giovedì 29 novembre 2018

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Songs For Judy)


NEIL YOUNG  Songs For Judy (Shakey Pictures Records/Reprise/Warner, 1976/2018)



 1976:un anno come fossero dieci 

Novembre 1976, un altro anno intenso per Neil Young sta per concludersi: a Gennaio corre a Miami dove inizia a lavorare insieme a Stephen Stills a un nuovo progetto. Nel mese di Marzo vola in Giappone e in Europa con i Crazy Horse per una serie di deliranti concerti, colorati anche dall’LSD che verranno ripresi dalla telecamera e registrati per farne un film e un disco live, ma ancora inediti oggi se non per qualche spezzone già apparso. Intanto il progetto con Stills denominato Stills Young Band, fa saltare le date americane con i Crazy Horse che verranno rimandate, e porterà all’incisione del mai troppo acclamato e amato Long May You Run (che uscirà solo in Settembre) e a intraprendere un tour insieme a Stills nel mese di Luglio che durò solo diciotto date, prima degli scazzi e l'abbandono di Young che comunica la fine del progetto all’amico attraverso la famigerata lettera che si conclude con un “strano come alcune cose che iniziano spontaneamente, finiscono in quel modo: mangia una pesca. Firmato: Neil”. Mentre Stills, sconsolato, continuerà il tour da solo, nel mese di Agosto si chiude in studio di registrazione in solitaria e registra Hitchhiker, l’album perduto che ha visto la luce solamente l’anno scorso. In preda alla solita bulimia musicale, in autunno, richiama con sé i Crazy Horse e programma una serie di date live, concerti che prevedevano una parte acustica in solitaria, limpida e sincera e una parte elettrica con la band (chissà, un giorno usciranno anche le canzoni elettriche e chi c’era ancora adesso ne parla in modo entusiasta) già sfruttata l’anno prima per l'incisione di Zuma e l’entrata del nuovo chitarrista Poncho Sampedro. Nel mezzo delle date, con l’aiuto della (in questo caso) salvifica cocaina, riesce a trovare il tempo per volare a San Francisco per registrare l’ultimo valzer della Band. Il suo naso sporco di neve bianca verrà immortalato da Scorsese. Scorrendo le scalette degli show si può capire quanto già nel 1976 Neil Young avesse scritto una buona parte della sua migliore carriera. “Nel 1976 ero una furia e siccome avevo preso l’abitudine di scrivere diverse canzoni alla settimana, mi ritrovai ingolfato: avevo troppo materiale e poco tempo in studio. Registravo ovunque potessi farlo e mi muovevo velocissimo, finendo i miei dischi molto rapidamente…” racconterà anni dopo Neil Young.
Ph. Gary Morgan, 1976
SONGS FOR JUDY: un altro pezzo degli archivi di NEIL YOUNG esce il 30 Novembre. Trattasi di 23 canzoni acustiche (79 minuti di musica), eseguite in solitaria accompagnandosi con chitarra, banjo, armonica e pianoforte, e registrate nel corso del tour del Novembre 1976 con i Crazy Horse: la prima data al Dorothy Chandler Pavilion a Los Angeles, il primo Novembre. Nel corso del tour festeggerà i suoi 31 anni. Tra le 23 tracce l’inedita assoluta su disco ‘No One Seems To Know’, una ballata al pianoforte. Gli show intimi e acustici di Neil Young che solitamente aprivano o chiudevano gli spettacoli con la band, furono registrati all’epoca su cassetta dal regista Cameron Crowe e dal fotografo Joel Bernstein (protagonisti assoluti nelle note del libretto), girando negli anni in formato bootleg con il nome Bernstein Tapes. Quest’ultimo dice: ”mi sono subito reso conto che realizzare questi nastri era di fatto una grande idea, feci irruzione nei centri commerciali per accapparrarmi qualsiasi cassetta C-90 vuota che potessi trovare lungo la strada. La tappa americana di questo tour è stata breve (18 spettacoli in 12 città, in 24 giorni), ma le esibizioni erano al loro meglio, intense ed elettrizzanti. Mentre il tour continuava, il nascondiglio delle cassette era cresciuto, tutte piene di gemme”. Aggiunge il regista:” è stato un lavoro delirante. Svegliarsi, fare colazione, tornare alle registrazioni. Decidire quale delle 12 versioni di "Old Laughing Lady" era essenziale”. Neil Young ringrazia:” Joel e Cameron hanno scelto queste canzoni e hanno fatto un ottimo lavoro. L'album è piuttosto unico e penso che il periodo sia stato ben catturato nel suono e nelle performance. È stato un momento nel tempo, ed è facile capire perché si chiama Songs For Judy . "
Il titolo, poi trasformato anche in copertina, arriva da ‘Songs For Judy Intro'’, monologo di tre minuti  che apre il disco, uno dei tanti durante quel tour, in cui Neil Young evoca il fantasma di Judy Garland, attrice il cui ruolo nel Mago di Oz fu l'inizio di carriera ma anche cruciale per il resto della sua travagliata vita. Come al solito, accanto a canzoni che erano già dei piccoli classici a pochi anni dall'uscita: da ‘Heart Of Gold’ a 'Harvest', al pianoforte di ‘After The Goldrush’ e 'Journey through The Past', il banjo di 'Human Highway', la vecchia ‘Mr. Soul’, Neil Young sorprende sempre il suo pubblico con canzoni nuove che troveranno la via ufficiale su disco solo pochi o tanti anni dopo (‘White Line’ che troverà posto in versione elettrica solo su Ragged Glory negli anni 90, ‘Pocahontas’, ‘Campaigner’ che cita apertamente Richard Nixon ed eseguita il giorno prima delle Election Day, uscirà l’anno dopo su Decade). Neil Young Al massimo del suo splendore acustico, un buon compendio nell'attesa della seconda parte degli archivi in uscita a Maggio 2019. Ma state pure sereni, nel frattempo il vecchio Neil si inventerà qualcos’altro per farci ingannare l'attesa.

