THE DECEMBERISTS
What A Terrible World, What A Beautiful World
(Rough Trade Records, 2015)
Le tante facce della maturità
“Non possiamo più tollerare tragedie come queste. Dobbiamo cambiare. Farò qualsiasi cosa in mio potere, per bloccare il massacro”. Con queste parole, il 17 Dicembre 2012, Barack Obama tenne un discorso durissimo all’indomani del massacro di venti bambini e sei insegnanti in una scuola elementare di Newtown nel Connecticut. Da qui sembra ripartire l’affascinante (e più accessibile) viaggio sonoro di Colin Meloy e la sua band, dopo il tour solista e la buona carriera letteraria che lo hanno tenuto impegnato ultimamente. Colpito da quelle parole scrive la folkie 12/17/12, a testimonianza della consapevolezza ed equilibrio raggiunti in carriera ma soprattutto in vita. Un disco che tocca più strade: sfiora la più sperimentale ed epica (Cavalry Captain) di inizio carriera che li innalzò a nuovi eroi indie (la tesa Lake Song), la fascinazione per Phil Spector (Philomena) e il più marcato passo indietro verso le radici folk e country (Anti-Summersong) compiuto con il precedente THE KING IS DEAD. Il terribile e il magnifico mondo, appunto. In un solo disco.
Enzo Curelli voto 7
da Classic Rock (Gennaio 2015)
venerdì 30 gennaio 2015
lunedì 26 gennaio 2015
RECENSIONE LIBRO: GRAHAM NASH (WILD TALES-La Mia Vita Rock'n'Roll)
‘WILD TALES-LA MIA VITA ROCK’N’ROLL’
(Arcana Edizioni, pag.380, 22 euro)
“Pochi minuti dopo essere scesi dall’aereo, mi arrampicai sulla sommità della prima palma e dissi a Clarkie- Allan Clarke, leader degli Hollies- che non sarei mai più sceso. Una metafora a cui avrebbe dovuto prestare ascolto”. Così l’inglese Graham Nash racconta il primo contatto con L.A., avvenuto nel 1966 durante un tour USA del suo primo gruppo The Hollies. Da quella palma a stelle e strisce non scese mai se non per raccogliere i cocci causati dalle brusche cadute in una carriera di picchi altissimi e rovinosi abissi, suoi e dei tanti amici incontrati lungo la strada: dalla prima vera amica “americana” Cass Elliot (la cicciotta dei The Mamas & The Papas), al grande e travolgente amore per Joni Mitchell “era come un quadro di Escher, con tutti i suoi angoli acuti, attrattive inaspettate e abissi misteriosi”, i rapporti tempestosi con l’egocentrico Stephen Stills e il bizzoso Neil Young, fino all’incontro con il fraterno David Crosby, tanto che, pagina dopo pagina, la biografia sembra correre in parallelo con la vita disastrata da droghe e eccessi dell’amico Croz “aveva sempre l’erba migliore, le donne più belle, ed erano sempre nude”, quasi due biografie in una, verrebbe da dire.
