JESSE MALIN Sunset Kids (Wicked Cool, 2019)
perdite e amicizie
Jesse Malin cantava già tutto il suo amore per Lucinda Williams qualche anno fa, nel 2007 quando nel suo album Glitter In The Gutter incluse una canzone, 'Lucinda', a lei dedicata. L'aveva conosciuta solo dieci anni prima attraverso un album di Steve Earle, I Feel Alright, in un duetto fatto dai due in 'You're Still Standing There'. Da lì in avanti è sbocciato un amore artistico nel tempo trasformato in una grande amicizia che aspettava solo la classica ciliegina.
Sono passati molti anni e i versi di quella canzone si sono materializzati in carne ed ossa nel nuovo album del cantautore newyorkese: la Williams produce (insieme al marito Tom Overby) e partecipa attivamente in almeno tre pezzi, guidando la scrittura di Malin verso nuovi territori, più soffusi, polverosi, a tratti scuri, senza però snaturare più di tanto le radici urbane della sua musica.
Jesse Malin durante la carriera ha sempre tenuto lo sguardo verso la natia New York, verso la difficile infanzia al Queens superata brillantemente grazie all'amore smisurato per la musica come ama ricordare spesso durante i concerti. Il titolo del suo primo album ha spesso ingannato la critica: quel The Fine Art Of Self Destruction non ha mai avuto nulla a che fare con le droghe. Jesse Malin è un drogato di musica, un eterno ragazzo che ama omaggiare e coinvolgere i suoi miti, i suoi amici (da Ryan Adams a Bruce Springsteen, Alejandro Escovedo).
Oggi si lascia guidare da uno di loro: difficile non sentire la mano della cantautrice della Louisiana in canzoni come come 'Room 13' e 'Dead On' . La prima è un occhio oscuro che scruta dentro a una camera d'albergo vedendo i peccati di tutti gli avventori passati di lì appiccicati al muro come fossero quadri, un ipotetico luogo lontano da tutte le moderne distrazioni, "dove poter riflettere sulle cose che contano davvero", appoggiandosi su una melodia acustica e malinconica, la seconda è lo scatto più elettrico delle 14 canzoni, una buona passerella di chitarre elettriche (la mano di Doug Pettibone) che richiamano Neil Young con i Crazy Horse, la California, la Williams stessa, e arriva quasi a fine disco.
In mezzo canzoni spesso amare ispirate dalla morte di persone molto vicine: in testa il padre, poi David Bianco, ingegnere del suono scomparso recentemente mentre stava lavorando proprio a questo disco, passando per l'amico musicista Todd Youth.
"C'erano un sacco di cose brutte in corso e, a volte, quando hai molto dolore, la musica aiuta a sfogarsi, esorcizzare questi demoni".
A tutti loro dedica 'Shining Down': "per mantenere in vita gli spiriti di tutti quelli che ci hanno lasciato" dice.
"Ho voluto realizzare un disco dal suono aperto che mi lasciasse spazio per raccontare queste storie. Mi piace scrivere dei personaggi e della gente che incontro lungo il cammino. I sognatori, i cospiratori, i truffatori, i romantici, gli amanti, chi crede e chi abbandona il campo".
Proclama la propria identità nella vivace 'Chemical Heart' citando Ike e Tina, Bernie Taupin, Jack Lamotta nel testo, omaggia un altro suo mito, Shane McGowan sui tasti di un pianoforte in 'Shane', invita l'amico Billy Joe Armstrong (Green Day) a ricordare i vecchi tempi scanditi dal punk rock quando i suoi D Generation negli anni novanta aprivano per i Green Day ('Strangers And Thieves') , scalda i cuori con il funk R&B di 'Do You Really Wanna Know' , recupera due canzoni scritte in precedenza come 'Meet At The End Of The World' e 'Revelations', invita l'amico Joseph Arthur a lasciare le sue tracce in un tris di canzoni.
Viaggia a motore spento negli spazi infiniti di una canzone come 'Promises', riprende temi musicali cari a Springsteen in 'When We' re Young'.
Sunset Kids potrebbe essere il disco in grado di smentire chi ha sempre visto nello scanzonato e vitale rocker di New York un eterno ragazzo mai troppo cresciuto. Malin ha mantenuto lo spirito ribelle ma romantico e curioso della gioventù ma dietro c'è un uomo con un passato ben segnato e un futuro ancora tutto da vivere.
Uno dei suoi migliori dischi, senza dubbio.
sabato 31 agosto 2019
mercoledì 28 agosto 2019
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 76: NEAL CASAL (Fade Away Diamond Time)
NEAL CASAL Fade Away Diamond Time (1995)
buona la prima
Che esordio sorprendente! Tanto acclamato dalla critica quanto poco fortunato nelle vendite, complice un'etichetta che prima sembra puntare tutto su di lui per poi mollare il colpo improvvisamente. Neal Casal ha ventisei anni quando riesce a portare al debutto su disco le sue canzoni, raccolte negli anni lungo le tante città che ha già visitato, ma germogliate ancor prima di diventare un musicista professionista nel natio New Jersey tra i dischi e le chitarre di famiglia. Un debutto che da un lato evidenzia le sue grandi doti di songwriter e musicista, dall' altra sembra indicare il suo futuro artistico relegato ai lati della prima pagina, un po' anche per saggia scelta altruista (la sua chitarra nei Cardinals di Ryan Adams ad esempio ma non solo come sappiamo), ma non per questo minore rispetto ad altri artisti più acclamati o che in quella prima pagina riusciranno a mettere il loro faccione.