                  ph. Charlyn Zlotnik, 1976

mercoledì 28 novembre 2018

RECENSIONE: MARK KNOPFLER (Down The Road Wherever)

MARK KNOPFLER  Down The Road Wherever (British Grove Records/Virgin, 2018)





“non si giudica il disco dalla copertina”
Mentre una manciata di professionisti portano in giro per il mondo le canzoni dei Dire Straits, ingannando i più distratti e facendosi pure pagare profumatamente, Mark Knopfler che di quelle canzoni è il padre fa uscire il suo nono disco solista che ancora una volta gira intorno al rock della vecchia band mantenendo le dovute distanze, marcando territori con il tempo diventati sempre più affidabili e rassicuranti dove il lungo ponte costruito dal musicista per legare le brume britanniche con i paesaggi americani continua a stare bene in piedi e resistere alla modernità e alle intemperie del mercato discografico. Ma non fate come me, pronto a bollare il disco come l'ennesimo disco di Knopfler (pratica diffusa) , forse tratto in inganno dal precedente, poco brillante Tracker, da una copertina che cerca di evocare grandi spazi ma riuscita veramente male nella suo essere dozzinale, a buon mercato e vista altre mille volte, e da una durata complessiva che scoraggia fin da subito, arrivando a a superare i 70 minuti nella versione con bonus track. DOWN THE ROAD WHEREVER è la conferma della professionalità eccelsa di Knopfler, della grande bontà della sua scrittura, figlia diretta della penna dylaniana, evocativa e piena di dettagli come pochi sanno ancora fare, della sua chitarra che non punge più come come una volta ma imbastisce trame e melodie calde e rassicuranti che mai come questa volta cercano nuovi “vecchi” orizzonti che si spingono, forse inseguendo l’amico premio Nobel, verso Frank Sinatra (‘When You Leave’) dove una tromba dipinge velata tristezza, la stessa tromba che colora invece di funky ‘Nobody Does That’ e di colori latini ‘Heavy Up’. Poi, tutto intorno, il Knopfler di sempre, maestro nel raccontare storie e creare quadri romantici e poetici di vita dove i protagonisti sono il tifoso del Liverpool che vaga di notte nella città straniera cantando “You’ll Never Walk Alone” nel bel blues ‘Just A Boy Away From Home’, il musicista con la vecchia valigia e la chitarra che fa l'autostop sotto la neve nell'autobiografica ‘Matchstick Man’ o il paesaggio fantasma di ‘Drover’s Road’ sormontato da stelle e luna. Il Mark Knopfler di sempre è un campione nel costruire rock mai sopra le righe ma ficcanti come ‘Trapper Man’ o singoli azzeccati come ‘Good On You Son’, effettivamente la canzone più furba e che arriva prima, ballate intense come ‘Nobody’s Child’ e la notturna e jazzata 'Slow Learner', ospitare la voce di Imelda May nella bella ‘Back On The Dance Floor’. “È stato fantastico avere Imelda in quella canzone, penso che sia semplicemente fantastica, ha davvero fatto molto per colorarla, è così creativa e divertente.”
Non siamo ai livelli eccelsi di PRIVATEERING, il suo picco solista, ma quasi. Intanto, per sottolineare la buona vena artistica, si prepara con l’uscita teatrale di Local Hero, vecchia conoscenza, per cui ha scritto nuovo materiale musicale.





