forse però è solo un disco alla vecchia maniera a cui non siamo più abituati troppo. Paul Rodgers ha 74 anni ma ha mantenuto quella voce unica e graffiante che possiamo apprezzare sia nei momenti più rock ('Take Love' sa tanto di Bad Company e southern rock) e hard ('Photo Shooter', 'Living It Up' ha il tiro hard dei seventies e la ricerca della tranquillità nel testo) sia nelle ballate ('Midnight Rose' piano e archi per atmosfere molto Irish, la spagnoleggiante e soul 'Dance In The Sun', una 'Highway Robber' da viaggio on the road) e nei blues, l'iniziale 'Coming Home' e la finale 'Melting' che vuole riportare tutto agli anni meravigliosi dei Free.

Se poi consideriamo l'ictus che lo ha colpito pochi anni fa e da cui è uscito dopo vari interventi chirurgici ("quando mi sono svegliato, ho aperto gli occhi e ho pensato 'Oh, sono ancora qui' ") è comunque bello parlare ancora di Paul Rodgers a prescindere da questo disco comunque onesto, ben cantato, ben suonato e pure piacevole. 






mercoledì 1 novembre 2023

RECENSIONE: KARMA (K3)

 

KARMA  K3 (Vrec, 2023)





il ritorno

I Karma furono un sogno lisergico durato il giro di due soli dischi, anche se Fabrizio Rioda (chitarrista dei Ritmo Tribale e  produttore) ricordo che qualche tempo fa in un vecchio post su facebook confessò che in mezzo ci sarebbe dovuto essere un terzo disco registrato addirittura tra i deserti del Mojave, con canzoni poi disperse da sabbia e vento chissà dove. 

Proprio intorno ai Jungle Sound di Rioda a Milano, i Karma fecero nascere i loro dischi. All'inizio c'era l'amore di David Moretti (voce e chitarra), Andrea Viti (basso), Andrea Bacchini (chitarre), Diego Besozzi (batteria) e Alessandro Pacho Rossi (percussioni)per la psichedelia tardi anni 60, i Pink Floyd, i Led Zeppelin, Jimi Hendrix, in quegli anni novanta si inbastardì  con il grande fermento musicale proveniente da oltreoceano, il grunge di Alice in Chains, lo stoner dei Kyuss. Aggiungete un amore incondizionato per l'oriente e  i suoi ritmi spirituali e otterrete un suono che pochi avevano in Italia in quel preciso momento. E quell'adesivo "grunge all'italiana" andava loro perfin troppo stretto, nonostante la scelta di cantare in italiano faccia loro onore. 

Per questo il rimpianto per un'avventura di così breve durata fu tanto, almeno fino a quando, in tempi di lockdown, iniziarono a girare le prime indiscrezioni su qualcosa che si stava muovendo.

E pensare che Moretti e Viti ci riprovarono nel 2007 con il progetto, desertico e stoner, Juan Mordecai, ma anche quello fu archiviato e dimenticato in fretta. 

Karma (1994) e Astronotus (1996) sono dischi nati dalle lunghe jam notturne ai Jungle Sound di Milano, una comune musicale più unica che rara in quegli anni, frequentata da Afterhours (ecco Manuel Agnelli ospite in 'Nascondimi'), Ritmo Tribale (ecco Andrea Scaglia ospite in 'Una Stella Che Cade') , Casino Royale, Scisma, La Crus. Mentre nel debutto ci sono ancora le terrose radici rock che però piano piano si stavano arrampicando verso il cielo, nel secondo iniziarono un viaggio liquido, stellare, inafferrabile e alquanto affascinante. Un grande cerchio che sembrava chiuso ma che oggi a distanza di  26 anni si riapre e sembra proprio riprendere da quel 1996 aggiungendo alle già note influenze almeno un altro quarto di secolo di musica assorbita (Tool, Radiohead, Porcupine Tree, Opeth e Sigur Ros), masticata e riscritta come pochi in Italia stanno facendo ora. 

David Moretti che ormai vive negli Stati Uniti da molti anni pesca dall'alta letteratura e dalle suggestioni della natura gli spunti per i suoi testi incastonati dentro un flusso di coscienza musicale a cui piace giocare in continuazione con sali e scendi emozionali fatti di liquidità (Luce Esatta) ed esplosioni elettriche (Corda Di Parole). Registrato tra la California e le Officine Meccaniche di Mauro Pagani a Milano, K3 è un lavoro di una intensità quasi devastante, di rinascita (Neri Relitti), di poetica lucidità romantica (Abbandonati A Me), tribalità primordiale (K3), profondità abissale (Atlante) e scalate elettriche in cielo (Il Monte Analogo). Un disco che segue un suo corso, un cammino che lo porta a un finale esaltante scritto in canzoni come Ophelia ed Eterna, undici minuti ricchi, avvolgenti, drammatici, psichedelici, temprati. "Gambe e polmoni". Anticipazione di quello che ci aspetta nell'imminente tour.

