THE WHITE BUFFALO Love And The Death Of Damnation (Unison Music/Earache Records, 2015)
Dietro al nome White Buffalo continua a nascondersi Jake Smith, un omone grande e grosso, un po’ Warren Haynes, un po’ il grande Lebowski, che qualcuno di voi avrà conosciuto attraverso la serie tv Sons Of Anarchy. LOVE AND THE DEATH OF DAMNATION è il suo quarto disco. Anche se non è propriamente un concept album come il precedente e ambizioso Shadows, Greys, and Evil Ways uscito nel 2013, le canzoni che lo compongono, pur vivendo tutte di vita propria, sembrano ancora una volta seguire un percorso narrativo ben preciso dove i personaggi protagonisti lottano contro la diabolica oscurità che gravita intorno alle loro strade, ma non tutti riescono ad arrivare all’agognato traguardo dove, ai bordi dei marciapiedi meno battuti, nuove luci irradiano chiarezza sull’esistenza. Buio mimetizzato negli accadimenti di tutti i giorni (‘Dark Days’, ‘Modern Times’ accompagnata da un divertente video), nelle disperata ricerca di fede e redenzione (‘Where Is Your Saviour’), nei complicati meccanismi delle relazioni umane: nei rapporti d’amore (‘Go The Distance’, ‘I Got You’ cantata in coppia con Audra Mae), tra genitori e figli, tra uomini in perenne conflitto e prevaricazione.
"Musicalmente e liricamente, questo è l'album più diversificato che abbia mai fatto. Amore, morte, luce e oscurità. Vi farà ridere e vi farà piangere. Un concentrato di emozioni." Racconta Jake Smith a PopMatters.com
Un concentrato di alta drammaticità serpeggiante dentro ai repentini e sbuffanti attacchi cow/rock (‘Rocky’) ben sostenuti dalla sezione ritmica (Matt Lynott alla batteria, Bruce Witkin al basso), alle eteree ballate pianistiche (‘Radio With No Sound’), alle trombe mariachi che colorano gli spietati confini geografici delle terre del sud in ‘Chico’, allo strepitoso gospel/soul condotto dall’hammond di Mike Thompson nella finale ‘Come On Love, Come On In’ e al traditional folk americano (‘Home Is In Your Arms’) che si fa anche scuro e tenebroso come un abito da giorno del giudizio in ‘Last Call To Heaven’, dove a ergersi protagonista è ancora una volta la sua inconfondibile voce. Ricca, profonda, intensa e sincera come la parte nascosta di quell’ America raccontata in queste nuove undici canzoni.
vedi anche
RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Once Upon The Time In The West (2012)
RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (2015)
RECENSIONE: BUDDY GUY-Born To Play Guitar (2015)
RECENSIONE: LANCE CANALES-The Blessings And The Curse (2015)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
venerdì 28 agosto 2015
martedì 25 agosto 2015
RECENSIONE: BUDDY GUY (Born To Play Guitar)
BUDDY GUY Born To Play Guitar (RCA Records, 2015)
Quando Muddy Waters era sul letto di morte, quasi sconfitto dalla malattia, sembra che Buddy Guy lo chiamò informandolo che sarebbe corso al suo capezzale. Waters rispose senza esitare: ”non venire qui, è tutto a posto, l’importante è che tu tenga in vita il blues”. Il ragazzo lo ha preso in parola e oggi, che anche il maestro B.B.King non c’è più da un paio di mesi, a 79 anni è rimasto uno degli ultimi esponenti puri e originali di una schiera di musicisti pazzesca e irripetibile. A Waters dedica la chiusura del disco con l’esplicita ‘Come Back Muddy’, a King una straordinaria ‘Flesh & Bone’ con un lusso come Van Morrison alla voce, a se stesso e alla musica tutta la celebrativa title track. Dopo tanti anni, una buona fetta di blues è tutta qui, racchiusa in tre canzoni. Prodotto e scritto insieme a Tom Hambridge, BORN TO PLAY GUITAR si presenta più snello e scorrevole rispetto al precedente pur buono ma lungo e ambizioso RHYTM & BLUES. Meno ospiti ma di peso: Billy Gibbons (ZZ TOP) su ‘Wear You Out’, Joss Stone in ‘(Baby) You Got What It Takes’ e Kim Wilson dei The Fabulous Thunderbirds in un paio di pezzi. Il 30 Luglio, Buddy Guy ha compiuto gli anni-AUGURI!- ma il regalo più grande lo ha fatto a noi. Il blues continua a scorrere liscio nelle sue vene. Tra le uscite imperdibili dell'anno.