venerdì 23 novembre 2018

JESSE MALIN live@Cohen, Verona, 22 Novembre 2018



JESSE MALIN live@Cohen, Verona, 22 Novembre 2018

 Hey tu che passeggi davanti alla vetrata del locale in questa serata di fine Novembre e sei incuriosito dalla musica che senti provenire dall’interno e dal quel manifesto che recita “a intimate evening with Jesse Malin”, ti ho visto: non esitare, anche se non sai chi sia, entra dentro non te ne pentirai. Perché non c’è bisogno di chiudersi per più di un anno tra le mura di un teatro a Broadway come l’amico Springsteen per creare empatia con il pubblico e raccontare un po’ della propria storia. Il Cohen di Verona, locale fantastico a misura d’uomo, non sarà come un importante teatro o semplicemente un coffee newyorchese ma potrebbe benissimo esserlo questa sera.
Jesse Malin, accompagnato dal bravissimo Derek Cruz alle tastiere e alla chitarra, ha scelto l'intimità acustica per questo giro di date, questa è la seconda dopo Trieste, affrontate con la consueta attitudine di sempre: folk singer e storyteller generoso con l’urgenza ereditata dal punk rock. Si dà completamente al pubblico e viene ricambiato. Intrattiene con un inglese parlato lento e comprensibile (mica è da tutti) raccontando storie personali legate alla famiglia (la cara mamma, lo zio), alla sua New York che musicalmente pare sempre ferma ai quei fine anni Settanta ma che poi deve scontrarsi con la triste attualità politica (“ciao sono Jesse Malin e vengo da Marte” ama ripetere per nascondere la sua nazionalità: la stessa di Trump!), citando e imitando personaggi del mondo della musica (da Lemmy a Dee Dee Ramone fino a Tom Waits) raccontando aneddoti legati ai suoi incontri musicali con Springsteen (la collaborazione per ‘Broken Radio’) e Shane McGowan e allora sotto con i Pogues.