In questo disco Casal mette in fila canzoni profonde di American roots, amare, malinconiche, a tratti perfino disperate alla rincorsa di amori persi (la splendida 'Cincinnati Motel') o da conquistare, ma sempre con un tratto gentile e accomodante, senza troppi spigoli che sembrano rispecchiare il suo carattere puro, gioviale e senza orpelli. Ballate puntellate da Hammond ('Day In The Sun'), steel guitar ('Maybe California'), armonica ( il valzer finale 'Sunday River'), quasi gospel nel crescendo di 'One Last Time', suonate in compagnia dei suoi musicisti (John Ginty al pianoforte e all'organo, Don Heffington alla batteria e Fooch Fischetti alle pedal steel) e di esperti fuoriclasse come Greg Leiszt e Bob Glaub.
Ballate elettriche che sanno di libertà (lui, grande amante del surf e della fotografia) come 'Detroit Or Buffalo', come 'Free To Go' che va diritta dalle parti dell' amato Neil Young, anche la copertina sembra confermare, o quella 'Feel No Pain' battuta sui tasti di un pianoforte come fosse una canzone di Jackson Browne altro faro che illumina la sua arte.
Senza dimenticare il primo amore, i Rolling Stones: "i Rolling Stones sono stati la prima band che ho amato davvero da bambino e mi hanno fornito la più importante educazione musicale. Mi hanno insegnato il blues, il folk, il R n 'B, la musica giamaicana e il country. Tutte le cose che amo ancora oggi".
Anni 60, The Band, la West Coast dei settanta e nessun marchingegno moderno che possa tradire e svelare l'anno di uscita se non la freschezza del suo autore.
Musica che trasuda passione, suonata con il cuore che mai avremmo pensato così fragile.
NEAL CASAL (2 novembre 1968 – 26 agosto 2019)
buona la prima
Che esordio sorprendente! Tanto acclamato dalla critica quanto poco fortunato nelle vendite, complice un'etichetta che prima sembra puntare tutto su di lui per poi mollare il colpo improvvisamente. Neal Casal ha ventisei anni quando riesce a portare al debutto su disco le sue canzoni, raccolte negli anni lungo le tante città che ha già visitato, ma germogliate ancor prima di diventare un musicista professionista nel natio New Jersey tra i dischi e le chitarre di famiglia. Un debutto che da un lato evidenzia le sue grandi doti di songwriter e musicista, dall' altra sembra indicare il suo futuro artistico relegato ai lati della prima pagina, un po' anche per saggia scelta altruista (la sua chitarra nei Cardinals di Ryan Adams ad esempio ma non solo come sappiamo), ma non per questo minore rispetto ad altri artisti più acclamati o che in quella prima pagina riusciranno a mettere il loro faccione.
In questo disco Casal mette in fila canzoni profonde di American roots, amare, malinconiche, a tratti perfino disperate alla rincorsa di amori persi (la splendida 'Cincinnati Motel') o da conquistare, ma sempre con un tratto gentile e accomodante, senza troppi spigoli che sembrano rispecchiare il suo carattere puro, gioviale e senza orpelli. Ballate puntellate da Hammond ('Day In The Sun'), steel guitar ('Maybe California'), armonica ( il valzer finale 'Sunday River'), quasi gospel nel crescendo di 'One Last Time', suonate in compagnia dei suoi musicisti (John Ginty al pianoforte e all'organo, Don Heffington alla batteria e Fooch Fischetti alle pedal steel) e di esperti fuoriclasse come Greg Leiszt e Bob Glaub.
Ballate elettriche che sanno di libertà (lui, grande amante del surf e della fotografia) come 'Detroit Or Buffalo', come 'Free To Go' che va diritta dalle parti dell' amato Neil Young, anche la copertina sembra confermare, o quella 'Feel No Pain' battuta sui tasti di un pianoforte come fosse una canzone di Jackson Browne altro faro che illumina la sua arte.
Senza dimenticare il primo amore, i Rolling Stones: "i Rolling Stones sono stati la prima band che ho amato davvero da bambino e mi hanno fornito la più importante educazione musicale. Mi hanno insegnato il blues, il folk, il R n 'B, la musica giamaicana e il country. Tutte le cose che amo ancora oggi".
Anni 60, The Band, la West Coast dei settanta e nessun marchingegno moderno che possa tradire e svelare l'anno di uscita se non la freschezza del suo autore.
Musica che trasuda passione, suonata con il cuore che mai avremmo pensato così fragile.