Quando Muddy Waters era sul letto di morte, quasi sconfitto dalla malattia, sembra che Buddy Guy lo chiamò informandolo che sarebbe corso al suo capezzale. Waters rispose senza esitare: ”non venire qui, è tutto a posto, l’importante è che tu tenga in vita il blues”. Il ragazzo lo ha preso in parola e oggi, che anche il maestro B.B.King non c’è più da un paio di mesi, a 79 anni è rimasto uno degli ultimi esponenti puri e originali di una schiera di musicisti pazzesca e irripetibile. A Waters dedica la chiusura del disco con l’esplicita ‘Come Back Muddy’, a King una straordinaria ‘Flesh & Bone’ con un lusso come Van Morrison alla voce, a se stesso e alla musica tutta la celebrativa title track. Dopo tanti anni, una buona fetta di blues è tutta qui, racchiusa in tre canzoni. Prodotto e scritto insieme a Tom Hambridge, BORN TO PLAY GUITAR si presenta più snello e scorrevole rispetto al precedente pur buono ma lungo e ambizioso RHYTM & BLUES. Meno ospiti ma di peso: Billy Gibbons (ZZ TOP) su ‘Wear You Out’, Joss Stone in ‘(Baby) You Got What It Takes’ e Kim Wilson dei The Fabulous Thunderbirds in un paio di pezzi. Il 30 Luglio, Buddy Guy ha compiuto gli anni-AUGURI!- ma il regalo più grande lo ha fatto a noi. Il blues continua a scorrere liscio nelle sue vene. Tra le uscite imperdibili dell'anno.
giovedì 20 agosto 2015
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 3: THE NOTTING HILLBILLIES (Missing...Presumed Having A Good Time)
THE NOTTING HILLBILLIES-Missing…Presumed Having a Good Time (1990)
Quattro musicisti inglesi giocano a fare i cowboys, divertendosi e divertendo. Un set ben preparato: vestiti, luci, fondali con saloon in evidenza e chitarre dobro protagoniste. Traditionals country/blues e qualche originale con la chitarra di Mark Knopfler che inizia lentamente il distacco dalle grandi arene rock, ormai frequentate con i Dire Straits, per prepararsi all’imminente carriera solista alla ricerca della sua musica, tra folk, blues e country (bello anche ‘Neck And Neck’ in coppia con Chet Atkins che uscì sempre nel ‘90) che culminerà con ‘Privateering’, ottimo doppio album di studio (il suo migliore? Sì il migliore), e con l’ultimo ‘Tracker’, un po’ sottotono (sì sottotono a mio avviso). Sono seduti nel saloon anche il fido Guy Fletcher, Steve Phillips e Brendar Croker . Un disco che penso di aver consumato, prima in cassetta rigorosamente registrata da chi all’epoca ritenevo “vecchio”, poi originale quando finalmente lo trovai in qualche angolino dell’usato. Nulla di veramente nuovo in questo atto unico, ma va tutto giù che è un piacere.
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #1: FRANCESCO DE GREGORI-Titanic
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #2: THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4
Quattro musicisti inglesi giocano a fare i cowboys, divertendosi e divertendo. Un set ben preparato: vestiti, luci, fondali con saloon in evidenza e chitarre dobro protagoniste. Traditionals country/blues e qualche originale con la chitarra di Mark Knopfler che inizia lentamente il distacco dalle grandi arene rock, ormai frequentate con i Dire Straits, per prepararsi all’imminente carriera solista alla ricerca della sua musica, tra folk, blues e country (bello anche ‘Neck And Neck’ in coppia con Chet Atkins che uscì sempre nel ‘90) che culminerà con ‘Privateering’, ottimo doppio album di studio (il suo migliore? Sì il migliore), e con l’ultimo ‘Tracker’, un po’ sottotono (sì sottotono a mio avviso). Sono seduti nel saloon anche il fido Guy Fletcher, Steve Phillips e Brendar Croker . Un disco che penso di aver consumato, prima in cassetta rigorosamente registrata da chi all’epoca ritenevo “vecchio”, poi originale quando finalmente lo trovai in qualche angolino dell’usato. Nulla di veramente nuovo in questo atto unico, ma va tutto giù che è un piacere.