© Joel Bernstein, 1974 |
Vita intensa la sua. Inutile dirvi che tre quarti di libro sono dedicati ai 60 e 70, lasciando al resto le briciole. Ma proprio in quel ventennio c’è tutto quello che vogliamo dal rock’n’roll. (Enzo Curelli) da CLASSIX! # 42 (Dicembre/Gennaio)
vedi anche
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (2015)
lunedì 19 gennaio 2015
RECENSIONE: RYAN BINGHAM (Fear And Saturday Night)
RYAN BINGHAM Fear And Saturday Night (Axster Bingham Records, 2015)
C'è un uomo con un cappello texano calato in testa che gira per le montagne della California, ha la barba sfatta, jeans lisi e alza polvere con gli stivali quando cammina, è lì da alcuni giorni, porta sempre con sé una chitarra, la suona appena può, in qualunque angolo si trovi. Le ragazze del primo paese vicino se ne sono già innamorate, il fascino da bello e dannato funziona anche ad alta quota. A tarda sera si ritira dentro alla sua roulotte: ha poche cose con sé, da lontano si vede una fioca luce di candela accesa fino a tardi, a notte fonda si sente una voce roca accompagnata da accordi di chitarra. Si dice in giro che sia uno importante, un musicista, uno che ha vinto addirittura un Oscar. Qualcuno ci crede. Allora, perché è solo? Perché la sua faccia si lascia andare poche volte ad un sorriso quando incrocia qualcuno del posto? Sembra pensieroso. Ryan Bingham costruisce così il quinto album in carriera, il più amaro e personale, ci aggiungo il più completo in generale. In totale solitudine, rimuginando su quelle ferite che spezzano il cuore ma che, come indelebili tatuaggi, rimarranno per sempre: le riflessioni su un figlio mai nato (o meglio non ancora nato) nella ballata folk con armonica Broken Heart Tattoo. Infanzia e vita difficili le sue. I genitori morti giovani e in circostanze drammatiche (il padre suicida, la madre alcolista), una vita tutta da costruire contando solo sulle proprie forze. Ma quello che la vita ha tolto, la musica ha ridato. Lui ha raccolto e continua a seminare bene. Dopo un disco "arrabbiato" (Tomorrowland), nato come risposta istintiva a quelle perdite - a cui si aggiunge la separazione dalla prima band The Dead Horse - e per certi aspetti deviante nella forma musicale tanto da far storcere il naso a molti fan della prima ora (disco da rivalutare assolutamente) ritorna, adesso, a calpestare le strade del primo Mescalito, un debutto che rasentò la perfezione, innalzandolo a nuovo eroe border rock Americana.
Fear And Saturday Night cresce nel profondo dell'anima, si nutre di dolore ma guarda fieramente avanti, e tutto esce bene dal testo del blues elettrico "Bo Diddley Beat" Hands Of Time. Se Tomorrowland era un grido istintivo e rumoroso, questo è l'analisi riflessiva nata in completa solitudine: "non temo niente tranne me stesso" canta nella title track. Si apre con un country rock dai ritmi pigri (Nobody Knows My Trouble), autobiografica panacea scaccia crisi e prosegue tra blues crudi (Top Shelf Drug) con chitarre toste e tese (Daniel Sproul e Jedd Hughes) con l'hammond di contrappunto (Chris Joyner) e country/folk elettro-acustici, polverosi, desertici e sornioni: la finale Gun Fightin Man, la cupa e dal passo lento Fear And Saturday Night, le pennellate romantiche di Snow Falls In June e della crepuscolare Darlin, la notturna e springsteeniana My Diamond Is Too Rough con un bel solo di chitarra nel finale, Radio, ballata che si perde nei percorsi più bui dell'esistenza e procede con il tipico passo younghiano, l'esuberanza alla Ryan Adams e gli accenti sudisti con un sussulto honk tonk nel mezzo. L' infanzia da piccolo nomade ritorna spesso nei temi dei testi: il viaggio come fuga salvifica (Island In The Sky), e della speranza, come quello dei due innamorati protagonisti del veloce assalto a tutta slide su ritmi mariachi della contagiosa Adventures Of You and Me.
Fear And Saturday Night è un passo indietro a livello musicale, un ritorno all'esordio, e due avanti a livello umano, un ostacolo in meno sulla sua strada. Risultato: il miglior album dopo Mescalito (2007).