NEAL CASAL (2 novembre 1968 – 26 agosto 2019)
venerdì 23 agosto 2019
RECENSIONE: GARRY TALLENT (More Like Me)
GARRY TALLENT More Like Me (D'Ville Records, 2019)
una vita da mediano
Garry Tallent è sempre stato il mio musicista preferito della E Street Band di Bruce Springsteen: un bassista schivo, preparatissimo e appassionato che ha sempre lavorato sodo all'ombra del grande capo. Il vero motore rock’n’roll della band anche se a prima vista non lo è mai sembrato. Pure un figo assoluto se guardate quelle stupende foto del periodo The Wild, The Innocent And E Street Shuffle: capelli lunghi e lisci, barba e zoccoli ai piedi nudi. Nella vita privata, un vero cultore del rock'n'roll, un'enciclopedia vivente come scrisse qualcuno, che da sempre ama collezionare singoli R&B ma che non è mai stato con le mani in mano tutte le volte che Springsteen ha deciso di mettere in soffitta la band per sfogare il lato prettamente solista come successo in questi due ultimi anni con le tante repliche dello spettacolo teatrale a Broadway e l'ultimo album Western Stars. Ecco allora il basso di Tallent ospite in molti dischi altrui (Steve Earle, Southside Johnny, Ian Hunter tra i tanti), eccolo mettere in piedi uno studio di registrazione e un'etichetta discografica a Nashville negli anni novanta, eccolo seduto dietro il banco di regia come produttore (dischi di Kevin Gordon e Steve Forbert tra i tanti a cui ha lavorato).
Solo tre anni fa ha deciso di metterci finalmente faccia e talento incidendo il suo primo disco solista, BREAK TIME, un disco inseguito da circa vent'anni, che musicalmente guardava indietro agli amati anni cinquanta. Con questo MORE LIKE ME si sposta avanti di un decennio, arrivando agli anni sessanta, al garage rock, al power pop, ai Byrds.
Poco cambia perché il suo approccio onesto alla musica, ora che i 70 anni si stanno avvicinando, è lo stesso che lo catapultò giovanissimo lungo il Jersey Shore, lui nativo di Detroit, quando incontrò compagni di scuola al liceo come Southside Johnny e Vini "Mad Dog" Lopez. Nulla fu più lo stesso.
"Ho imparato a suonare la musica ad orecchio e da allora non ho più imparato a leggere la musica. Allora ascoltavo la musica popolare del giorno. Il mio preferito era Buddy Holly. E iniziai a imitare ciò che suonava con la mia chitarra economica. "
Tallent non ha una grandissima voce, ne è consapevole ma sopperisce a ciò con canzoni piacevoli da cuore aperto, che si buttano a capofitto nel rock.
"Non ho esattamente una grande voce, ma mi piace cantare. Mi sono sentito pronto per uscire dalla mia ‘comfort zone’. Dovrebbe essere affascinante”.
E, a patto di non voler cercare a tutti i costi novità dalla sua musica, lo è.
Dallo scatto garage di 'Too Long', al rock puntellato da un organo, spesso presente lungo tutto il disco, (la caraibica 'If It Ain't One Thing (It's Another) a quello che vira al surf nella breve 'Dirty Rotten Shame' dove compare anche la voce di Bruce Springsteen per un breve cameo a doppiare i cori. I due l'hanno cantata insieme recentemente prima di un concerto dell'amico Southside Johnny allo Stone Pony Summer Stage ad Asbury Park.
Vira al blues con armonica in 'Sinful', omaggia i grandi Byrds, il power pop, con le melodie di 'Tell The Truth' e il sitar di 'No Signs Of Love' mentre 'Above The Rain' possiede le atmosfere british dei Kinks.
Ci lascia anche una ballad come 'Oh No (Another Song)' con la fisarmonica che sembra richiamare antichi fasti springsteeniani e lo spirito dell'amico Danny Federici. Tutte canzoni che avrebbero trovato una collocazione ideal in un disco come The River, tanto per capirsi.
E Street Band alla riscossa in questo 2019: dopo i dischi di Little Steven e Nils Lofgren, ecco Garry Tallent! Quasi a dire: se volete il caro vecchio rock’n’roll, cercatelo nei nostri dischi. Un ascolto lo merita.
una vita da mediano
Garry Tallent è sempre stato il mio musicista preferito della E Street Band di Bruce Springsteen: un bassista schivo, preparatissimo e appassionato che ha sempre lavorato sodo all'ombra del grande capo. Il vero motore rock’n’roll della band anche se a prima vista non lo è mai sembrato. Pure un figo assoluto se guardate quelle stupende foto del periodo The Wild, The Innocent And E Street Shuffle: capelli lunghi e lisci, barba e zoccoli ai piedi nudi. Nella vita privata, un vero cultore del rock'n'roll, un'enciclopedia vivente come scrisse qualcuno, che da sempre ama collezionare singoli R&B ma che non è mai stato con le mani in mano tutte le volte che Springsteen ha deciso di mettere in soffitta la band per sfogare il lato prettamente solista come successo in questi due ultimi anni con le tante repliche dello spettacolo teatrale a Broadway e l'ultimo album Western Stars. Ecco allora il basso di Tallent ospite in molti dischi altrui (Steve Earle, Southside Johnny, Ian Hunter tra i tanti), eccolo mettere in piedi uno studio di registrazione e un'etichetta discografica a Nashville negli anni novanta, eccolo seduto dietro il banco di regia come produttore (dischi di Kevin Gordon e Steve Forbert tra i tanti a cui ha lavorato).
Solo tre anni fa ha deciso di metterci finalmente faccia e talento incidendo il suo primo disco solista, BREAK TIME, un disco inseguito da circa vent'anni, che musicalmente guardava indietro agli amati anni cinquanta. Con questo MORE LIKE ME si sposta avanti di un decennio, arrivando agli anni sessanta, al garage rock, al power pop, ai Byrds.