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #1: FRANCESCO DE GREGORI-Titanic
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #2: THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4
RECENSIONE:NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL (The Monsanto Years)
NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL
The Monsanto Years
(REPRISE RECORDS, 2015)
Canti di protesta
Se volete bene a Neil Young accetterete di buon grado anche questo nuovo disco, nato sì d’istinto, ma incentrato su tematiche care al canadese da più di quarant’anni, fin da quei versi “guarda Madre Natura in fuga” inclusi in After The Gold Rush del 1970, proseguite poi negli anni 80 con i concerti Farm Aid, messi in piedi con John Mellencamp e Willie Nelson in difesa degli agricoltori, e ribadite con forza anche durante l’ultimo tour con i Crazy Horse. L’attacco alla multinazionale agrochimica Monsanto, rea di mettere in commercio sementi OGM, è duro, liricamente ingenuo, ma non fa sconti. Anche se i dischi che ascolteremo fra un mese ritorneranno ad essere HARVEST, ON THE BEACH e RUST NEVER SLEEPS e questo sarà ricordato solamente quando dovremo riporlo al giusto posto all’interno della discografia, Neil Young merita, ancora una volta, totale rispetto. La prolificità di questi ultimi anni, anche nella sfera privata, non sempre è stata sinonimo di brillantezza artistica quanto invece di libertà e genuinità. Sulla scia dei suoi instant records più recenti, da LIVING WITH WAR che si scagliava contro la politica guerrafondaia di George W. Bush all’ambientalista FORK IN THE ROAD , THE MONSANTO YEARS colpisce duro musicalmente fin dai messaggi di speranza e amore dell’apertura A New Day For Love : “è un nuovo giorno per il pianeta , è un nuovo giorno per il sole”. Ok, poche novità: country garage/rock grezzo e puro fatto di chitarre, feedback infiniti (Big Box) e slogan travestiti da cori che sembrano già sentiti mille volte (People Want To Hear About Love), ma basta la libertà d’espressione e di movimento all’interno del music business (nella strafottente A Rock Star Bucks A Coffee Shop canta: “le madri vogliono sapere cosa mangiano i loro figli”) per fare dell’idealista Young e dei suoi dischi un esempio, ancora poco imitato, da seguire. La linea che lo divide dall’essere un predicatore rompipalle è spesso vicina, ma la forza del rock tiene tutto a debita distanza: linee e rompipalle veri (il miliardario Donald Trump l’ultimo della fila).
I figli di Willie Nelson, Lukas e Micah con i loro Promise Of The Real, accompagnano l’amico di papà come farebbero dei giovani cavalli pazzi alle prime armi con qualche pausa per tirare il fiato come nella sbilenca ballata country Wolf Moon che si riallaccia ad HARVEST MOON. Se volete bene a Neil Young già sapete che a parlare, nei suoi dischi, non è la voce dell’artista ma quella dell’uomo. E questo fa spesso la differenza quando la qualità non è più quella dei tempi migliori. Enzo Curelli 7 da Classic Rock #33 (Agosto 2015)
vedi anche
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, 21 Luglio 2014
The Monsanto Years
(REPRISE RECORDS, 2015)
Canti di protesta
Se volete bene a Neil Young accetterete di buon grado anche questo nuovo disco, nato sì d’istinto, ma incentrato su tematiche care al canadese da più di quarant’anni, fin da quei versi “guarda Madre Natura in fuga” inclusi in After The Gold Rush del 1970, proseguite poi negli anni 80 con i concerti Farm Aid, messi in piedi con John Mellencamp e Willie Nelson in difesa degli agricoltori, e ribadite con forza anche durante l’ultimo tour con i Crazy Horse. L’attacco alla multinazionale agrochimica Monsanto, rea di mettere in commercio sementi OGM, è duro, liricamente ingenuo, ma non fa sconti. Anche se i dischi che