Scende dal palco va al bancone del bar per un brindisi con tutti noi e sciorina la sua carriera musicale solista partita da quel A Fine Art Of Self Destruction (ecco 'Brooklyn' che apre il concerto), prodotto dall'amico Ryan Adams, passando da The Heat ('Hotel Columbia'), dal successo di Glitter in the Gutter ('Black Haired Girl') ai più recenti New York Before The War ('Bar Life') e Outsiders fino a regalare due nuove canzoni che saranno nel prossimo album in uscita nel 2019 e prodotto da Lucinda Williams. La cosa mi stuzzica. È palpabile, Jesse Malin cammina ancora tra le pieghe sempre più ostiche del rock in modo sano e libero. Senza condizionamenti. Con quella ingenua visione da fan che ancora lo attanaglia e che riesce a trasmettere così bene. Gli adesivi incollati sulla sua chitarra parlano chiaro: lui sta lì da qualche parte in mezzo a Johnny Cash, gli Stones e i Bad Brains. Hey amico, sei ancora lì con il naso spiaccicato sulla vetrata? Cosa aspetti ad entrare?


mercoledì 21 novembre 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #71: CALVIN RUSSELL (A Crack In Time)

CALVIN RUSSELL   A Crack In Time (New Rose, 1990)





born Halloween
Un disco che è un sogno. La salvezza. La libertà trovata a quarant’anni dopo un’infanzia di stenti e povertà nella sua Austin, quarto di nove figli, e una biografia che fino a quel momento aveva più indirizzi di galere che canzoni. A Russell non sono mai piaciute le autostrade sicure fin da quando a quindici anni decise di cercare fortuna a San Francisco trovandosi con il classico pugno di mosche nella mano, costretto a camminare nei marciapiedi stretti, quelli che gli altri chiamano “sbagliati” senza averci mai posato un piede. Lui li conosceva a memoria. Espedienti, droghe e una faccia poco raccomandabile con tante rughe e buche come una vecchia strada di campagna, appiccicata sue due occhi furbi e sinceri, illuminanti, lo stavano portando diritto verso l’inferno senza la possibilità di dare voce a quelle fiamme che gli ardevano dentro da sempre. Inizia tardi la sua carriera ma A Crack In Time è uno starter che pochi possono vantare. Un grazie all’etichetta francese New Rose che ci ha creduto, alla Francia che lo ha accolto, alla sua caparbietà, Calvin Russell nel suo debutto lo dice subito: “è dura sopravvivere”. Finalmente qualcuno a cui credere ciecamente. Canzoni con un sax a disegnare traiettorie poco convenzionali (‘A Crack In Time’), ballate che strappano il cuore (‘My Way’), tirate elettriche (‘Living At The End Of A Gun’), canzoni che lo mettono a nudo (‘Behind The 8 Ball’), sentiti omaggi a chi reputa un buon compagno di viaggio e di vita, ‘Nothin’ di Townes Van Zandt, uno che lo incoraggiò da subito. Polvere che non teme di oltrepassare i confini. Da qui in avanti, Russell recupera il tempo perso con tanti dischi (capolavori come Sounds From The Fourth World e Soldier, e di mestiere ma sempre coerenti) e quattro mogli, fino alla morte avvenuta il 3 Aprile 2011. Calvin Russell nacque il primo Novembre del 1948 (nel suo ultimo disco Dawg Eat Dawg’ uscito nel 2009 si autodedicò una bellissima ‘Halloween’) oggi ne avrebbe 70 di anni. Suo padre era un cuoco da fast food, sua madre la cameriera allo Sho’nuff Café di Austin, lui un affamato di vita. Sfortunato ma vero come pochi.