Poco cambia perché il suo approccio onesto alla musica, ora che i 70 anni si stanno avvicinando, è lo stesso che lo catapultò giovanissimo lungo il Jersey Shore, lui nativo di Detroit, quando incontrò compagni di scuola al liceo come Southside Johnny e Vini "Mad Dog" Lopez. Nulla fu più lo stesso.
"Ho imparato a suonare la musica ad orecchio e da allora non ho più imparato a leggere la musica. Allora ascoltavo la musica popolare del giorno. Il mio preferito era Buddy Holly. E iniziai a imitare ciò che suonava con la mia chitarra economica. "
Tallent non ha una grandissima voce, ne è consapevole ma sopperisce a ciò con canzoni piacevoli da cuore aperto, che si buttano a capofitto nel rock.
"Non ho esattamente una grande voce, ma mi piace cantare. Mi sono sentito pronto per uscire dalla mia ‘comfort zone’. Dovrebbe essere affascinante”.
E, a patto di non voler cercare a tutti i costi novità dalla sua musica, lo è.
Dallo scatto garage di 'Too Long', al rock puntellato da un organo, spesso presente lungo tutto il disco, (la caraibica 'If It Ain't One Thing (It's Another) a quello che vira al surf nella breve 'Dirty Rotten Shame' dove compare anche la voce di Bruce Springsteen per un breve cameo a doppiare i cori. I due l'hanno cantata insieme recentemente prima di un concerto dell'amico Southside Johnny allo Stone Pony Summer Stage ad Asbury Park.
Vira al blues con armonica in 'Sinful', omaggia i grandi Byrds, il power pop, con le melodie di 'Tell The Truth' e il sitar di 'No Signs Of Love' mentre 'Above The Rain' possiede le atmosfere british dei Kinks.
Ci lascia anche una ballad come 'Oh No (Another Song)' con la fisarmonica che sembra richiamare antichi fasti springsteeniani e lo spirito dell'amico Danny Federici. Tutte canzoni che avrebbero trovato una collocazione ideal in un disco come The River, tanto per capirsi.
E Street Band alla riscossa in questo 2019: dopo i dischi di Little Steven e Nils Lofgren, ecco Garry Tallent! Quasi a dire: se volete il caro vecchio rock’n’roll, cercatelo nei nostri dischi. Un ascolto lo merita.
Ph. Bob Delevante |
martedì 20 agosto 2019
RECENSIONE: RODNEY CROWELL (Texas)
RODNEY CROWELL Texas (2019)
il miglior viaggio in Texas dell'anno. Alla guida Rodney Crowell. Ospiti passeggeri: Willie Nelson, Steve Earle, Billy Gibbons, Lyle Lovett, Ringo Starr e tanti altri
il miglior viaggio in Texas dell'anno. Alla guida Rodney Crowell. Ospiti passeggeri: Willie Nelson, Steve Earle, Billy Gibbons, Lyle Lovett, Ringo Starr e tanti altri
Rodney Crowell, 69 anni, è sempre una garanzia. Uno degli ultimi grandi songwriter americani (prolifici), per anni dispensatore affidabile di buone canzoni per tanti altri artisti, da Waylon Jennings, Emmylou Harris a Johnny Cash di cui sposò la figlia Rosanne, fino a quando sul finire degli anni ottanta decise di metterci faccia e voce con più convinzione (quattro gli album incisi fino a quel momento) con un album sbalorditivo come fu Diamond And Dirt (1988). Da lì in avanti la sua fama è accresciuta notevolmente anche se mai abbastanza se equiparata alla bravura.
Lo avevamo lasciato due anni fa con Close Ties, un album intimo e autobiografico che guardava al passato, al presente e al futuro dei suoi affetti, all'inesorabile trascorrere del tempo, lo ritroviamo quest'anno in piena estate con Texas che fin da titolo e copertina non lascia nulla all'immaginazione: è un viaggio libero, a tratti gioioso, ironico, spesso amaro, sempre appassionato lungo il nativo stato della stella solitaria, anche se la sua vera fortuna, non lo ha mai nascosto, la deve all'incontro con la florida scena country di Nashville dei primi anni settanta che poi erano quasi tutti texani emigrati come lui, a cominciare da Townes Van Zandt e Guy Clark.
"Culturalmente, sono cresciuto nella povera zona est di Houston. La musica faceva parte della cultura ... C'erano molti jukebox. Era una cultura della danza ed c'era musica country. La gente ha lavorato duramente, lavori umili e nei fine settimana si scatenavano nel bere, liberandosi" racconta Crowell.
Undici canzoni, alcune recuperate dal passato, che in qualche modo viaggiano intorno al Texas, dentro ai suoi paesaggi unici, dentro ai suoi eterni problemi di stato dal confine bollente. Ad accompagnarlo un grande numero di ospiti: da Vince Gill in quella battente 'Caw Caw Blues' , ultima canzone scritta insieme al vecchio amico Guy Clark, all'incredibile trio formato da Ronnie Dunn, Willie Nelson e Lee Ann Womack nella pigra cavalcata a ritmo di valzer 'Deep In The Heart Of Uncertain Texas'.
