sabato 25 settembre 2021

RECENSIONE: JESSE MALIN (Sad And Beautiful World)

JESSE MALIN
  Sad And Beautiful World (Wicked Cool Records, 2021)



la bellezza nell'oscurità

Durante il primo lockdown quando si cercava di vivere e portare a casa la giornata in qualche modo, sospesi in ore tutte uguali in cerca di un sussulto che svoltasse le giornata ma che spesso tardava ad arrivare, abbiamo cercato sollievo come si cerca acqua fresca nel deserto, a volte guardando cosa si inventavano i nostri musicisti preferiti, in difficoltà come e spesso più di noi. Bisogna dire la verità: non sempre tutto era spassoso e dopo un po' la noia e un senso di tristezza avevano la meglio anche lì. Ecco, tra tutti gli spettacoli livestream, The Fine Art of Self Distancing di Jesse Malin mi è sembrato il più divertente e gioioso, autoironico, sempre aperto al dialogo con il pubblico, seppur a distanza. E poi stava in piedi mica seduto come tutti. E chi ha già visto Malin da vivo sa quanto sia un imbonitore che non bada al risparmio durante le sue esibizioni. Non l'ha fatto nemmeno trasmettendo dal salotto di casa. 
 Evidentemente al cantautore newyorchese la pandemia ha pure portato in dono un po' di nuove canzoni (anche se dai vecchi cassetti pesca la bella 'Tall Black Horses' e omaggia Tom Petty con 'Crawling Back To You' da Wildflowers), talmente numerose da essere divise in due dischi (ma la durata totale è contenuta nei 60 minuti) racchiusi in un titolo rubato da un dialogo di Dawn By Law di Jim Jarmusch, e stampato dalla Wicked Cool Records, l'etichetta di Little Steven: da una parte nove canzoni dal carattere più mite e country folk ('Dance Of My Grave'), calde e distese, malinconiche, con un non raro pianoforte ad accompagnare, dall'altro otto canzoni urbane, sbarazzine, sospese tra rock (la tirata elettrica, l'unica vera del disco, di 'Dance With The System') e con tutti gli umori meticci della grande mela, un crocevia tra R&B (bella 'The Way We Used To Roll'), soul e funk ('A Little Death'). Naturalmente dietro, di contorno, ci sono sempre le luci, le ombre, il giorno, la notte, i rumori, i silenzi della sua New York e i tanti artisti che l'hanno raccontata negli anni: Lou Reed, Billy Joel, Bruce Springsteen, Willie Nile, Ryan Adams. E Jesse Malin è ancora un grande fan della musica e dei suoi artisti preferiti. 
Perchè la vita con tutte le sue differenze, è un grande viaggio "dal sole splendente della California a New York sotto la pioggia" come canta nella finale 'Saint Christopher'.
 "Beh, non ho mai fatto un doppio disco prima, ma non è un motivo per farlo! Tipo, 'Oh, non ho mai suonato metal quindi suoniamo metal! Era davvero qualcosa che, quando abbiamo fatto Sunset Kids (album precedente) avevamo venticinque canzoni, ma l'etichetta ci supportava e mi ha incoraggiato, dicendomi: 'Perché non fai questo doppio disco? ". 
Un disco che butta fuori un occhio dalla finestra in piena pandemia (' State Of The Art') ma sa essere ottimista per il futuro (l'apertura 'Greener Pastures'), autobiografico ('Backstabbers') ma che sa omaggiare anche gli amici che non ci sono più come nella clashiana 'Todd Youth', il suo chitarrista scomparso nel 2018 (con la partecipazione di HR, cantante dei Bad Brains). E sono tanti anche gli amici che vi partecipano attivamente lasciando voci e strumenti: da Lucinda Williams che aveva prodotto il precedente Sunset Kids a Derek Cruz (produttore e co autore di molti pezzi), Ryan Adams, Tommy Stinson, Don DiLego, Joseph Arthur
 Jesse Malin dal precedente Sunset Kids sembra aver dato un'impronta più matura alla sua scrittura, recuperando radici profonde, senza però snaturare il suo approccio alla musica continuamente sospeso tra il songwriter folk maturo e il rocker sbarazzino di inizio carriera. Due anime che continuano a convivere bene, cercando costantemente di "vedere la bellezza nell'oscurità".