vedi anche
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorrowland (2012)
RECENSIONE: RYAN BINGHAM & THE DEAD HORSE live @ Sarnico (BG), 19 Giugno 2011
RECENSIONE: THOM CHACON-Thom Chacon (2013)
RECENSIONE: WILLIE NILE- If I Was A River (2014)
C'è un uomo con un cappello texano calato in testa che gira per le montagne della California, ha la barba sfatta, jeans lisi e alza polvere con gli stivali quando cammina, è lì da alcuni giorni, porta sempre con sé una chitarra, la suona appena può, in qualunque angolo si trovi. Le ragazze del primo paese vicino se ne sono già innamorate, il fascino da bello e dannato funziona anche ad alta quota. A tarda sera si ritira dentro alla sua roulotte: ha poche cose con sé, da lontano si vede una fioca luce di candela accesa fino a tardi, a notte fonda si sente una voce roca accompagnata da accordi di chitarra. Si dice in giro che sia uno importante, un musicista, uno che ha vinto addirittura un Oscar. Qualcuno ci crede. Allora, perché è solo? Perché la sua faccia si lascia andare poche volte ad un sorriso quando incrocia qualcuno del posto? Sembra pensieroso. Ryan Bingham costruisce così il quinto album in carriera, il più amaro e personale, ci aggiungo il più completo in generale. In totale solitudine, rimuginando su quelle ferite che spezzano il cuore ma che, come indelebili tatuaggi, rimarranno per sempre: le riflessioni su un figlio mai nato (o meglio non ancora nato) nella ballata folk con armonica Broken Heart Tattoo. Infanzia e vita difficili le sue. I genitori morti giovani e in circostanze drammatiche (il padre suicida, la madre alcolista), una vita tutta da costruire contando solo sulle proprie forze. Ma quello che la vita ha tolto, la musica ha ridato. Lui ha raccolto e continua a seminare bene. Dopo un disco "arrabbiato" (Tomorrowland), nato come risposta istintiva a quelle perdite - a cui si aggiunge la separazione dalla prima band The Dead Horse - e per certi aspetti deviante nella forma musicale tanto da far storcere il naso a molti fan della prima ora (disco da rivalutare assolutamente) ritorna, adesso, a calpestare le strade del primo Mescalito, un debutto che rasentò la perfezione, innalzandolo a nuovo eroe border rock Americana.
Fear And Saturday Night cresce nel profondo dell'anima, si nutre di dolore ma guarda fieramente avanti, e tutto esce bene dal testo del blues elettrico "Bo Diddley Beat" Hands Of Time. Se Tomorrowland era un grido istintivo e rumoroso, questo è l'analisi riflessiva nata in completa solitudine: "non temo niente tranne me stesso" canta nella title track. Si apre con un country rock dai ritmi pigri (Nobody Knows My Trouble), autobiografica panacea scaccia crisi e prosegue tra blues crudi (Top Shelf Drug) con chitarre toste e tese (Daniel Sproul e Jedd Hughes) con l'hammond di contrappunto (Chris Joyner) e country/folk elettro-acustici, polverosi, desertici e sornioni: la finale Gun Fightin Man, la cupa e dal passo lento Fear And Saturday Night, le pennellate romantiche di Snow Falls In June e della crepuscolare Darlin, la notturna e springsteeniana My Diamond Is Too Rough con un bel solo di chitarra nel finale, Radio, ballata che si perde nei percorsi più bui dell'esistenza e procede con il tipico passo younghiano, l'esuberanza alla Ryan Adams e gli accenti sudisti con un sussulto honk tonk nel mezzo. L' infanzia da piccolo nomade ritorna spesso nei temi dei testi: il viaggio come fuga salvifica (Island In The Sky), e della speranza, come quello dei due innamorati protagonisti del veloce assalto a tutta slide su ritmi mariachi della contagiosa Adventures Of You and Me.
Fear And Saturday Night è un passo indietro a livello musicale, un ritorno all'esordio, e due avanti a livello umano, un ostacolo in meno sulla sua strada. Risultato: il miglior album dopo Mescalito (2007).
vedi anche
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorrowland (2012)
RECENSIONE: RYAN BINGHAM & THE DEAD HORSE live @ Sarnico (BG), 19 Giugno 2011
RECENSIONE: THOM CHACON-Thom Chacon (2013)
RECENSIONE: WILLIE NILE- If I Was A River (2014)
domenica 18 gennaio 2015
ANDY WHITE live @ Birrificio Sant'Andrea, Vercelli, 16 Gennaio 2015
ANDY WHITE
live@Birrificio Sant’Andrea, Vercelli, 16/01/2015
Cosa puoi dire a un uomo di 52 anni che sta girando l’Europa solo, trascinandosi dietro, con tanto amore, una custodia di chitarra e un trolley, con appiccicati al volto l’entusiasmo contagioso di un ragazzino che deve ancora scoprire tanto e l’esperienza di chi invece ne ha viste di più? Attacca il concerto con quella Religious Persuasion che dipinge perfettamente il quadro traballante attaccato al chiodo arrugginito delle religioni, del terrorismo, dell’Irlanda anni settanta, della sua Belfast di metà anni ‘80, racchiudendo perfettamente tutto il suo passato musicale, costruito sulle stesse parole pungenti di Dylan al Village, sulla poesia di Van Morrison, sull’attitudine alla Waterboys . ANDY WHITE agli esordi combatteva in prima linea.