domenica 18 novembre 2018

THE MAGPIE SALUTE live@Live Club, Trezzo sull’Adda (MI) 16 Novembre 2018

THE MAGPIE SALUTE live@Live Club, Trezzo sull’Adda (MI) 16 Novembre 2018

Uno, due, tre, quattro… (cinque, sei) non è il tempo che detta il batterista Joe Magistro all’inizio di ogni canzone ma bensì il numero delle canzoni rovinate da un’acustica tendente al pessimo e impastata. Un inizio piuttosto confuso. Peccato perché proprio in apertura i Magpie Salute piazzano le loro canzoni (‘High Water’, ‘Walk On Water’) da vera band. Quelle che li fanno distinguere da una cover band di lusso come qualcuno potrebbe pensare leggendo le loro scalette. Sempre diverse tra l’altro.Le chitarre di Marc Ford e Rich Robinson non arrivano come meritano e sembrano bisticciare ancora piuttosto che aver raggiunto la pace , la voce di John Hogg sembra nascosta chissà dove, il basso di Sven Pipien che scava, le tastiere di Matt Slocum dove sono? Non potrà essere tutto il concerto così mi chiedo, sarebbe veramente una delusione. La magia accade a metà set, si accendono le luci a centro palco, rimangono in tre: Ford, Hogg e Robinson e le loro chitarre acustiche. Un intermezzo intimo che i tre portano pure in giro come spettacolo ridotto, un sipario che cattura: ‘Sister Moon’, ‘She’ di Gram Parsons e ‘Descending’, prima concessione al passato Black Crowes della serata. Tre piccole perle che permettono ai tecnici di sistemare quello che non va, al pubblico di rimanere estasiato, a due deficenti di fianco a me di parlare tutto il tempo dei cazzi loro (andate al bar, please! ). Da qui in avanti il concerto prende il decollo, Rich Robinson prende in mano la situazione, canta bene quando si impossessa del microfono e si capisce che il vero leader è lui,  Hogg cerca di non far rimpiangere fratello Chris (qualcun altro sempre vicino a me passa il tempo a gridare “torna in panchina”, ma perché non ci vai tu, magari al bar, insieme agli altri due?), e a fine serata, per me, porta a casa la sua buona pagnotta.
Caldi sapori southern, impasti vocali west coast, chitarre in primo piano finalmente, la seconda parte di concerto volge lo sguardo al passato e ci dona una ‘OH Sweet Nuthin’ dei Velvet Underground, una sempre trascinante ‘Soul Singing’ e una ‘My Morning Song’ che da sola vale il prezzo del biglietto e mette in chiaro il livello altissimo di questa lunga serata di due ore, confermato da un finale senza la farsa dell’uscita per i bis e da una ‘Send Me An Omen’ di produzione loro che si confonde benissimo con il passato e guarda al loro futuro. Vicinissimo, con l’uscita di High Water II già programmata per il prossimo anno. Nonostante tutto, l’incenso continua a bruciare.

SETLIST

High Water
Walk on Water
Take It All
For the Wind
Every Picture Tells a Story (Rod Stewart)
Fearless (Pink Floyd)
Smoke Signals (Marc Ford)
The Giving Key (Rich Robinson)
Sister Moon
She (Gram Parsons)
Descending (The Black Crowes)
Open Up
A Change of Mind (Marc Ford)
Oh! Sweet Nuthin' (The Velvet Underground)
Can You See
Good Friday (The Black Crowes)
Another Roadside Tragedy (The Black Crowes)
Soul Singing (The Black Crowes)
My Morning Song (The Black Crowes)
Send Me an Omen






venerdì 16 novembre 2018

RECENSIONE: RED DRAGON CARTEL (Patina)

RED DRAGON CARTEL   Patina (Frontiers Records, 2018)