Se negli anni novanta i Karma erano una delle band di una scena fiorente e numerosa che ha lasciato musica e ricordi indelebili, oggi sono una mosca bianca, rara, da proteggere e accudire, sperando non sfugga via ancora una volta per altri decenni in cerca di libertà e nuove ispirazioni. Se sarà così l'aspetteremo ancora una volta, intanto godiamoci questo sorprendente presente.

Tra i miei dischi italiani dell'anno.







sabato 28 ottobre 2023

RECENSIONE: RIVAL SONS (Lightbringer)

RIVAL SONS  Lightbringer (A Low Country Sound/Atlantic, 2023)




doppietta

Uscire con un nuovo disco lo stesso giorno dei Rolling Stones non è cosa facile per nessuno. I titoli da prima pagina saranno per la prossima volta. I RIVAL SONS, in verità, con Lightbringer, prodotto ancora una volta da Dave Cobb, vanno a completare la loro opera omnia di questo 2023 che li ha visti già protagonisti a Giugno con la prima parte Darkfighter. Complesso di canzoni nate e registrate nello stesso periodo ma divise in due, un concept sull'oscurità di questi ultimi tempi che poteva diventare un disco doppio ma si è optato per due uscite a distanza. "C'era troppa musica per un solo disco. Non appena ho presentato l’idea di dividerlo a Jay (Buchanan), gli è piaciuta moltissimo” racconta il chitarrista Scott Holiday.

Là regnava una certa rassegnazione, qui l'umore sembra più disteso e ottimista. Dove c'era il buio ora si intravede un barlume di luce. La redenzione ('Redemption').

Ormai non hanno più bisogno di troppe conferme e possono permettersi di aprire l'album con i ben nove minuti di Darkfighter, cangiante canzone che fa da ponte con il precedente album (che portava quel titolo) ne riassume le caratteristiche che esplodono nella loro parte più selvaggia e hard in altre canzoni come la tirata 'Sweet Life' e nella parte più distesa nella finale 'Mosaic'.

"Darkfighter segna una nuova era dei Rival Sons e Lightbringer è la chiara definizione di ciò che siamo ora. Con Darkfighter abbiamo aperto un varco, ma Lightbringer è un passo avanti rispetto alla nostra innovazione ed esplorazione personale. Si spinge un po’ più in là. Abbiamo davvero preso tutto nelle nostre mani e ci siamo spinti fino a dove potevamo arrivare" così parla Jay Buchanan.

La calma che tocca il folk bucolico, le esplosioni hard, gli allunghi di tastiere che fanno immaginare la lontana stagione progressive, tutto segni distintivi del loro approccio musicale mai stantio, dove il passato seventies ben si incastra con il presente ('Before The Fire').

Jay Buchanan rimane lo strepitoso cantante di sempre, graffiante ma anche pregno di calore soul, Scott Holiday un chitarrista che tra riff di elettrica, slide e arpeggi acustici sa il fatto suo. Sicuramente tra i migliori della sua generazione e da tenere in considerazione.

 A proposito di Stones, in questi giorni Mick Jagger ha dichiarato: "i Maneskin sono oggi la più grande rock band al mondo. Stupisce che sia un gruppo italiano». Beh per me una delle più grandi rock band di classic rock di oggi proviene da Long Beach, California, ha ormai una carriera lunga 14 anni sul groppone e otto dischi in bacheca. Per i miscredenti l'appuntamento è all'Alcatraz di Milano, domenica 29 Ottobre.






martedì 17 ottobre 2023

RECENSIONE: THE RECORD COMPANY (The 4th Album)

 

THE RECORD COMPANY  The 4th Album (Round Hill Records, 2023)





ritorno alla partenza


Che i Record Company avessero le strade spianate per ottenere un buon successo lo si capì fin  da subito. Nati a Los Angeles facendo bisboccia in un pub intorno a un disco epocale come Hooker 'N Heat che girava, prima ancora dell'uscita del loro esordio Give It BackTo You (2016), la loro canzone 'Off The Ground' fu scelta dalla birra Miller Lite per uno spot pubblicitario.  La fama accresce velocemente e si trovano a suonare come spalla di Buddy Guy, B.B.King, Social Distortion, Bob Seger, Blackberry Smoke. Quando esce il debutto che in copertina li ritraeva on stage, loro habitat naturale, i consensi furono unanimi e il disco finì in nomination per i Grammy . Il successore All Of This Life (2018) batte le stesse strade di quel blues che scavava nel passato ma con costanti proiezioni nel presente che ne garantivano una rara dote di freschezza. Poi con il terzo disco Play Loud (2021) fecero il classico passo più lungo della gamba: si aprirono a suoni più commerciali, patinati e moderni che snaturarono il loro sound primordiale. La loro casa discografica, la Universal, li abbandonò.