La chitarra rovente e l'inconfondibile voce di Billy Gibbons impreziosiscono il rock di '56 Fury' mentre John Jorgenson partecipa a 'The Border', un folk tex mex di frontiera dove i sempre più tristi confini sono raccontati dagli occhi di un uomo dell'esercito.
D'obbligo segnalare la presenza di Ringo Starr in 'You're Only Happy When You're Miserable', anche se va alla finale 'Texas Drought, pt. 1' la palma di canzone beatlesiana dell'album, un ruspante Lyle Lovett nel boogie rock 'What You Gonna Do Now' e Steve Earle che introduce e accompagna la protesta di 'Brown & Root, Brown & Root' .
Tra le atmosfere soffuse e jazzate di 'I' ll Show Me' e la cavalcata country western 'Treetop Slim & Billy Lowgrass', nell'iniziale 'Flatland Hillbillies' Crowell insieme agli ospiti Randy Rogers e Lee Ann Womack cantano "vivere ai margini del nulla, non è per i deboli di cuore".
Intanto dentro ai confini di quello spazio, Crowell ha costruito uno dei migliori album americani dell'anno.
sabato 17 agosto 2019
RECENSIONE: VOLBEAT (Rewind, Replay, Rebound)
VOLBEAT Rewind, Replay, Rebound (Vertigo, 2019)
un passo nel passato, due verso il grande pubblico
Un ritorno al passato, non tanto quello musicale (quello schietto e grezzo fatto di thrash metal, punk e country dei primi dischi sembra ormai perso del tutto) quanto ai ricordi di gioventù. Il settimo disco dei danesi Volbeat cerca di recuperare la memoria perduta nei giorni dell'infanzia del cantante Michael Poulsen (ecco la copertina) e lo fa mettendo in campo vecchi idoli: 'Last Days Under The Sun' è dedicata a Johnny Cash, alla sua rinascita dopo i periodi più bui della sua vita ("in un momento di lucidità ha capito di vere una seconda opportunità"), lo scatenato e pesante rock’n’roll di 'Pelvis On Fire' rimanda direttamente agli anni 50 e al re del rock'n'roll, 'The Awakening Of Bonnie Parker' parla di Bonnie e Clyde, visti da una diversa e inedita angolazione.
Ma a prevalere sembrano le sonorità sempre più melodiche, portate in dote da Rob Caggiano, chitarra e produttore: 'Rewind Exit', la ballata 'When We Were Kids' (ecco che i ricordi di gioventù si fanno vividi), 'Cloud 9', '724' hanno tutte le carte per scontentare i fan della prima ora ma in grado di avvicinare nuovi adepti più avvezzi a sonorità melodiche, spesso al limite del pop.
Allora meglio quando spingono sull'acceleratore del punk rock con tanto di sax e pianoforte old school come in 'Die To Live' che vede la partecipazione di Neil Fallon dei Clutch alla voce, nel tenebroso psychobilly di 'Sorry Sack Of Bones', in 'Cheapside Sloggers', la mia preferita, con la chitarra ospite di Gary Holt (Exodus, Slayer) che sembra riportare la bilancia dei suoni verso i primi dischi così come nei riff thrash metal di 'Everladting', e del singolo 'Leviathan'.
Il classico disco della maturità in grado di aprire nuove porte. Un disco lungo, troppo lungo, che con qualche taglio (melodico) avrebbe guadagnato la mia stima al 100%.
un passo nel passato, due verso il grande pubblico
Un ritorno al passato, non tanto quello musicale (quello schietto e grezzo fatto di thrash metal, punk e country dei primi dischi sembra ormai perso del tutto) quanto ai ricordi di gioventù. Il settimo disco dei danesi Volbeat cerca di recuperare la memoria perduta nei giorni dell'infanzia del cantante Michael Poulsen (ecco la copertina) e lo fa mettendo in campo vecchi idoli: 'Last Days Under The Sun' è dedicata a Johnny Cash, alla sua rinascita dopo i periodi più bui della sua vita ("in un momento di lucidità ha capito di vere una seconda opportunità"), lo scatenato e pesante rock’n’roll di 'Pelvis On Fire' rimanda direttamente agli anni 50 e al re del rock'n'roll, 'The Awakening Of Bonnie Parker' parla di Bonnie e Clyde, visti da una diversa e inedita angolazione.
Ma a prevalere sembrano le sonorità sempre più melodiche, portate in dote da Rob Caggiano, chitarra e produttore: 'Rewind Exit', la ballata 'When We Were Kids' (ecco che i ricordi di gioventù si fanno vividi), 'Cloud 9', '724' hanno tutte le carte per scontentare i fan della prima ora ma in grado di avvicinare nuovi adepti più avvezzi a sonorità melodiche, spesso al limite del pop.
Allora meglio quando spingono sull'acceleratore del punk rock con tanto di sax e pianoforte old school come in 'Die To Live' che vede la partecipazione di Neil Fallon dei Clutch alla voce, nel tenebroso psychobilly di 'Sorry Sack Of Bones', in 'Cheapside Sloggers', la mia preferita, con la chitarra ospite di Gary Holt (Exodus, Slayer) che sembra riportare la bilancia dei suoni verso i primi dischi così come nei riff thrash metal di 'Everladting', e del singolo 'Leviathan'.