ascolteremo fra un mese ritorneranno ad essere HARVEST, ON THE BEACH e RUST NEVER SLEEPS e questo sarà ricordato solamente quando dovremo riporlo al giusto posto all’interno della discografia, Neil Young merita, ancora una volta, totale rispetto. La prolificità di questi ultimi anni, anche nella sfera privata, non sempre è stata sinonimo di brillantezza artistica quanto invece di libertà e genuinità. Sulla scia dei suoi instant records più recenti, da LIVING WITH WAR che si scagliava contro la politica guerrafondaia di George W. Bush all’ambientalista FORK IN THE ROAD , THE MONSANTO YEARS colpisce duro musicalmente fin dai messaggi di speranza e amore dell’apertura A New Day For Love : “è un nuovo giorno per il pianeta , è un nuovo giorno per il sole”. Ok, poche novità: country garage/rock grezzo e puro fatto di chitarre, feedback infiniti (Big Box) e slogan travestiti da cori che sembrano già sentiti mille volte (People Want To Hear About Love), ma basta la libertà d’espressione e di movimento all’interno del music business (nella strafottente A Rock Star Bucks A Coffee Shop canta: “le madri vogliono sapere cosa mangiano i loro figli”) per fare dell’idealista Young e dei suoi dischi un esempio, ancora poco imitato, da seguire. La linea che lo divide dall’essere un predicatore rompipalle è spesso vicina, ma la forza del rock tiene tutto a debita distanza: linee e rompipalle veri (il miliardario Donald Trump l’ultimo della fila).
I figli di Willie Nelson, Lukas e Micah con i loro Promise Of The Real, accompagnano l’amico di papà come farebbero dei giovani cavalli pazzi alle prime armi con qualche pausa per tirare il fiato come nella sbilenca ballata country Wolf Moon che si riallaccia ad HARVEST MOON. Se volete bene a Neil Young già sapete che a parlare, nei suoi dischi, non è la voce dell’artista ma quella dell’uomo. E questo fa spesso la differenza quando la qualità non è più quella dei tempi migliori. Enzo Curelli 7 da Classic Rock #33 (Agosto 2015)
vedi anche
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, 21 Luglio 2014
giovedì 13 agosto 2015
RECENSIONE: LANCE CANALES (The Blessing And The Curse)
LANCE CANALES The Blessing And The Curse (Music Road Records/IRD, 2015)
28 Gennaio 1948, un aereo cadde a Los Gatos Canyon: morirono quattro americani, i membri dell'equipaggio, che vennero tutti identificati immediatamente e ventotto braccianti messicani; di loro, invece, mai nessuno seppe nomi e cognomi, vennero segnalati solamente come deportati. Caso chiuso. Woody Guthrie ci scrisse una poesia, 'Plane Wreck At Los Gatos' , musicata in seguito da Martin Hoffman e conosciuta anche come 'The Deportee Song' , riproposta negli anni da numerosi cantautori americani, da Bob Dylan a Bruce Springsteen. Solamente nel 2010, lo scrittore messicano Tim Z. Hernandez, al lavoro per un libro, iniziò ad interessarsi della vicenda, arrivando, dopo lunghe ricerche, a capo del mistero riportando in superficie i nomi di tutti e ventotto i contadini periti nell'incidente che, finalmente, ebbero una lapide degna di tale nome. Lo stesso scrittore Tim Z.Hernandez recita l'elenco dei loro nomi mentre Lance Canales ricanta e suona quella canzone.
E basterebbe partire da questa versione di 'Deportee' di Woody Guthrie ( inizialmente uscita come singolo nel 2013) per capire chi è il songwriter californiano, originario di Fresno. Un disco intenso che sette canzoni prima parte cavalcando: 'California Or Bust' galoppa a ritmo di slide selvaggia mentre poco dopo 'Cold Dark Hole', un blues nero come la pece, ci presenta la voce scura e profonda di Canales, un po' Leonard Cohen, un po' Tom Waits e un po' quello che gli estimatori di Mark Lanegan vorrebbero sentire ancora dal loro idolo. Non cercatelo altrove quindi, lo troverete qua.