"È stato difficile da digerire, perché avevamo già deciso di scrivere il disco più essenziale e grezzo che avessimo fatto negli ultimi anni, e avevano dei demo di questa nuova musica. Combinando tutto questo con alcune nuove realtà economiche, un tour cancellato, ci siamo sentiti davvero come se tutto stesse crollando all’improvviso” racconta il bassista Alex Stiff.

Sono passati due anni  e la band di Chris Vos (voce, chitarre e armonica), Alex Stiff (basso) e Marc Cazorla (batteria) decide di tornare all'umiltà delle origini: mettono la produzione nelle mani delli stesso Stiff, cambiano casa discografica e ritornano veramente al suono semplice e primordiale del blues, senza troppe sovrastrutture: chitarre, voce, armonica, basso e batteria.Una scelta che paga sempre. 

 “Un tema comune in questo disco era mantenere il suono grezzo e un ritorno alle origini. Con Talk To Me abbiamo utilizzato la stessa batteria scadente ascoltata nelle nostre prime registrazioni".

Così tra rock blues movimentati e caricati a groove come 'I'm Working' e l'apertura 'Dance On Mondays' ("mi riprendo la mia vita e non ballerò per nessuno" è il suo significato), rock’n’roll blues guidati dall'armonica  ('I Found Heaven'), rockabilly ('Roll With It') e momenti acustici come l'inno On the road 'Highway Lady' e la finale 'You Made A Mistake', un blues che sa di antico, i Record Company dimostrano quanto la semplicità sia sempre il miglior antidoto per riprendersi in mano la carriera.





sabato 7 ottobre 2023

RECENSIONE: GRAVEYARD (6)

 

GRAVEYARD  6 (Nuclear Blast, 2023)




facciamolo diverso

Un sabato notte, siamo quasi a fine concerto dei Graveyard al Bloom di Mezzago: i quattro svedesi salutano e si dileguano nel backstage. Le luci del locale non si accendono. È chiaro: c’è tempo per altre canzoni. Saranno poi tre. Davanti al palco due fan (ma chiamiamoli pure coglioni) che durante il concerto non hanno fatto altro che farsi i cazzi loro (ma a questi individui il biglietto chi lo paga?) parlando a voce alta e facendo spola tra la sala e il bar con birre medie in mano, approfittando dell’assenza della band decidono di raccattare tutti i plettri (quattro o cinque) che il bassista Truls Mörck aveva comunemente infilato nell’asta del microfono. Quando i Graveyard rientrano per i bis, dopo due minuti di canzone, il bassista fa due passi in avanti, allunga la mano verso il microfono cercando i plettri con le dita, abbassa lo sguardo e non ne trova più nemmeno uno. Sorpreso e corrucciato, indietreggia cercandone altri sopra gli ampli. Non li troverà e finirà il concerto senza plettri. A questa scena i due coglioni (non sono dei fan ho deciso!) se la ridono con i loro miseri feticci nelle tasche, lì mischiati a chiavi, chewing gum e ai loro cervelli…

Si concluse così il concerto dei Graveyard al Bloom di Mezzago nell'ottobre del 2018, concerto che portava in giro il loro ultimo album Peace, uscito pochi mesi prima, un disco che ne sanciva il ritorno dopo pochi mesi bui, durante i quali decisero addirittura di sciogliersi. 

Sono trascorsi cinque anni da allora e gli svedesi provenienti dall'isola di Hisingen, quartiere operaio di Goteborg,  ritornano con 6 (il numero dei loro dischi naturalmente), un disco che testimonia, se ancora ce ne fosse bisogno, di come la band abbia ragione di esistere. Rispetto al precedente e ruspante Peace che guardava all'hard blues queste nuove nove tracce circondate da un progetto grafico molto vintage, portano il suono verso un'aurea intimista e psichedelica di stampo seventies, viaggiando leggere più in cielo che in terra.

Fin dall'apertura 'Godnatt', liquida e lisergica quanto basta per tarare il mood dell'intero album. A farle  compagnia le impronte desertiche lasciate su 'Breathe In Breathe Out' con i cori femminili che allungano sul gospel, la malinconia di una 'Sad Song' che nel titolo ha già tutto, la psichedelia di 'Bright Lights' fino alla lenta calata della finale 'Rampant Fields', blues notturno e fumoso.

Le chitarre di  Joakim Nilsson (anche voce) e Jonatan La Rocca Ramm giocano spesso di fino ma sanno anche ritornare all'antico dando un tiro hard zeppeliano a 'Twice', suonando  blues nel crescendo di 'No Way Out', nello sviluppo alla Doors del  rock’n’roll di 'I Follow You' incastonato tra inquietanti trame bluesy folk, nella cavalcata 'Just A Drop' che si guadagna il titolo di canzone più heavy del disco.