Ma essere in prima linea anche con il cuore non è da tutti. E’ dei puri. Ora le linee sono più dolci e un po’ amare. Arriva così a raccontare la sua vita in modo poetico, disincantato e divertito: l’Australia, sua attuale casa, l’amore per l’Italia (Italian Girls On Mopeds), per la poesia (Looking For James Joyce’s Grave), la vita. L’ultimo disco How Things Are (l’undicesimo) è nato dopo una rottura sentimentale che lo ha segnato profondamente: registrato ancora una volta in solitaria insieme al figlio Sebastian (alla batteria), sembra trasmettere la giusta positività, non togliendo un grammo al peso specifico della parola AMORE, rafforzandola, traducendo in musica quell’entusiasmo che domani lo porterà verso un’altra città e conoscere nuova gente. Ho sempre nutrito una simpatia a pelle per White. Non sbagliavo e ne sono estremamente contento. Posso dire: THANX ANDY, mentre lui pensa se è già passato da Biella. Non credo, ma il giramondo sei tu. Potresti aver ragione. (Ha ragione).
live@Birrificio Sant’Andrea, Vercelli, 16/01/2015
Cosa puoi dire a un uomo di 52 anni che sta girando l’Europa solo, trascinandosi dietro, con tanto amore, una custodia di chitarra e un trolley, con appiccicati al volto l’entusiasmo contagioso di un ragazzino che deve ancora scoprire tanto e l’esperienza di chi invece ne ha viste di più? Attacca il concerto con quella Religious Persuasion che dipinge perfettamente il quadro traballante attaccato al chiodo arrugginito delle religioni, del terrorismo, dell’Irlanda anni settanta, della sua Belfast di metà anni ‘80, racchiudendo perfettamente tutto il suo passato musicale, costruito sulle stesse parole pungenti di Dylan al Village, sulla poesia di Van Morrison, sull’attitudine alla Waterboys . ANDY WHITE agli esordi combatteva in prima linea.
Ma essere in prima linea anche con il cuore non è da tutti. E’ dei puri. Ora le linee sono più dolci e un po’ amare. Arriva così a raccontare la sua vita in modo poetico, disincantato e divertito: l’Australia, sua attuale casa, l’amore per l’Italia (Italian Girls On Mopeds), per la poesia (Looking For James Joyce’s Grave), la vita. L’ultimo disco How Things Are (l’undicesimo) è nato dopo una rottura sentimentale che lo ha segnato profondamente: registrato ancora una volta in solitaria insieme al figlio Sebastian (alla batteria), sembra trasmettere la giusta positività, non togliendo un grammo al peso specifico della parola AMORE, rafforzandola, traducendo in musica quell’entusiasmo che domani lo porterà verso un’altra città e conoscere nuova gente. Ho sempre nutrito una simpatia a pelle per White. Non sbagliavo e ne sono estremamente contento. Posso dire: THANX ANDY, mentre lui pensa se è già passato da Biella. Non credo, ma il giramondo sei tu. Potresti aver ragione. (Ha ragione).