Un disco fatto di tante chitarre acustiche ora pigre e sonnacchiose (la bella 'Death Got No Mercy' in duetto con Eliza Gilkyson, la dolente 'Sing No More'), con qualche impennata elettrica frizzante e decisa; ballate tese, costruite su storie vissute in prima persona tra il duro lavoro nei campi di frutta e verdura a San Joaquin Valley ('Farmer') e le strade che portano verso tutti i confini, geografici ed umani, senza risparmiare attacchi politici che solamente chi ha le mani sporche di terra può permettersi di fare con dignità. Un folk blues ('Weary Feet Blues') suonato alla vecchia e antica maniera, scarno e diretto e una voce vissuta, credibile, orgogliosa delle proprie umili radici come lo sono state quelle dei più grandi storyteller americani: difficile non riconoscere le stesse strade percorse da Guthrie, Townes Van Zandt, Steve Earle e Tom Russell. Prodotto da Jimmy LaFave e distribuito dalla stessa etichetta, la Music Roads, di proprietà del cantautore texano che quest'anno è uscito con il buon THE NIGHT TRIBE. Il disco può contare sulla partecipazione di numerosi ospiti: dallo stesso LaFave, a Ray Boneville, da Joel Rafael a Eliza Gilkyson.
In questo Agosto di giornate dominate dall'ozio e dedicate a piccoli e piacevoli traguardi di giornata, raggiunti comunque con estrema calma, una copertina anonima e volutamente vintage si è fatta strada tra i tanti ascolti messi da parte nei mesi precedenti.
Una volta c'erano i famosi dischi per l'estate: ebbene, quest'anno, il mio è THE BLESSING AND THE CURSE (in uscita il 28 Agosto). Da ascoltare...anche dopo ferragosto naturalmente.
vedi anche
RECENSIONE: ELIZA GILKYSON-The Nocturne Diaries (2014)
RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013)
RECENSIONE: THOM CHACON (2013)
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (2015)
28 Gennaio 1948, un aereo cadde a Los Gatos Canyon: morirono quattro americani, i membri dell'equipaggio, che vennero tutti identificati immediatamente e ventotto braccianti messicani; di loro, invece, mai nessuno seppe nomi e cognomi, vennero segnalati solamente come deportati. Caso chiuso. Woody Guthrie ci scrisse una poesia, 'Plane Wreck At Los Gatos' , musicata in seguito da Martin Hoffman e conosciuta anche come 'The Deportee Song' , riproposta negli anni da numerosi cantautori americani, da Bob Dylan a Bruce Springsteen. Solamente nel 2010, lo scrittore messicano Tim Z. Hernandez, al lavoro per un libro, iniziò ad interessarsi della vicenda, arrivando, dopo lunghe ricerche, a capo del mistero riportando in superficie i nomi di tutti e ventotto i contadini periti nell'incidente che, finalmente, ebbero una lapide degna di tale nome. Lo stesso scrittore Tim Z.Hernandez recita l'elenco dei loro nomi mentre Lance Canales ricanta e suona quella canzone.
E basterebbe partire da questa versione di 'Deportee' di Woody Guthrie ( inizialmente uscita come singolo nel 2013) per capire chi è il songwriter californiano, originario di Fresno. Un disco intenso che sette canzoni prima parte cavalcando: 'California Or Bust' galoppa a ritmo di slide selvaggia mentre poco dopo 'Cold Dark Hole', un blues nero come la pece, ci presenta la voce scura e profonda di Canales, un po' Leonard Cohen, un po' Tom Waits e un po' quello che gli estimatori di Mark Lanegan vorrebbero sentire ancora dal loro idolo. Non cercatelo altrove quindi, lo troverete qua.