Un disco "diverso" che va ad arricchire la loro discografia e che li conferma come una delle migliori band europee degli ultimi anni nelle latitudini seventies che non passeranno mai si moda.





domenica 24 settembre 2023

RECENSIONE: RUDY MARRA & the M.O.B. ft. Dana Colley (Morfina)

RUDY MARRA & the M.O.B. ft. Dana Colley  Morfina (Viceversa Records, 2023)



effimera come la morfina

A più di trent'anni da quella sua apparizione al festival di Sanremo del 1991 dove venne subito eliminato nella categoria "esordienti" presentando la canzone Gaetano (ma vinse il premio della critica), Rudy Marra è tornato quest'anno con il suo quinto disco in carriera, l'ultimo fu Sono Un Genio Ma Non Lo Dimostro datato 2007.

In quel lontano Sanremo interruppe il presentatore con un "lasciami cantare che è meglio" mettendo subito in chiaro le cose. Dritto al punto.

Marra è uno che fa uscire dischi solamente quando ha veramente qualcosa da sputare fuori (quando non escono dischi scrive anche libri), non certo schiavo delle mode o della frenesia del mercato discografico o di quel che è rimasto per chiamarlo ancora così. Un cane sciolto che si aggira beffardo tra la musica d'autore italiana lasciando morsi, graffi e qualche acida pisciata disturbante al suo passaggio. Un cantautore per chi ha voglia di uscire dai soliti binari preconfezionati da case discografiche e mass media.

Morfina è  un concept album che rinsalda la sua collaborazione con Dana Colley e tutto l'amore per i Morphine, celebrati sia nel titolo dell'album (che in verità prende il nome dal romanzo di Bulgakov) sia con ben due cover (Thurday che diventa Corde e Let’s Take A Trip Together riadattata in Su e Giù) più una composizione che vede come protagonisti nel testo Mark Sandman, compianto leader dei Morphine e la sua compagna Sabine Herechdakian (Mark & Sabine).

Canzoni appuntate come pagine di un diario, dove male e bene, buono, cattivo, salute, malattia, sano e guasto  lottano eternamente per prevalere nel cammino della vita, quella lunga parentesi (a volte pure breve), imbastita su tante scelte giuste e molte sbagliate nel tentativo di catturare quella  felicità che lo stesso Marra sostiene "effimera come la morfina". Blues scarni e all'osso (l'ipnotica Amore Sexy, la più movimentata e di denuncia Voglio il Lavoro), carichi di beffarda ironia (Di Mercoledì), smussati negli spigoli dalla presenza del sax di Colley che serpeggia con disinvoltura tra le parole in canzoni che sfiorano  il jazz (Sto Perdendo Tempo), il funk (Oggi Sto Guasto) e con dediche al suo Salento (Filare De Tabbaccu). Tra le sedici canzoni spuntano anche altre due cover rifatte in modo personale: la strumentale Obscured By Clouds dei Pink Floyd e una Diesel, rallentata e fumosa, di Eugenio Finardi con lo stesso autore ospite.

Tra le migliori uscite italiane di questo 2023 ma pochi ancora lo sanno.






domenica 17 settembre 2023

RECENSIONE: JONATHAN WILSON (Eat The Worm)

JONATHAN WILSON  Eat The Worm (BMG, 2023)



alzare l'asticella

Ritorna Jonathan Wilson ma dove sia veramente diretto è sempre difficile capirlo. Lo avevamo lasciato nei pressi di Nashville con il precedente Dixie Blur (2020) quello che era il suo disco più roots e terreno della carriera. Sembrava aver piantato i piedi in terra. Invece... Intanto ha continuato la sua carriera di produttore (Father John Misty, Lana Del Rey) e musicista e la collaborazione con Roger Waters è il fiore all'occhiello che ripaga la sua bravura.

"Sono finalmente arrivato al punto in cui mi sento totalmente libero di correre dei rischi" e qui Wilson ne corre tanti. 

I piedi si alzano da terra e iniziano a librare in cielo, attraversando decenni di musica rock e dintorni. Un lungo ponte tra passato e futuro attraversato con spavalderia, coraggio, intuizione. Sì: corre tanti rischi. Il primo proprio quello di non essere capito e quindi subito accantonato dai più pigri. Ma pochi oggi riescono a unire così tanti puntini con occhi visionari e totale devozione alla musica come Wilson: sia che  passi da Harry Nilsson ('Marzipan' dove cita Jim Pembroke, cantautore britannico, frontman della band prog finlandese Wigwam che pare sia stato la maggior ispirazione di questo disco) alle strambe alchimie  Zappiane, dai sempre amati Pink Floyd alla West Coast californiana ('Hollywood Vape' con i suoi scatti rock), da arrangiamenti alla Bacharach ('Ridin In A Jag') al jazz, con pochi  battiti d'ala ma con una visione d'insieme magniloquente dove le canzoni prendono strade cangianti, a volte impreviste, a tratti languide e liquide ('Ol' Father Time', la malinconica 'Lo And Behold'), solari come succede in 'The Village Is Dead', la più movimentata con il suo forte e aspro sapore sixties.