giovedì 15 gennaio 2015
LUKE WINSLOW-KING live @ Teatro Duse, Besozzo (Va), 14 Gennaio 2015
RECENSIONE: LUKE WINSLOW-KING Everlasting Arms (Bloodshot Records/IRD, 2014)
Poi ci sono dischi che lasci per ultimi. In fondo alla pila, quella più alta, quella lì in fondo a sinistra, sotto a tutti gli altri. Sono ridotto così. Immancabilmente sai che diventeranno i primi della fila, superando nomi blasonati e uscite strombazzate ma poi trombate. Il motivo per cui rimangono ultimi? E' un affascinante mistero a cui non voglio dare mai risposte concrete, o più semplicemente non lo so? Everlasting Arms è un disco da mettere in vetrina. Luke Winslow-King ha raggiunto con il quarto album in carriera una scrittura da vecchio e maturo veterano. Tutto suona antico nella sua musica, ma tutto è fatto dannatamente bene e proiettato nel suo presente: la sua voce a tratti gentile e accomodante, a cui forse manca quella spigolatura in grado di lasciare il pungente graffio (ma sono dettagli trascurabili), una slide, suonata anche dall'amico italiano Roberto Luti, che imperversa da cima a fondo, la voce della moglie Ester Rose lo accompagna ai cori, i profumi sono quelli di legno tarlato e brillantina per capelli, di erba appena falciata e di fienili accanto casa, di sale da ballo affollate il sabato sera con i vecchi nonni d'America impegnati in sfrenati balli prolungati fin dopo mezzanotte per far concorrenza ai più giovani... (Continua a leggere qui)
Poi ci sono dischi che lasci per ultimi. In fondo alla pila, quella più alta, quella lì in fondo a sinistra, sotto a tutti gli altri. Sono ridotto così. Immancabilmente sai che diventeranno i primi della fila, superando nomi blasonati e uscite strombazzate ma poi trombate. Il motivo per cui rimangono ultimi? E' un affascinante mistero a cui non voglio dare mai risposte concrete, o più semplicemente non lo so? Everlasting Arms è un disco da mettere in vetrina. Luke Winslow-King ha raggiunto con il quarto album in carriera una scrittura da vecchio e maturo veterano. Tutto suona antico nella sua musica, ma tutto è fatto dannatamente bene e proiettato nel suo presente: la sua voce a tratti gentile e accomodante, a cui forse manca quella spigolatura in grado di lasciare il pungente graffio (ma sono dettagli trascurabili), una slide, suonata anche dall'amico italiano Roberto Luti, che imperversa da cima a fondo, la voce della moglie Ester Rose lo accompagna ai cori, i profumi sono quelli di legno tarlato e brillantina per capelli, di erba appena falciata e di fienili accanto casa, di sale da ballo affollate il sabato sera con i vecchi nonni d'America impegnati in sfrenati balli prolungati fin dopo mezzanotte per far concorrenza ai più giovani... (Continua a leggere qui)
lunedì 12 gennaio 2015
RECENSIONE: STEFANO GALLI (Focus)
STEFANO GALLI Focus (autoproduzione, 2014)
Stefano Galli fa nuovamente centro. E' passato un solo anno dal debutto Play It Loud!, ma l'esigenza di rimettersi in gioco era tanta e l'assenza di quel "band" dopo il nome presumo voglia testimoniare solamente quanto "di suo" ha riversato in queste personali dieci canzoni. La formazione infatti è la stessa del debutto: Roberto Aiolfi al basso, Marco Sacchitella alla batteria e Francesco Chebat alle tastiere. Un lavoro apparentemente più omogeneo sulla carta e nei credits, una sola cover (il classico soul Bring It On Home To Me di Sam Cooke) ma ancora con la varietà musicale che lo contraddistinse un solo anno fa. Registrato in quattro diverse e suggestive location, catturando il suono vero e diretto all'interno di mura e soffitti differenti: la ex Chiesa di Santo Spirito e il Teatro Circolo Fratellanza di Casnigo, le Officine meccaniche P.D.F. di Bergamo e la sua, meno suggestiva-penso-ma accomodante casa e in parte mixato a New York da Marc Ursilli (Lou Reed, Faith No More), Focus è un disco piacevolissimo dalla prima all'ultimissima nota, dove la chitarra è sempre ben presente senza invadere troppo la struttura generale delle canzoni, testimonianza della sua buona penna compositiva. Gli eleganti ricami chitarristici alla J.J.Cale/Eric Clapton (o Mark Knopfler se siete arrivati dopo) di Lonely Day, il tiro hard blues dell'iniziale Jealous giocata bene sulle tastiere '70 di Francesco Chebat, l'arpeggio lieve dell'attestato d'amore che esce da If I Lived (con la voce della piccola figlia nel finale) e da Catherine, la corsa strumentale del blues Funny Slide, il funk di Price, la divertita I Can't Stand You Anymore, la jazzata Vesta Light. Tutte a mettere ulteriormente in mostra l'ecclettismo musicale di Galli. Due dischi: due centri su due. Ottima mira.