domenica 19 settembre 2021

RECENSIONE: STEVE RUDIVELLI (Gasoline Beauty)

STEVE RUDIVELLI  Gasoline Beauty (2021)


l'operaio del rock'n'roll

Nell'era in cui tutto viaggia smart e veloce attraverso applicazioni e bitcoin, Steve Rudivelli è ancora uno di quelli che sì, vi spedisce il suo nuovo disco ma per pagarlo dovete spedire a lui i soldi via posta, chiusi in una busta. Proprio come si faceva negli anni ottanta quando per ascoltare musica si era disposti a tutto e aspettare qualche giorno in più era un sacrificio sempre ben ricompensato. Un contratto di fiducia tra artista e fan. Un piccolo particolare che basta per raccontarvi lo spirito punk, (e po' anarchico) che vive annidato dentro a Steve. Proprio come quella copertina che mi ha subito riportato a Give 'Em Enough Rope dei Clash, i corvi sono gli stessi ma Steve ci mette la faccia e si immola nel nome del rock'n'roll. Ci lascia un po' del suo sangue contaminato di alcool. 

Gasoline Beauty è il fratello del precedente Metropolitan Chewingum, nato in piena pandemia. Qui però si torna finalmente a viaggiare a fari accesi, country rock, nero e da notte fonda, chitarra acustica, armonica dylaniana e qualche bel taglio di elettrica (Handy D.) come succede nell'apertura 'Gasnevada' e nel quadro in stile Hopper musicato in 'Giù Le Mani Dal Banco'. Atmosfere giuste per il suo personale Oh Mercy. 

Si esce di casa anche se tutto sembra ancora avvolto in una nebbia da notte fonda, invernale e brianzola, con strade presidiate da corvi neri che "giocano" da un lato della strada grigia e il Lambro che scorre dall'altro ('Lambro River'), un'utilitaria da pochi soldi sotto il sedere come fosse una Cadillac  lanciata a tutto gas verso Lecco ('Gasoline Road') e personaggi poco raccomandabili come Frankie che ti superano  lungo l'autostrada Bergamo Nevada  magari facendoti pure il dito. 

E visto che " in fabbrica sono un numero, fuori devo tornare Steve Rudivelli, al più presto", così Steve mi raccontava il suo desiderio di riprendersi la sua vita artistica dopo questi due anni passati lontano dai palchi del suo personale Texas (a proposito ecco 'Coca Jack Jet' texana fino all'ultima goccia), dove le serate scorrevano scivolose tra il bancone, una ballerina di tango jazz e il sogno bagnato Mary con la sua maglietta bianca dei Rolling Stones. L'augurio migliore è quello di trovarsi questo inverno davanti a un bicchiere in qualche bar sperduto della Brianza per riprenderci la nostra vita migliore.





lunedì 13 settembre 2021

RECENSIONE: DANKO JONES (Power Trio)

DANKO JONES  
 Power Trio (Mate In Germany/Audioglobe, 2021) 