Un pianoforte come guida ('Hey Love', 'East LA' battono i tasti di Randy Newman), arrangiamenti orchestrali di fiati e archi, sax improvvisi, synth, citazioni curiose e non (il bizzarro carnevale di 'Bonamossa', il soffuso R&B 'Charlie Parker' che si trasforma in prog pinkfloydiano, la bossa nova 'Wim Hof'), svolazzi sperimentali e percorsi tortuosi.

Pura psichedelia pop (in 'B.F.F.' traccia certi aspetti negativi dell'industria discografica) dove Wilson suona quasi tutto da solo, anche se un grande aiuto lo da Drew Erickson.

Ambizione e coraggio tarati a cento per chi vuole immergersi in qualcosa di poco rassicurante. Certo, a volte dalla musica vorremmo solo un abbraccio amico, poteva ripetete l'incredibile Fanfare a vita, Wilson invece ti prende per mano, ti invita a fantasticare nuovi mondi. E sognare è  ciò che ci fa rimanere ancora vivi. Wilson è un ottimo corroborante.





mercoledì 13 settembre 2023

RECENSIONE: THE HIVES (The Death Of Randy Fitzsimmons)

 

THE HIVES  The Death Of Randy Fitzsimmons (Disque Hives, 2023)






il disco rock'n' roll dell'estate che sta finendo

Gli svedesi The Hives nonostante i dodici anni di assenza discografica non sono per nulla cresciuti, la parola maturità  nel loro dizionario non è contemplata, il vocabolario dev'essere lo stesso usato in vita anche dal povero e saggio Lemmy Kilmister che soleva ripetere la stessa cosa.

"Il Rock’n’roll deve restare come  nel primo disco di Little Richard" dicono...

"Molta energia ma nessuna direzione – questo è il rock'n'roll!

Allora si invecchia con la stessa voglia di divertirsi che avevano venticinque anni fa quando uscirono a conquistare il mondo con dischi come Barely Legal (1997) e Veni Vidi Vicious (2000). E pensare che questo disco verte intorno alla scomparsa del loro mentore e fondatore, nonché autore di tutti i testi, Randy Fitzsimmons, che ha lasciato loro queste ultime dodici canzoni da suonare e portare in giro. Che poi il signor Fitzsimmons esista veramente o sia un'invenzione  della loro mente passa in secondo piano davanti alla solita centrifuga di rock’n’roll dove punk ('Bogus Operandi'), garage rock ('Countdown To Shutdown', 'Step Out The Way'), power pop ('Two Linds Of Trouble'), boogie ('The Way The Story Goes'), rockabilly ('Crash Into The Weekend') e una  leggera spruzzata di elettronica ('What Did I Ever Do To You?') adornano i loro testi irriverenti, pungenti e sarcastici e quei cori irresistibili e acchiappa like ('The Bomb'). Oltre a Fitzsimmons gli altri mentori (dalla certificata esistenza) sono tutti presenti: da Screamin' Jay Hawkins ('Stick Up') ai Cramps ('Rigor Mortis Radio') fino ai Ramones ('Smoke & Mirrors').

Poco più di mezz'ora inscatolati dentro a una copertina molto sixties e vestita di abiti sgargianti e una forte dose di divertimento, guidati da Howlin' Pelle Almquist sopra ai palchi di tutto il mondo.

E se siete di quelli che il rock’n’roll lo date per morto un giorno sì e quell'altro pure, ascoltate qua:"la tua band e la tua musica muoiono insieme ai tuoi fan. Una band che attrae nuovi fan vivrà per sempre. Devi avere una specie di ricrescita. Gli spettacoli e la folla sono sempre rinvigoriti dai fan più giovani. Se proiettiamo energia, loro reagiranno a questo”. Long live rock’n’roll.





giovedì 31 agosto 2023

RECENSIONE: ALICE COOPER (Road)

 

ALICE COOPER  Road (EDEL/Ear Music, 2023)

on the road again



C'è una scena in  Daliland, il film uscito quest'anno ma in verità poco preso in considerazione, che si concentra sull'anno (1974) trascorso da Salvador Dalì a New York visto con gli occhi di un giovane gallerista alle prime armi: durante uno dei tanti baccanali a base di sesso e cocaina organizzati per Dalì, Jeff Fenholt (cantante della versione teatrale di Jesus Christ Superstar in quel momento al top) e Alice Cooper si raccontano le loro esperienze musicali quando si presenta Gala, musa di Dalì, e si porta via il suo nuovo pupillo Fenholt: "lascia stare quello che è un fallito, con i suoi foschi spettacoli non farà molta strada". Sappiamo tutti com'è finita: Road, appena uscito, è il ventinovesimo disco di Alice Cooper e proprio di tutti quei chilometri macinati in più di cinquant'anni di carriera si nutre.