vedi anche
RECENSIONE: STEFANO GALLI BAND-Play It Loud (2013)
LA MIA PLAYLIST DISCHI ITALIANI 2014
Stefano Galli fa nuovamente centro. E' passato un solo anno dal debutto Play It Loud!, ma l'esigenza di rimettersi in gioco era tanta e l'assenza di quel "band" dopo il nome presumo voglia testimoniare solamente quanto "di suo" ha riversato in queste personali dieci canzoni. La formazione infatti è la stessa del debutto: Roberto Aiolfi al basso, Marco Sacchitella alla batteria e Francesco Chebat alle tastiere. Un lavoro apparentemente più omogeneo sulla carta e nei credits, una sola cover (il classico soul Bring It On Home To Me di Sam Cooke) ma ancora con la varietà musicale che lo contraddistinse un solo anno fa. Registrato in quattro diverse e suggestive location, catturando il suono vero e diretto all'interno di mura e soffitti differenti: la ex Chiesa di Santo Spirito e il Teatro Circolo Fratellanza di Casnigo, le Officine meccaniche P.D.F. di Bergamo e la sua, meno suggestiva-penso-ma accomodante casa e in parte mixato a New York da Marc Ursilli (Lou Reed, Faith No More), Focus è un disco piacevolissimo dalla prima all'ultimissima nota, dove la chitarra è sempre ben presente senza invadere troppo la struttura generale delle canzoni, testimonianza della sua buona penna compositiva. Gli eleganti ricami chitarristici alla J.J.Cale/Eric Clapton (o Mark Knopfler se siete arrivati dopo) di Lonely Day, il tiro hard blues dell'iniziale Jealous giocata bene sulle tastiere '70 di Francesco Chebat, l'arpeggio lieve dell'attestato d'amore che esce da If I Lived (con la voce della piccola figlia nel finale) e da Catherine, la corsa strumentale del blues Funny Slide, il funk di Price, la divertita I Can't Stand You Anymore, la jazzata Vesta Light. Tutte a mettere ulteriormente in mostra l'ecclettismo musicale di Galli. Due dischi: due centri su due. Ottima mira.
vedi anche
RECENSIONE: STEFANO GALLI BAND-Play It Loud (2013)
LA MIA PLAYLIST DISCHI ITALIANI 2014
martedì 6 gennaio 2015
RECENSIONE: LUKE WINSLOW-KING (Everlasting Arms)
LUKE WINSLOW-KING Everlasting Arms (Bloodshot Records/IRD, 2014)
Poi ci sono dischi che lasci per ultimi. In fondo alla pila, quella più alta, quella lì in fondo a sinistra, sotto a tutti gli altri. Sono ridotto così. Immancabilmente sai che diventeranno i primi della fila, superando nomi blasonati e uscite strombazzate ma poi trombate. Il motivo per cui rimangono ultimi? E' un affascinante mistero a cui non voglio dare mai risposte concrete, o più semplicemente non lo so? Everlasting Arms è un disco da mettere in vetrina. Luke Winslow-King ha raggiunto con il quarto album in carriera una scrittura da vecchio e maturo veterano. Tutto suona antico nella sua musica, ma tutto è fatto dannatamente bene e proiettato nel suo presente: la sua voce a tratti gentile e accomodante, a cui forse manca quella spigolatura in grado di lasciare il pungente graffio (ma sono dettagli trascurabili), una slide, suonata anche dall'amico italiano Roberto Luti, che imperversa da cima a fondo, la voce della moglie Ester Rose lo accompagna ai cori, i profumi sono quelli di legno tarlato e brillantina per capelli, di erba appena falciata e di fienili accanto casa, di sale da ballo affollate il sabato sera con i vecchi nonni d'America impegnati in sfrenati balli prolungati fin dopo mezzanotte per far concorrenza ai più giovani.
