domenica 28 luglio 2019

RECENSIONE: PURPLE MOUNTAINS (Purple Mountain)

PURPLE MOUNTAINS  Purple Mountains (Drag City, 2019)




David Berman, un allegrone non lo è mai stato, dipendenze e depressione sono state amaro pane quotidiano durante tutta la sua vita. Anche se il segreto dell'autoironia ha sempre fatto la differenza. 
Dieci anni fa decise di abbandonare la musica proprio quando i suoi Silver Jews iniziarono a diventare una certezza consolidata di certo indie rock (Lookout Mountain Lookout Sea rimane l'ultimo guizzo) : voleva dedicarsi completamente alla scrittura e alla famiglia.

Lo ritroviamo oggi sotto il nuovo nome Purple Mountains, con il pesante peso di un matrimonio fallito e la morte della adorata madre da portare sulle spalle. Titoli come 'All My Happiness Is Gone' e 'I Loved Being My Mother' s Son' sembrano rappresentare bene gli ultimi accadimenti della sua vita che lo hanno condotto diritto verso la solitudine.
E un verso come "ci sono giorni in cui mi sveglio arrossendo, come se mi vergognassi di essere vivo" da appendere fuori dall'uscio di casa.
Per uno come lui c'è tutto il necessario per piombare sotto nel profondo baratro, invece nonostante 'Darkness And Cold' (e chi la toglie più dalla testa?) decide che la musica sarà la sua ancora di salvezza. Ancora una volta. Raccatta su una nuova band e dipinge nove nuove canzoni che ondeggiano placide e amare su un country folk iniettato di synth pop su cui spalma in melodia le sue frustrazioni odierne, regalando anche splendide e fredde immagini di vita metropolitana ('Snow Is Falling In Manhattan') e ritmi da frontiera (le trombe mariachi di 'Margaritas At The Mall').
Lo fa però con la consueta, amara e imbattibile ironia. Un puro senza artifizi. Bentornato.












mercoledì 24 luglio 2019

RECENSIONE: WARRIOR SOUL (Rock'n'roll Disease)

WARRIOR SOUL  Rock'n'roll Disease (LiveWire, 2019)
 
 
 
rock'n'roll never dies
 
KORY CLARKE ha sempre fatto quello che cuore e mente gli hanno dettato. Nel bene e nel male. A un passo dal diventare uno dei più credibili guru del rock alternativo degli anni novanta quando la sua creatura Warrior Soul, nata a Detroit e cresciuta a New York, iniziò a buttare fuori dischi che mischiavano l'urgenza del post punk con il metal, la New Wave e la psichedelia condendo il tutto con testi al vetriolo da ultimo dei reietti con la missione ben precisa di mettere in guardia il mondo da un'imminente apocalisse. Ci andò vicino ma i suoi messaggi erano "troppo divisivi" per un mercato che cercava nuovi idoli universali.
"In America ho sempre trovato difficoltà. Ho sempre pensato che fosse a causa delle mie critiche alla situazione sociale americana e al coraggio di dire davvero quello che provo al riguardo". Musicalmente il tutto durò una stagione, Clarke chiuse i Warrior Soul nel cassetto delle "cult band", si mise l'anima in pace ma continuò a produrre musica su strade più leggere e sleaze con il progetto Space Age Playboys, diventando pure il cantante dei fumosi Trouble. Nel suo passato più remoto anche esperienze come batterista (Raging Slab), capacità che sfodera ogni tanto: qui dentro sei canzoni su otto le ha suonate lui.
Nel 2007 ha rimesso insieme la sua arma più scintillante e pericolosa. Rock'n'roll Disease non lascia nulla all'immaginazione: titolo e copertina sono chiari. Si continua in qualche modo a combattere con lo sguardo meno visionario e poetico ma più truce, beffardo e festaiolo .
Perso per strada il suono graffiante a tratti ipnotico degli anni novanta e persa la fredda epicità della sua voce, diventata ora roca e ringhiosa, a tratti rantolante, sulla buona strada che porta verso il caro Lemmy, a guadagnare sono la belluina urgenza, l'istintività che si aggancia alle radici proto punk dei 70 di Mc5 e Stooges ('Rock'n'roll Disease', 'Melt Down'), e ai rami di quel suono hard rock blues sporco e puzzolente che Motorhead e vecchi AC DC ('Up The Dose', 'Going Mental') portavano in giro con orgoglio ai tempi d'oro. La chitarra di Adam Arling è una buona ascia su cui contare per riff e assoli, 'War Ride Children' un testo su cui pensare. 
Il disco riprende il discorso interrotto dal precedente Back On The Leash, uscito due anni fa: otto canzoni secche e dirette (registrate in presa live) la cui vera casa è il palco, 32 minuti senza un attimo di respiro che passano in quella sorta di apnea ruvida e contagiosa che sa ancora essere il rock’n’roll quando non si affida a calcoli ma al puro istinto.
Alla larga gente con troppa puzza sotto il naso, qui dentro il marciume del rock'n'roll vince su tutto.
 