Ho seguito gli ultimi due tour italiani di Alice Cooper e devo confessare di essermi sempre divertito tantissimo: Alice Cooper mette ancora in scena uno spettacolo dove rock’n’roll e teatro non prevaricano uno sull'altro accontentando tutti, grandi e piccini, adepti e nuovi fan.

Road è l'ennesimo concept album di Vincent Furnier, dopo l'omaggio alla musica della città di Detroit del precedente disco Detroit Stories, questa volta ha deciso di dare spazio ai musicisti della band che lo accompagna in tour: i chitarristi Nita Strauss, Ryan Roxie e Tommy Henriksen, Chuck Garrick al basso e Glen Sobel alla batteria sono tutti coinvolti anche in fase di scrittura. Il vecchio e sodale Bob Ezrin è in produzione ancora una volta.

"Volevo mettere in mostra la band in tournée, quindi abbiamo scritto le canzoni, siamo andati in studio e ho detto: 'Ecco l'accordo su questo album: niente sovraincisioni'. Ho detto".

Un disco che non cambia di una virgola la sua carriera  ma continua a proiettarlo nel presente ancora da protagonista non cedendo di un millimetro: qui dentro c'è ancora tutto lo scibile rock di Alice Cooper. Autobiografia di un musicista continuamente on the road.

Anche quando i testi sembrano adagiarsi un po' troppo sulla retorica della band rock in tour, l'ironia prevale e riporta tutto a posto.

È la sua storia di viaggiatore del rock ('I'm Alice' canta nel brano di apertura come se ci fossero ancora bisogno di presentazioni) proiettata su tredici canzoni che recuperano i suoni di sempre: dai rock’n’roll di 'Welcome To The Show' (ennesimo benvenuto a un suo concerto), e di 'Go Away' ai  suoni più hard e heavy di 'Dead Don't Dance' con la vecchia conoscenza Kane Roberts alla chitarra (rientrò nella band per un breve periodo in sostituzione di Nita Strauss, fresca di un disco solista ma rientrata presto in formazione) di 'White Line Frankenstein' con l'ospitata di Tom Morello, qui autore di un assolo dei suoi ma con qualcosa di diverso e la più heavy del lotto 'The Big Goodbye'.

Passando dalle influenze soul black che ruotano intorno a 'All Over The World', a quelle più country della ballata 'Baby Please Don't Go' (tra gli autori Keith Nelson dei Buckcherry) fino agli episodi più leggeri e giocosi come 'Big Boots', rock’n’roll con il pianoforte saltellante tra i doppi sensi o al veloce e corale blues  'Rules Of The Road', vademecum per giovani rockstar in erba scritta insieme a Wayne Kramer (Mc5). Per chi ama l'Alice Cooper dalle atmosfere tetre e teatrali c'è spazio per la breve '100 More Miles'. Mentre 'Road Rats Forever', uno speciale tributo ai roadie sembra riprendere là dove finiva 'Road Rats' contenuta in Lace And Whiskey, album del 1977. Il viaggio si conclude con la cover di 'Magic Bus' degli Who a cui viene aggiunto un assolo di batteria di Glen Sobel.

Ma il messaggio sembra chiaro: c'è ancora tanta strada da percorrere e il buon Alice Cooper non ha nessuna intenzione di fermarsi, almeno finché i copertoni tengono così bene l'asfalto e credetemi, di settantacinquenni che fanno ancora rock’n’roll così ne sono rimasti pochi.






sabato 26 agosto 2023

RECENSIONE: RYAN BINGHAM (Watch Out For The Wolf)

 

RYAN BINGHAM  Watch Out For The Wolf  (Thirty Tigers, 2023)



parentesi

Messa in stand by la sua carriera d'attore arrivata al momentaneo culmine con la partecipazione nella serie di grande successo Yellowstone e nel pieno della sua nuova storia d'amore con Hassie Harrison, attrice conosciuta proprio sul set, Bingham ritorna alla musica a quattro anni dall'ultimo disco American Love Songs. Lo fa però in misura ridotta con un Ep di sette canzoni, poco più di venticinque minuti di musica, ma soprattutto mettendosi completamente in gioco come mai prima: Ryan Bingham scrive, canta, suona e produce. Un disco atipico, scarno fino all'osso, registrato in solitaria nel suo "rifugio" del Montana.

"Un microfono, una chitarra, una tastiera MIDI, una chitarra elettrica" questo è tutto quello di cui ha avuto bisogno.