coerenza

Ho amato tantissimo il primo Danko Jones, quello vizioso e blues di Born A Lion, dove aveva strafottenza, faccia da culo e attitudine garage rock'n'roll da vendere. Poi con gli anni e le uscite la sua musica si è piano piano adagiata un po' troppo sull'hard rock con puntate punk e heavy senza troppi guizzi e sorprese. Sempre potente e sguaiato ma prevedibile nel perseguire la stessa formula. Il che non è un male soprattutto se fatto con onestà e sudore. E se avete visto almeno una volta un suo show sapete che è tutto vero. E poi si sa: il rock'n'roll non morirà mai, seppur alcuni corvacci sono sempre pronti a bordo strada pronti a fare sgambetti. 
La vita del gruppo è sempre stata racchiusa nel classico binomio disco-tour che si ripete all'infinito senza sosta. Anno dopo anno dal 1996. Giusto una pandemia poteva bloccarli. Dopo 25 anni di carriera e dieci album ci può anche stare che la sporcizia degli inizi sia stata grattata via da esperienza e una certa routine. Eppure, nonostante tutto, i suoi dischi continuano ad essere una parentesi di sano, sguaiato e ignorante rock'n'roll che ogni tanto va aperta per lasciarsi andare, svagarsi, muoversi e battere il tempo senza troppe menate per la testa. Non difetta quindi neppure questo Power Trio (completato dal fedele John Calabrese al basso e Rick Knox alla batteria) che spiega già tutta l'attitudine della band nel titolo. "Una dichiarazione. Quello che siamo" spiega Danko Jones. 
 Figlio del lockdown e quindi anche di file scambiati a distanza, dentro c'è però la summa pensiero dei canadesi: il solito divertimento ('Saturday' con un rimando ai sabati sera di Elton John), l'iniziale 'I Want Out' non dispiacerebbe all'amico "stoner" John Garcia, il groove solido e quadrato di 'Ship Of Lies, una parentesi impegnata con 'Raise Some Hell' a sostegno del movimento Black Lives Matter ricordando George Floyd, la veloce e sbarazzina 'Blue Jean Denim Jumpsuit' , una 'Dangerous Kiss' omaggio agli amati Kiss, il rantolo del veloce punk 'Flaunt It' e una finale 'Start The Show' con la chitarra ospite di Phil Campbell (Motorhead) e che molto probabilmente si candida a diventare l'opener dei prossimi tour. Perché il palco per Danko Jones è aria e acqua vitale.








domenica 5 settembre 2021

RECENSIONE: STURGILL SIMPSON (The Ballad Of Dood & Juanita)

STURGILL SIMPSON  The Ballad Of Dood & Juanita (High Top Mountain, 2021)


Ormai da Sturgill Simpson possiamo aspettarci di tutto. Salutato come il salvatore della country music di Nashville (lui è nativo del Kentucky) nei suoi primissimi dischi, dove cercava di svecchiare il genere con colpi ad effetto, ci aveva spiazzato con Sound & Fury, un disco carico di synth e chitarre elettriche in piena sbornia da anni ottanta e novanta (echi industrial rimbombavano di qua e di là), poi durante il lockdown se n'è uscito con due dischi che ritornavano al passato, riprendendo vecchie canzoni in stile bluegrass presentate da due copertine tanto orribili quanto autoironiche, e proprio dal bluegrass riparte con questo The Ballad Of Dood & Juanita. Un concept album, scritto e registrato in tempi brevissimi, che in meno di mezz'ora ci racconta l'epopea da vecchio West del tiratore scelto Dood, figlio di una cameriera e di un minatore di montagna, che in piena guerra di secessione parte alla ricerca della sua amata Juanita, sottratta al suo amore da un bandito che la rapisce. Il viaggio di Dood insieme al fedele cane e "miglior amico" Sam (cantato nel gospel 'Sam') e al cavallo Shamrock (anche a lui è dedicata una canzone) - eccoli disegnati in copertina - parte con gli spari di un fucile e una marcia militare ('Prologue') e si sviluppa in una sarabanda di country bluegrass che sanno di fieno e letame, spazi infiniti, strade, montagne e polvere, dove violino, banjo e scacciapensieri si rincorrono ora veloci ('Go in Peace'), ora minacciosi ('Ol' Dood'), ora a trotto lento ('One In The Saddle, One On The Ground'). Dood cerca la sua rivincita, la avrà anche se perderà per strada qualche pezzo della sua vita.

Il tutto con la benedizione di una vecchia volpe: il valzer 'Juanita' è arricchito dalla presenza dell'irriducibile Willie Nelson, qui completamente a suo agio.

"Volevo solo scrivere una storia, non una collezione di canzoni che raccontassero una storia. Una storia attuale, da cima a fondo. Una semplice storia di redenzione e vendetta, una corsa su un rollercoaster attraverso tutti gli stili del country e del bluegrass tradizionale, inclusi gospel e canto a cappella" racconta Simpson.

C'è poca innovazione in questi solchi, solo tanto devoto amore. Pura Americana a sua firma.