 Chissà quanto deve essere stato pesante per uno come Jake E. Lee prendere il posto dell'amatissimo Randy Rhoads nella band di Ozzy Osbourne? Un sodalizio che durò poco più di tre anni, il tempo di cavarsela bene e incidere due dischi (Bark At Moon nel 1983 e The Ultimate Sin del 1986) e poi la rottura, ancora avv...olta nel mistero anche se il famigerato telegramma di licenziamento ha un mandante ben preciso: Sharon Osbourne. Poco male perché il chitarrista di Norfolk, Virginia, ebbe modo di inseguire la sua voodoo highway con il supergruppo Badlands insieme al mai troppo compianto cantante Ray Gillen, un talento durato troppo poco. Un gruppo che in due dischi, più uno postumo, lasciò impronte di genuino hard southern blues, anticipando il revival seventies che prese piede negli anni novanta. Da lì in avanti le mosse di Jake E. Lee si fanno sempre più rade tanto che la polvere del tempo ne ha coperto le impronte principali. Solo nel 2014 sembra ricomparire timidamente con un nuovo progetto: i RED DRAGON CARTEL. Se il debutto era ancora confuso, costruito su vecchie canzoni scritte in precedenza, e vedeva impegnati diversi cantanti e tanti ospiti, con il secondo PATINA, la band inizia ad avere una personalità ben precisa, a lavorare in squadra. Sono della partita oltre al chitarrista: il cantante Darren Smith, il batterista Phil Varone (Saigon Kick) e il bassista Anthony Esposito (Lynch Mob). Un album vario, anche se la produzione perfetta e moderna toglie un po’di calore, dove ai momenti più heavy che ricordano l'epoca grunge (‘Speedbag’, ‘Crooked Man’) si contrappongono i momenti più bluesy: se ‘Havana’ si candida come canzone dal riff più groovy e accattivante dell’anno, ‘The Luxury Of Breathing’ e ‘‘My Beautiful Mes’ contengono fumosi semi psichedelici, mentre ‘A Painted Heart’ è una semi ballad in grado di spostare l’ago della bilancia verso il segno positivo. Così come la finale ‘Ink And Water’ che lo stesso chitarrista dichiara essere influenzata da David Bowie.
“Per questo album, sono tornato alle mie radici. Mentre scrivevo l'album stavo ascoltando un sacco di Bowie, e un sacco di cose con cui sono cresciuto da ascoltatore, cose che hanno avuto un impatto enorme su di me”.
Peccato per una copertina non troppo accattivante che attira poco e mal rappresenta il disco. Bentornato Jake.









mercoledì 14 novembre 2018

FANTASTIC NEGRITO/Superdownhome live@Santeria Social Club, Milano, 12 Novembre 2018

Un performer a 360 gradi in grado di catalizzare tutta l'attenzione su di sé pur avendo dietro un band di soli tre elementi che pare suonare come una big band d'altri tempi (manca pure il basso!) . Un talento innato il suo, o ce l'hai o sei destinato a rincorrere.
FANTASTIC NEGRITO scappa via con naturalezza e non lo prendi più. Stare al suo passo è difficile. Rafforzato da una vita che lo h...a messo a dura prova, a cinquant'anni si gode il meritato trionfo che va ben oltre il Grammy per il miglior album blues vinto con il suo primo disco, uscito senza etichetta discografica come ama ricordare lui. Accellera, rallenta e accellera ancora a ripetizione.
Una rinascita che si è trasformata piano piano in un'occasione di riscatto, costruita con impeccabile bravura e un pizzico di furbizia da navigato intrattenitore (cerca spesso la voce del suo pubblico) quando sale sopra un palco che pare la camera di casa sua da sempre da quanto scivola con naruralezza sul pavimento.
In mezzo alle note alte e a quelle basse di una voce che potrebbe cantare qualunque cosa e qualsiasi genere, e così fa, Fantastic Negrito allunga le canzoni a suo piacimento, detta i tempi alla band, dirige, trasformandole di volta in volta in un lungo medley dove confluiscono il blues, il funk, il rock’n’roll, i traditional ('In The Pines'). Ma sa andare anche diritto al punto quando vuole ('Plastic Hamburgers') Improvvisa senza piantare paletti, parte dalla black music e arriva dove vuole. Il tutto legato da una instancabile verve da trasformista che lo fa diventare predicatore, aizzatore di folle, comico, pensatore, attore impegnato e ballerino. Spettacolo completo a un prezzo modico. Ancora per poco?
Ma lo spettacolo lo hanno dato anche i nostrani SUPERDOWNHOME (RECENSIONE DISCO) nella troppo breve mezz’ora a disposizione come opener. Il duo bresciano pesta duro di rural blues. Chi li conosce sa cosa aspettarsi e non rimane deluso. Chi li vede per la prima volta rimane folgorato e incuriosito. In una parola: trionfo. Anche per loro. Bella serata in uno dei migliori locali milanesi di live music.