La scrittura in solitudine era già stata sperimentata molto bene nell'album Fear & Saturday Night (2015), nato tra le montagne della California, per me uno dei suoi vertici dopo il debutto. Sette canzoni che forse servono più all'autore per mettere ordine alla sua carriera che a noi.

"Creare questo album in solitudine è stato ultraterreno, spirituale e talvolta semplicemente dannatamente terrificante" ha raccontato.

 Un ponte ,un passaggio, un bisogno di tornare alla musica, per far dire a se stesso  e ai fan "ci sono ancora". Inizia e finisce fischiettando Ryan Bingham in Where My Wild Things Are e nella conclusiva This Life. Nella prima si cala completamente nel paesaggio naturale che lo circoda: lui, la solitudine, la notte che cala e le stelle che illuminano la natura intorno, in This Life ci invita a vivere al meglio la vita. In mezzo ci si cala in canzoni dal forte impatto atmosferico (Automated), desertiche (Shivers), di blues ombroso e solitario (The Devil Stole My Style), ritmi quasi tribali tra l'acustico e l'elettrico nella strumentale Internal Intermission e il country tra mandolino e elettrica di River Of Love. Certo, la presenza di una batteria campionata sembra togliere un po' di calore a queste canzoni solitarie da falò nel bosco ma se le si prende per quello che sono riescono a disegnare il giusto quadro di dove sia oggi Ryan Bingham.

"Durante la realizzazione di questo album, ho attraversato una precisa evoluzione personale o trasformazione spirituale che non riesco davvero a spiegare".

Lo chiameremo disco di passaggio, aspettando qualcosa di più sostanzioso, sempre che non voglia rituffarsi dietro a una camera da presa, lasciando la sua musica agli spiriti del bosco e alle stelle.





mercoledì 16 agosto 2023

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Chrome Dreams)

NEIL YOUNG - Chrome Dreams (Reprise, 1977/2023)



la leggenda perduta

Si potrebbe fare un piccolo quanto inutile giochino: prendere matita e gomma, l'elenco dei dischi ufficiali di Neil Young usciti, l'elenco dei lost album lasciati nel cassetto durante gli anni e spuntare, cancellare, rimaneggiare i primi dando per buoni e non dimenticati i secondi. Poi fare la conta di cosa è rimasto. 

"Nel 1976 ero una furia è siccome avevo preso l'abitudine di scrivere diverse canzoni alla settimana, mi ritrovai ingolfato: avevo troppo materiale e poco tempo in studio. Registravo ovunque potessi farlo e mi muovevo velocissimo, finendo i miei dischi rapidamente. Per me non era tanto importante creare un disco perfetto, quanto piuttosto catturare su nastro le performance e il sentimento originale delle nuove canzoni. Che sia qualcun altro a fare il disco perfetto. Io dovevo prendermi cura delle canzoni". Così Neil Young spiegò quella bulimica vena artistica compresa tra 1972 e il 1977. Chrome Dreams esce con quasi cinquant'anni di ritardo per cercare di mettere ordine ai suoi infiniti archivi, farci spendere un po' di soldi (ma non è un obbligo) e permetterci di fare il gioco sopra proposto naturalmente. Scorrendo le canzoni nulla ci parla di sorprese e novità ma apre l'immaginazione dei "se e dei ma": cosa sarebbe cambiato se Chrome Dreams fosse uscito in quel 1977? Certamente American Stars 'N Bars sarebbe stato monco di tante canzoni straordinarie (e forse non sarebbe mai esistito) come 'Homegrown' (che in versione acustica doveva essere la title track di un altro lost album e invece qui compare nella versione Crazy Horse),  'Star of Bethlehem' (già apparsa anche su Homegrown), una 'Hold Back The Tears' qui in una versione embrionale, due canzoni amare sulla fine di un amore, o 'Will To Love' "una delle migliori robe che abbia mai fatto" racconterà Young di quella canzone composta davanti a un camino acceso da un uomo stonato, con la sua solitudine e il suono di una chitarra che si confondeva con lo scoppiettio dei ceppi sotto il fuoco. Un registratore a cassette Sony stava registrando tutto.  Nasce così un piccolo capolavoro di "scrittura libera" (mai suonato dal vivo) che lo ritrae nelle sembianze di un salmone che risale la corrente, oppure quella cavalcata carica di suggestioni con le chitarre elettriche in evidenza che è Like A Hurricane ("scrissi il testo di ‘Like a Hurricane’ su un pezzo di giornale sul retro della DeSoto Suburban del 1950 di Taylor Phelps, una sera verso la fine di Novembre del 1975"). Oppure Rust Never Sleeps non avrebbe mai avuto 

'Pocahontas', composta  nel 1976 e che sabbe dovuta finire prima ancora su Hitchhiker, 'Sedan Delivery' e 'Powderfinger' già promessa anche lei a Hitchhiker.