Il classico disco della maturità in grado di aprire nuove porte. Un disco lungo, troppo lungo, che con qualche taglio (melodico) avrebbe guadagnato la mia stima al 100%.
mercoledì 14 agosto 2019
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 75: CROSBY, STILLS & NASH (After The Storm)
CROSBY, STILLS & NASH After The Storm (1994)
poteva andare peggio...
“Nel 1994, considerando quello che avevamo passato insieme, fu gratificante osservare la parabola positiva di riabilitazione di David ma sul piano fisico sembrava che stesse subendo un crollo” così Graham Nash nella sua autobiografia ricorda le condizioni di salute dell'amico Crosby.
Con il trapianto di fegato di David Crosby si concluse quell’anno di anniversari: 25 anni da Woodstock, 25 anni dal primo disco del trio. Se per festeggiare il grande raduno di pace, musica e amore, Crosby, Stills & Nash risalirono nuovamente sul palco per la replica della manifestazione, per ricordare quel primo disco si pensò di ritornare in studio di registrazione. Fare peggio di Live It Up, uscito quattro anni prima, era cosa impossibile, quindi perché no? Merito anche di una vecchia volpe come Glyn Johns in produzione che cercò di sgomberare lo studio da strumenti e macchinari troppo moderni. Fu già un passo avanti, la perfezione si sarebbe raggiunta se i tre si fossero presentati con dei capolavori in mano. Purtroppo non fu proprio così, visto che alcune delle canzoni furono scarti o sottratte ai rispettivi album solisti dei tre con pochissime vere collaborazioni (‘These Empty Days’ della coppia Nash e Crosby e ‘Camera’ di Stills e Crosby).
Comunque sia, su tutto il disco aleggia un'atmosfera di pace e rilassatezza che tratteggia bene le anime musicali dei tre protagonisti: quella rock blues di Stephen Stills (l'iniziale ‘Only Waiting For You’, ‘It Won’t Go Away’,l’hard di ‘Bad Boyz’ e le immancabili concessioni latine della finale ‘Panama’), il tocco leggero e romantico di Graham Nash (le belle ‘Find A Dream’ e ‘After The Storm’, ‘Unequal Love’) e un David Crosby comunque in buona forma (‘Camera’, ‘Till It Shines’, ‘Street To Lean On’). Più una cover di ‘In My Life dei Beatles. Scorrendo invece la lista degli ospiti troviamo: l’Heartbreaker Benmont Tench, i figli d’arte Ethan Johns, Chris e Jennifer Stills, la chitarra di Michael Hedges, le percussioni di Rafael Padilla.
“Mentre gli infermieri stavano per spingere la barella di David dentro la sala operatoria, mi avvicinai a lui, lo guardai negli occhi e gli dissi: ‘Se mi abbandoni qui con Stills, ti ammazzo, cazzo’. Croz entrò in quella sala operatoria ridendo e sforzandosi di non ridere”, ricorda Nash.
Sono passati altri 25 anni: quest'anno si celebrano i 50 anni di Woodstock e i 50 anni di quel primo disco con il divano in copertina e i tre protagonisti sono ancora qui con noi, pure in discreta forma.
poteva andare peggio...
“Nel 1994, considerando quello che avevamo passato insieme, fu gratificante osservare la parabola positiva di riabilitazione di David ma sul piano fisico sembrava che stesse subendo un crollo” così Graham Nash nella sua autobiografia ricorda le condizioni di salute dell'amico Crosby.
Con il trapianto di fegato di David Crosby si concluse quell’anno di anniversari: 25 anni da Woodstock, 25 anni dal primo disco del trio. Se per festeggiare il grande raduno di pace, musica e amore, Crosby, Stills & Nash risalirono nuovamente sul palco per la replica della manifestazione, per ricordare quel primo disco si pensò di ritornare in studio di registrazione. Fare peggio di Live It Up, uscito quattro anni prima, era cosa impossibile, quindi perché no? Merito anche di una vecchia volpe come Glyn Johns in produzione che cercò di sgomberare lo studio da strumenti e macchinari troppo moderni. Fu già un passo avanti, la perfezione si sarebbe raggiunta se i tre si fossero presentati con dei capolavori in mano. Purtroppo non fu proprio così, visto che alcune delle canzoni furono scarti o sottratte ai rispettivi album solisti dei tre con pochissime vere collaborazioni (‘These Empty Days’ della coppia Nash e Crosby e ‘Camera’ di Stills e Crosby).
Comunque sia, su tutto il disco aleggia un'atmosfera di pace e rilassatezza che tratteggia bene le anime musicali dei tre protagonisti: quella rock blues di Stephen Stills (l'iniziale ‘Only Waiting For You’, ‘It Won’t Go Away’,l’hard di ‘Bad Boyz’ e le immancabili concessioni latine della finale ‘Panama’), il tocco leggero e romantico di Graham Nash (le belle ‘Find A Dream’ e ‘After The Storm’, ‘Unequal Love’) e un David Crosby comunque in buona forma (‘Camera’, ‘Till It Shines’, ‘Street To Lean On’). Più una cover di ‘In My Life dei Beatles. Scorrendo invece la lista degli ospiti troviamo: l’Heartbreaker Benmont Tench, i figli d’arte Ethan Johns, Chris e Jennifer Stills, la chitarra di Michael Hedges, le percussioni di Rafael Padilla.