 
 

 

 

venerdì 19 luglio 2019

RECENSIONE: THE BLACK KEYS (Let's Rock)


THE BLACK KEYS   Let's Rock (Nonesuch Records, 2019)
stasera l'aria è fresca
"Let's Rock" gridò il condannato a morte seduto sulla sedia elettrica nello stato del Tennessee. L'ultimo desiderio si è in parte avverato anche se "let's pop" sarebbe andato bene ugualmente, non c'è mica nulla di cui vergognarsi. Per questo nuovo disco della coppia Dan Auerbach/Patrick Carney prendo in prestito per una volta una delle frasi che odio di più abbinata a un disco. Come dice qualcuno: "cresce con gli ascolti". Sì perché dopo due ascolti mi sembrava veramente poca roba. Tutto qui? Che noia. Ecco: arrivati a questo punto mi vedo mentre prendo il CD e lo attacco allo specchietto retrovisore all'interno della mia auto. Lo si faceva anni fa. Che cosa brutta. Ma qualcuno, misteriosamente, lo fa ancora.
Ma poi…poi se vi avventurate in un terzo ascolto, succede che queste canzoni iniziano a girare in circolo come il sangue. Non toccano direttamente il cuore viaggiando su una dritta autostrada ma ci passano vicino prendendo altre tangenziali e per una band in giro da vent'anni è già qualcosa di molto buono. Sono state progettate per questo.
Manca la sporca irruenza garage blues dei primi dischi, mancano del tutto i singoloni soul black acchiappa fan che avevano caratterizzato le ultime uscite sotto il segno di Danger Mouse (mancano totalmente le tastiere e certe impalcature costruite intorno), la complicata e nebbiosa via dell'ultimo, triste, Turn Blue, vecchio di cinque anni, viene abbandonata sul nascere, tutto va a favore di uno dei loro dischi più compatti, spontanei, pop e omogenei in carriera con tanta chitarra come dice Carney, magari non memorabile ma c'è.
Canzoni brevi, oserei dire fresche, che pagano un tributo agli anni settanta, al blues infarcito di melodia dei Bad Company ('Tell Me Lies'), ai riff sudisti dei ZZ Top a spasso a Las Vegas ('Lo/Hi') , al rifferama glam e glitterato dei T Rex di Marc Bolan ('Eagle Birds'), alla leggerezza di J. J. Cale, senza dimenticare di innaffiare tutto di soul ('Walk Across The Water') e pop melodico ('Get Yourself Togheter') che riporta ai Fleetwood Mac da classifica ('Teel Me Lies').
Anche l'estate, le passeggiate in spiaggia e un buon drink in mano sono assicurate da una canzone come 'Go'. Insomma, siamo più dalle parti dell'ultimo disco solista di Dan Auerbach.
In giro si leggono più cose negative che belle intorno a questo disco. Non so perché: se gli concedete un terzo ascolto potreste cambiare idea anche voi…ruffiano e leggero il giusto come quei vecchi vinili di una volta che non avevano altri scopi se non divertire.
Belle canzoni (perché sanno scriverle) senza pretese e secondi scopi.
Da mischiare con l'aria che entra dal finestrino dell'auto e il gioco è fatto.