Su Freedom, disco che anticipava la rinascita degli anni novanta, non avremmo avuto 'Too Far Gone' che qui però compare nella sua prima stesura sempre con il mandolino di Poncho Sampedro in bella evidenza. Su Hawks & Doves non ci sarebbe stata 'Captain Kennedy' che però era già prevista sul lost album Hitchhiker. Una 'Stringman', ballata al pianoforte che comparirà per la prima volta nell'Unplugged per MTV solamente negli anni novanta, anche qui la versione è registrata live ma nel 1976. Una 'Look Out For My Love' che finì su Comes A Time.

Naturalmente anche questo Chrome Dreams sarebbe stato monco se avessimo applicato lo stesso criterio ma "lost album" contro "lost album". Perchè pare ci sia sempre un lost album prima di un lost album.

Sì insomma, un bel casino questo giochetto. Certo: un disco per completisti, per fan incalliti che già lo conoscevano attraverso i bootleg che circolavano dai primi anni novanta ma che ora possiamo ascoltare tutti proprio così come fu pensato. Apparentemente poco imparentato con Chrome Dreams II che uscì nel 2007 se non l'idea di assemblamento di canzoni provenienti da periodi diversi.

 Molte anche le leggende che ruotano intorno ad alcune canzoni pensate per questo album: 'Powderfinger', 'Captain Kennedy' e 'Sedan Delivery'  sarebbero state proposte ai Lynyrd Skynyrd del periodo Street Survivors, un ulteriore segnale di distensione tra Neil Young e il gruppo dopo le scaramucce post 'Alabama'. Infine la copertina: disegnata da Ronnie Wood.

Un fottuto capolavoro se fosse uscito con i tempi giusti. Oggi sembra un superbo greatest hits. E sono solo 12 canzoni.








sabato 5 agosto 2023

RECENSIONE: STEPHEN STILLS (Live At Berkeley 1971)

 

STEPHEN STILLS  Live At Barkeley 1971 (Iconic Artist Group, 2023




tesori nascosti


Sembra che David Crosby in quelle serate del 20 e 21 Agosto del 1971 al Berkeley Community Theater fosse tra il pubblico per assistere ai concerti del primo tour solista americano dell'amico STEPHEN STILLS. Una presenza significativa visto che da poco il supergruppo CSN & Y non esisteva più. Crosby fu chiamato sul palco a sorpresa, senza prove,  ma d'altronde l'intesa fu da sempre uno dei punti di forza del trio insieme a Nash che ci si vedeva a occhi chiusi. Pura magia.

Le due canzoni cantate insieme ('You Don't Have To Cry' e una superlativa 'The Lee Shore') sono solo la conferma e uno dei momenti più alti di queste registrazioni trovate recentemente dalla stesso Stills. 

"Stephen era un genio e aveva un groove stupefacente. Possedeva un senso del ritmo sovrannaturale, tutto suo, era un orologio con l'anima, non tirava nè arretrava mai" così scriveva Neil Young tra le pagine della sua autobiografia. Questo primo tour americano fu anche la conferma di quelle parole. Stills sentiva la necessità di uscire dai gruppi (Buffalo Springfield prima CSN&Y dopo) per esprimersi in tutte le sue potenzialità, forte di due album, i migliori della sua carriera, che mostravano un musicista perennemente curioso, caldo, verace, strabordante, capace di tirare fuori il meglio da ogni genere musicale con la naturalezza concessa a pochi fuoriclasse della musica. Concerti che partivano in acustico con Stills che faceva sfoggio del suo proverbiale fingerpicking all'acustica ('Love The One You're With', 'Black Queen'), e abilità pianistica (l'intima esecuzione di '49 Bye Bye/For What it's Worth'). Una menzione anche per Steve Fromholz, chitarra e voce (lo sentiamo in 'Jesus Gave Love Away For Free'), e vero braccio destro di Stills in quel tour.

Per poi esplodere nella seconda parte, straripante di soul, blues e rock latino grazie alla presenza dei Memphis Horns che daranno pure il nome al tour (The Memphis Horns Tour). Una sarabanda di suoni ('Ecology Song' è un carnevale) e colori ('Cherokee', 'Lean On Me' con le chitarre elettriche in pimo piano) che sembrava controbilanciare una vita privata disordinata e fosca dettata dall'uso di cocaina e barbiturici che lo portarono perfino ad un arresto a La Jolla in California.

"È stato il mio primo tour come artista solista e questi spettacoli erano rauchi e sfrenati , catturati qui in queste registrazioni."

Un live intenso, ipnotico e magico in più momenti. Peccato le due serate non siano state recuperate per intero, si è preferito fare un mix tra le due, dando anche più spazio alla prima parte acustica rispetto alla seconda elettrica. Da avere.