SUPERDOWNHOME

























IL DISCO
le seconde opportunità della vita
FANTASTIC NEGRITO  Please Don't Be Dead (2018)

Non credo mai a chi continua a farneticare che il rock (e derivati) è morto, che non escono più dischi degni e via così, evidentemente chi sostiene tutto ciò non ha ancora ascoltato PLEASE DON’T BE DEAD il nuovo album di Fantastic Negrito. Cinquantenne dalle mille vite complicate, riesce a farle entrare tutte in undici canzoni nelle quali non si butta via nulla, così come sono costruite su una valanga di belle e geniali intuizioni, perché se è impossibile creare ancora qualcosa di nuovo nella musica, vince chi sa ripetere e rinnovare la lezione. Fantastic Negrito in questo è un mago.
Ci sono il vecchio blues dei neri americani e il rock bianco, c’è la Black music in tutte le sue inclinazioni (funk, soul, R&B, disco). Ci sono la rabbia sociale e la denuncia, c’è tutta la sua vita passata fatta di stenti, sofferenza e rinascita, artistica e sociale. Nessun pelo sulla lingua, niente viene nascosto. Sebbene abbia in tasca un Grammy vinto con il suo precedente disco, il magnifico The Last Days In Oakland, preferisce mostrarsi sofferente in un letto d’ospedale, esperienza vissuta per tre lunghi mesi dopo l’incidente che lo portò al coma. Da lì in avanti non fu più la stessa cosa: Xavier Dphrepaulezz morì, nacque il personaggio di oggi. Insomma il messaggio è chiaro, se non muori puoi sempre prenderti una rivincita. Un po’ lo stesso discorso del rock.
Uno dei dischi dell’anno? Probabile.
 
 
 

martedì 6 novembre 2018

RECENSIONE: ALL THEM WITCHES (ATW)

ALL THEM WITCHES  Atw (New West, 2018)






In giornate nelle quali si ascoltano dodici versioni diverse ma simili di ’You're Gonna Make Me Lonesome When You Go’ di Bob Dylan, lo stesso tempo lo si può impiegare per ascoltare l’ultimo disco di uno dei gruppi rock più interessanti usciti negli ultimi cinque anni. Il nome del gruppo come titolo, il quinto disco della carriera per la band di Nashville, Tennessee, sembra già segnare un nuovo inizio. Ascoltando gli otto brani in scaletta (51 minuti) è palese la voglia di uscire definitivamente da certi steccati troppo stretti legati alla scena stoner. Non tanto musicalmente quanto come etichetta da portarsi appiccicata addosso. Anche se l'apertura ‘Fishbelly 86 Onions’ è ancora una scheggia di garage stoner in continuo crescendo, già dalla seconda ‘Workhorse’ si capisce quanto la band del cantante e bassista Charles Michael Parks Jr., voce sempre protagonista la sua, abbia intenzione di lasciare aperti i confini, abbracciando soluzioni per nulla scontate, seppur derivative, e in continuo mutamento (‘1st Vs 2nd’), dando sempre pochi appigli per cercare di acciuffarli. Blues, desert rock e psichedelia viaggiano a braccetto: mentre in ‘Half Tongue’ prevale il lato soffuso e sognante, il singolo ‘Diamond’ è scandito dal drumming tribale del batterista Roby Staebler, gran lavoro su tutto il disco il suo così come degno di nota è il battere sui tasti di Rhodes e organo di Jonathan Draper (belle le influenze soul e jazz catturate in ‘Half Tongue’), ‘Harvest Feast’ è un lento e notturno blues di undici minuti che sa tanto di orgia tra Free e Black Sabbath condotto dalla chitarra protagonista di Ben McLeod (anche produttore del disco) con una lunga coda finale che si tramuta in jam, ottimo esempio della loro attitudine live.
“L'improvvisazione ha un ruolo in tutte le nostre canzoni, sia che le persone lo sentano o no. ‘Harvest Feast’ è un buon esempio: prendere qualcosa di deprimente come una canzone blues e lasciarla uscire dalla nebbia. Improvvisare ci fornisce gli strumenti per far vivere e respirare veramente la musica”.
‘HTTC’ procede sincopata, straniante e marziale con un esaltante crescendo che porta al gran finale di ‘Rob’s Dream’, una delle migliori tracce: sette minuti che alternano momenti di liquida psichedelia pinkfloydiana e scatti rock alla Led Zeppelin. Diretti, credibili e senza fronzoli, Atw si prenota un posto tra i miei dischi dell’anno.