Nativo del Michigan, ma figlio adottivo di New Orleans, città incontrata per puro caso in gioventù ma che lo ha conquistato definitivamente e svezzato musicalmente. Da lì non si è più mosso: ha iniziato a studiare arte e musica, spostandosi spesso anche in Europa, ma nella città del jazz c'è rimasto a vivere, ne ha carpito tutti i segreti, l'ha vissuta sulla propria pelle suonando in tutti gli angoli possibili. Nella sua musica convivono gli umori del sud, riaffiorano vecchi suoni ante guerra, antichi ragtime, dixieland (Levee Man), blues del delta (The Crystal Water Springs) e blues rutilanti dal tiro rock'n'roll (Swing That Thing), country (Wanton Way Of Loving), vecchi canti creoli di protesta riaffiorati da antichi libri e poi musicati (Bega's Carousell). Un ricercatore che riporta a galla il recente passato, lo restaura e ce lo offre su quel piatto dove il vinile sa ancora girare senza fretta. Un disco senza tempo come tutti quelli che dimentico colpevolmente in fondo alla pila. Chissà cosa altro c'è?
vedi anche: live @ Teatro Duse, Besozzo (VA), 14 Gennaio 2015
LA CLASSIFICA DEI LETTORI E LA MIA PLAYLIST: DISCHI 2014
RECENSIONE: WILLIE NILE-If I Was A River (2014)
Poi ci sono dischi che lasci per ultimi. In fondo alla pila, quella più alta, quella lì in fondo a sinistra, sotto a tutti gli altri. Sono ridotto così. Immancabilmente sai che diventeranno i primi della fila, superando nomi blasonati e uscite strombazzate ma poi trombate. Il motivo per cui rimangono ultimi? E' un affascinante mistero a cui non voglio dare mai risposte concrete, o più semplicemente non lo so? Everlasting Arms è un disco da mettere in vetrina. Luke Winslow-King ha raggiunto con il quarto album in carriera una scrittura da vecchio e maturo veterano. Tutto suona antico nella sua musica, ma tutto è fatto dannatamente bene e proiettato nel suo presente: la sua voce a tratti gentile e accomodante, a cui forse manca quella spigolatura in grado di lasciare il pungente graffio (ma sono dettagli trascurabili), una slide, suonata anche dall'amico italiano Roberto Luti, che imperversa da cima a fondo, la voce della moglie Ester Rose lo accompagna ai cori, i profumi sono quelli di legno tarlato e brillantina per capelli, di erba appena falciata e di fienili accanto casa, di sale da ballo affollate il sabato sera con i vecchi nonni d'America impegnati in sfrenati balli prolungati fin dopo mezzanotte per far concorrenza ai più giovani.
Nativo del Michigan, ma figlio adottivo di New Orleans, città incontrata per puro caso in gioventù ma che lo ha conquistato definitivamente e svezzato musicalmente. Da lì non si è più mosso: ha iniziato a studiare arte e musica, spostandosi spesso anche in Europa, ma nella città del jazz c'è rimasto a vivere, ne ha carpito tutti i segreti, l'ha vissuta sulla propria pelle suonando in tutti gli angoli possibili. Nella sua musica convivono gli umori del sud, riaffiorano vecchi suoni ante guerra, antichi ragtime, dixieland (Levee Man), blues del delta (The Crystal Water Springs) e blues rutilanti dal tiro rock'n'roll (Swing That Thing), country (Wanton Way Of Loving), vecchi canti creoli di protesta riaffiorati da antichi libri e poi musicati (Bega's Carousell). Un ricercatore che riporta a galla il recente passato, lo restaura e ce lo offre su quel piatto dove il vinile sa ancora girare senza fretta. Un disco senza tempo come tutti quelli che dimentico colpevolmente in fondo alla pila. Chissà cosa altro c'è?
vedi anche: live @ Teatro Duse, Besozzo (VA), 14 Gennaio 2015
LA CLASSIFICA DEI LETTORI E LA MIA PLAYLIST: DISCHI 2014
RECENSIONE: WILLIE NILE-If I Was A River (2014)
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