“Mentre gli infermieri stavano per spingere la barella di David dentro la sala operatoria, mi avvicinai a lui, lo guardai negli occhi e gli dissi: ‘Se mi abbandoni qui con Stills, ti ammazzo, cazzo’. Croz entrò in quella sala operatoria ridendo e sforzandosi di non ridere”, ricorda Nash.
Sono passati altri 25 anni: quest'anno si celebrano i 50 anni di Woodstock e i 50 anni di quel primo disco con il divano in copertina e i tre protagonisti sono ancora qui con noi, pure in discreta forma.
giovedì 8 agosto 2019
RECENSIONE: DOUG SEEGERS (A Story I Got To Tell)
DOUG SEEGERS A Story I Got To Tell (BMG, 2019)
la vita (musicale) inizia a 60 anni
Doug Seegers di storie da raccontare ne ha più di una: potrebbe partire dalla sua infanzia a New York, dalla sua povera famiglia che non aveva abbastanza soldi per sfamarlo ma che lo introdusse alla musica a suon di dischi di Hank Williams e Hank Snow. Potrebbe raccontare del suo lavoro di falegname, o di quelle giornate trascorse tra i marciapiedi di Nashville con una chitarra in mano e un cappello a terra che lo accompagnava al suono delle monete gettate dai passanti, a fianco una bottiglia a fare buona compagnia e scaldare dal freddo e in tasca un'altra dose per tirare avanti.
"Ero in cattive condizioni, disgustato da me stesso. La mia ragazza, anch'essa tossicodipendente, mi aveva abbandonato e mi sentivo come se stessi per morire. Tutto quello che potevo fare era unire le mani e chiedere a Dio di aiutarmi a scalciare via le mie dipendenze."
Non ha mai vissuto una vita agiata Doug Seegers, fino a quando una troupe televisiva svedese nella città del country per girare un documentario si accorse di lui. Da sconosciuto in patria a star nel nord Europa il passo fu brevissimo e inaspettato. Un cowboy nelle terre del nord Europa. Tutto vero. Seegers incide l'album della sua rivincita nel 2014, a 62 anni compiuti, in Going Down To The River c'erano personaggi come Buddy Miller e Emmylou Harris.
Oggi a 67 anni tenta di riconquistarsi la grande America con A STORY I GOT TO TELL (intanto in mezzo ha messo altri quattro dischi). Questa volta si muovono in aiuto Joe Henry in produzione, che si trascina dietro i suoi fidati musicisti da studio (Jay Bellerose alla batteria) e un ospite come Jackson Browne che lascia la sua voce in 'White Line' di Willie P Bennett, una delle due cover dell'album insieme al soul di 'Poor Side Of Town' di Johnny Rivers.
Seegers ci mette le restanti nove canzoni e la fede religiosa: un sapiente amalgama, lavorato alla perfezione da Joe Henry, di verace country music ('Out On The Street' con il violino), pedal steel (la redenta 'Give It Away', 'Can' t Keep Running') , vocalità poliedrica a metà strada tra Roy Orbison e un cantante soul, più qualche movimentata spruzzata honky tonk e rockabilly ('Rockabilly Bug'), le melodie spagnoleggianti di 'Demon Seed', la dedica al padre, scomparso prestissimo in 'Angel From A Broken Home', la difficile vita di strada raccontata tra i tasti di un pianoforte in 'Six Feet Under', e stupende planate nei sixties ('Falling Star') con tanto di fiati.
'Life Is A Mistery' canta nella canzone che chiude il disco: conoscendo la sua storia non possiamo che confermare. Tutto può succedere, anche quando hai superato i sessant'anni e il traguardo più lontano arrivava a fine giornata, al pasto caldo donato agli homeless. Con questo disco Seegers ritornerà negli States per il suo primo vero tour in patria. Da protagonista certamente ma senza dimenticare chi invece sta ancora lottando.
"Sono un uomo umile e la cosa più grande che posso realizzare è salvare un altro uomo". S
la vita (musicale) inizia a 60 anni
Doug Seegers di storie da raccontare ne ha più di una: potrebbe partire dalla sua infanzia a New York, dalla sua povera famiglia che non aveva abbastanza soldi per sfamarlo ma che lo introdusse alla musica a suon di dischi di Hank Williams e Hank Snow. Potrebbe raccontare del suo lavoro di falegname, o di quelle giornate trascorse tra i marciapiedi di Nashville con una chitarra in mano e un cappello a terra che lo accompagnava al suono delle monete gettate dai passanti, a fianco una bottiglia a fare buona compagnia e scaldare dal freddo e in tasca un'altra dose per tirare avanti.
"Ero in cattive condizioni, disgustato da me stesso. La mia ragazza, anch'essa tossicodipendente, mi aveva abbandonato e mi sentivo come se stessi per morire. Tutto quello che potevo fare era unire le mani e chiedere a Dio di aiutarmi a scalciare via le mie dipendenze."
Non ha mai vissuto una vita agiata Doug Seegers, fino a quando una troupe televisiva svedese nella città del country per girare un documentario si accorse di lui. Da sconosciuto in patria a star nel nord Europa il passo fu brevissimo e inaspettato. Un cowboy nelle terre del nord Europa. Tutto vero. Seegers incide l'album della sua rivincita nel 2014, a 62 anni compiuti, in Going Down To The River c'erano personaggi come Buddy Miller e Emmylou Harris.