giovedì 1 novembre 2018

RECENSIONE: DAVID CROSBY (Here If You Listen)

DAVID CROSBY  Here If You Listen (2018)







music is love
“Questa è una delle migliori esperienze musicali della mia vita”, lo scrive nel libretto che accompagna il disco ma lo si potrebbe immaginare mentre te lo dice di persona lisciandosi i baffi e aggiustando il berretto di lana calato in testa, con lo sguardo fiero e gli occhi puntati sul futuro. Ascoltando il disco gli si crede pure, perché nei 45 minuti traspare un senso di leggerezza, freschezza e purezza che hanno il potere di avvolgenti come una buona e vecchia coperta nei momenti di gelo. La candida copertina conferma. È felice il vecchio Crosby, entusiasta di questo disco venuto quasi in dono grazie all’incontro sfociato in collaborazione con i tre giovani musicisti che questa volta si guadagnano pure il nome in copertina sotto quello di Croz dopo la collaborazione su Lighthouse del 2015: Becca Stevens, Michelle Willis e Michael League (Snarky Puppy). “Stavamo camminando verso lo studio di Mike League a Brooklyn con sole due canzoni finite per iniziare un nuovo disco con la Lighthouse Band… ” e poi? Poi è successo che Crosby si è lasciato coinvolgere dalla sfrontata gioventù dei suoi compagni di ventura: in un mese il disco era pronto.
“Queste tre persone sono così sorprendentemente talentuose, non ho letteralmente potuto resistere alla realizzazione di questo album con loro". Un amore vero.
Undici canzoni che continuano il discorso iniziato quattro anni fa con Croz, proseguito con Lighthouse e Sky Trails, una prolificità che non gli è mai appartenuta in carriera ma che ha trovato nelle collaborazioni una strada che a 77 anni pare non avere neppure una fine tanto vicina. Molti compagni di viaggio alla sua età stanno programmando dischi di commiato e tour di addio, il sopravvissuto (forse il segreto sta in questa parola) Crosby non ci pensa neppure e lavora con i giovani a cose nuove, anche se nelle ultime interviste ha pure lasciato le porte aperte a eventuali reunion con CSN & Y e Byrds. Lui è disponibile, lascia la palla ai meno convinti.

Con la Lighthouse Band vengono messe in risalto le armonie vocali anche a quattro voci come succedeva ai vecchi CSN più soft, canzoni di chitarre acustiche e pianoforte, delicate, eleganti, eteree, che sfiorano il jazz, a volte non c’è nemmeno bisogno delle parole come avviene nella vecchia ‘1967’, fatta rinascere da vecchi demo, così come ‘1974’, a volte manda qualche frecciatina ai potenti della terra (‘Other Half Rule’) e firma un appello a parole: "chiedere educatamente alle donne degli Stati Uniti d'America di salvare i nostri culi", nella frizzante ‘Vagrants Of Venice’ lancia un forte grido ecologista, in ‘Your Own Ride’ riflette sulla sua vita (ecco ritornare il sopravvissuto), c’è perfino una nuova versione con diverso arrangiamento di ‘Woodstock’ dell’amica Joni Mitchell (“la migliore” dice lui, riferendosi alla cantautrice che non se la sta passando troppo bene) . Riscrive il passato, vive il presente, mentre sicuramente scruta l’imminente futuro. All’orizzonte si intravedono già una collaborazione con Jason Isbell e un film sulla sua vita diretto da Cameron Crowe. Buona vita Croz!