Oggi a 67 anni tenta di riconquistarsi la grande America con A STORY I GOT TO TELL (intanto in mezzo ha messo altri quattro dischi). Questa volta si muovono in aiuto Joe Henry in produzione, che si trascina dietro i suoi fidati musicisti da studio (Jay Bellerose alla batteria) e un ospite come Jackson Browne che lascia la sua voce in 'White Line' di Willie P Bennett, una delle due cover dell'album insieme al soul di 'Poor Side Of Town' di Johnny Rivers.
Seegers ci mette le restanti nove canzoni e la fede religiosa: un sapiente amalgama, lavorato alla perfezione da Joe Henry, di verace country music ('Out On The Street' con il violino), pedal steel (la redenta 'Give It Away', 'Can' t Keep Running') , vocalità poliedrica a metà strada tra Roy Orbison e un cantante soul, più qualche movimentata spruzzata honky tonk e rockabilly ('Rockabilly Bug'), le melodie spagnoleggianti di 'Demon Seed', la dedica al padre, scomparso prestissimo in 'Angel From A Broken Home', la difficile vita di strada raccontata tra i tasti di un pianoforte in 'Six Feet Under', e stupende planate nei sixties ('Falling Star') con tanto di fiati.
'Life Is A Mistery' canta nella canzone che chiude il disco: conoscendo la sua storia non possiamo che confermare. Tutto può succedere, anche quando hai superato i sessant'anni e il traguardo più lontano arrivava a fine giornata, al pasto caldo donato agli homeless. Con questo disco Seegers ritornerà negli States per il suo primo vero tour in patria. Da protagonista certamente ma senza dimenticare chi invece sta ancora lottando.
"Sono un uomo umile e la cosa più grande che posso realizzare è salvare un altro uomo". S
giovedì 1 agosto 2019
RECENSIONE: BLACK PUMAS (Black Pumas)
BLACK PUMAS Black Pumas (ATO Records, 2019)
black moon rising
Se questo disco ha un difetto, uno solo, lo si può trovare unicamente nella placida uniformità su cui fluttuano le dieci canzoni, uniformità che si può tranquillamente tradurre anche con vellutata ripetitività. Una ripetitività però positiva che cattura, avvolge, finisce per inchiodarti all'intero ascolto. Punti di forza: voce e arrangiamenti.
È però vero che se si prendono le tracce una ad una, il duo di Austin, Texas, formato dal cantante e chitarrista Eric Burton e dal polistrumentista e produttore Adrian Quesada, i Black Pumas (notare la citazione alle Black Panthers) vincono su tutta la linea, come classe, songwriting e buon gusto.
Il duo sembra si sia incontrato per puro caso, ma si sa, a volte le migliori scintille si generano senza volerlo. Quesada, con un Grammy in bella mostra nel taschino, aveva queste canzoni nascoste nel cassetto che aspettavano solo di essere cantate da una grande voce. Un amico gli segnalò quel tizio dalla voce incredibile che cercava fortuna cantando all'angolo di una strada ad Austin.
Per telefono il loro primo incontro.
"Ascolto hip-hop della East Coast, vecchia musica soul, musica folk. Quando Adrian mi ha inviato le canzoni, era come se le avessi già ascoltate prima. Eravamo sulla stessa lunghezza d'onda sin dall'inizio ” racconta Burton.
" Stavo cercando qualcuno sulla mia stessa lunghezza d'onda. A cui piacesse Neil Young quanto Sam Cooke" dice Quesada.
Perfetto dico io.
La voce di Burton che spesso si traduce in falsetto (il singolo 'Colors'), accompagna dieci composizioni che non temono di giocare ad armi pari con i grandi dischi Motown degli anni 60, 70. Non inventano nulla ma trasportano il soul, il R&B, il funky nero, negli anni venti dei 2000. A volte sembra proseguano il discorso iniziato, poi interrotto, dai Black Keys con Danger Mouse. Qui però nessun singolo da classifica sembra emergere prepotente.
Danno una pennellata di modernità al calore mai assopito di certa black music, iniettando soffi di ipnotica psichedelia e leggere dosi rock, anche se per me mai abbastanza per riuscire a dare una graffiata più profonda al loro sound. Insomma, non c'è la spregiudicatezza garage punk di Black Joe Lewis o l'assalto crossover di Fantastic Negrito, tanto per citare due dei più conosciuti compagni di viaggio di questi anni. Ci sono altre cose.
I fantasmi neri di Al Green, Curtis Mayfield, Bill Withers, Otis Redding, Sam Cooke, con la benedizione di Van Morrison direttamente da questo pianeta, ballano intorno a canzoni costruite splendidamente dove sinuose chitarre acustiche, elettriche (la magniloqyente 'Touch The Sky'), organi, pianoforti, archi, fiati, voco femminili si fondono alla perfezione nei momenti funky (la bella apertura 'Black Moon Rising'), sensuali ('You Know Better'), spirituali (la minimale 'Sweet Conversations' che chiude il disco), nelle ballate (la toccante e folkie 'Oct 33'), nelle citazioni ('Fire' sembra richiamare Ennio Morricone).
Questo è solo l'inizio del matrimonio ma sono sicuro: se la relazione dovesse proseguire, il meglio non tarderà ad arrivare.
Vecchio soul per le nuove generazioni.
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