Un disco fatto di tante chitarre acustiche ora pigre e sonnacchiose (la bella 'Death Got No Mercy' in duetto con Eliza Gilkyson, la dolente 'Sing No More'), con qualche impennata elettrica frizzante e decisa; ballate tese, costruite su storie vissute in prima persona tra il duro lavoro nei campi di frutta e verdura a San Joaquin Valley ('Farmer') e le strade che portano verso tutti i confini, geografici ed umani, senza risparmiare attacchi politici che solamente chi ha le mani sporche di terra può permettersi di fare con dignità. Un folk blues ('Weary Feet Blues') suonato alla vecchia e antica maniera, scarno e diretto e una voce vissuta, credibile, orgogliosa delle proprie umili radici come lo sono state quelle dei più grandi storyteller americani: difficile non riconoscere le stesse strade percorse da Guthrie, Townes Van Zandt, Steve Earle e Tom Russell. Prodotto da Jimmy LaFave e distribuito dalla stessa etichetta, la Music Roads, di proprietà del cantautore texano che quest'anno è uscito con il buon THE NIGHT TRIBE. Il disco può contare sulla partecipazione di numerosi ospiti: dallo stesso LaFave, a Ray Boneville, da Joel Rafael a Eliza Gilkyson.
In questo Agosto di giornate dominate dall'ozio e dedicate a piccoli e piacevoli traguardi di giornata, raggiunti comunque con estrema calma, una copertina anonima e volutamente vintage si è fatta strada tra i tanti ascolti messi da parte nei mesi precedenti.
Una volta c'erano i famosi dischi per l'estate: ebbene, quest'anno, il mio è THE BLESSING AND THE CURSE (in uscita il 28 Agosto). Da ascoltare...anche dopo ferragosto naturalmente.
vedi anche
RECENSIONE: ELIZA GILKYSON-The Nocturne Diaries (2014)
RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013)
RECENSIONE: THOM CHACON (2013)
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (2015)
lunedì 10 agosto 2015
EDDA, SLICK STEVE & THE GANGSTERS, SEDDY MELLORY, PLAN DE FUGA live @ Clear Mountains Festival, Montichiari (BS) 7/8/9 Agosto 2015
venerdì 7 agosto 2015
RECENSIONE: JASON ISBELL (Something More Than Free)
Something More Than Free
(SOUTHEASTERN RECORDS, 2015)
Rinato per restare
L’aver militato come chitarrista e autore nei Drive-By Truckers per sei anni, i migliori del gruppo di Athens immediatamente seguenti all’ acclamato SOUTHERN ROCK OPERA del 2002, potrebbe garantirgli un posto nell’enciclopedia rock di questi vuoti anni duemila. Ma Jason Isbell ha sempre saputo mettersi in gioco con talento. Prima inventando i 400 Unit, poi da solo, scrivendo con il precedente SOUTHEASTERN una delle più toccanti pagine di autoanalisi lette negli ultimi tempi: un disco di country/folk, crudo ed essenziale che metteva in mostra dieci anni di cadute nelle tenebre degli abusi (alcolismo ma anche droghe) e la conseguente riabilitazione grazie a ricoveri e all’incontro salvifico con Amanda Shires, la donna diventata sua sposa e violinista, in risalto nel singolo 24 Frames. Questo secondo passo della rinascita è musicalmente più ambizioso, collettivo (il blues rock Palmetto Rose), e alleggerito nelle liriche: “è più celebrativo” come dice Isbell, e la futura paternità che sembra affrontata in Children Of Children ha influito nella stesura delle nuove undici canzoni, meno pungenti ma sempre di qualità. Enzo Curelli 7 da Classic Rock #33 (Agosto 2015)
martedì 4 agosto 2015
RECENSIONI: FRANCO GIORDANI (Incuintretimp) ME PEK E BARBA (Carta Canta)
FRANCO GIORDANI Incuintretimp (Block nota, 2015
ME PEK E BARBA Carta Canta (autoproduzione, 2015)
Non è un caso. INCUINTRETIMP di Franco Giordani e CANTA
CANTA dei Mé, Pék e Barba hanno tantissimi punti in comune. Sono due dischi,
usciti quest’anno, che viaggiano quasi a braccetto pur essendo completamente slegati
da qualsiasi logica di mercato che possa tentare di accomunarli: pensati,
costruiti e suonati da persone con la musica che batte nel cuore, gira nella
pancia ed esce dal cervello. Franco Giordani è un simpatico e talentuoso strumentista
friulano, lo conosco da qualche anno solamente via facebook ma questa è l’impressione-
sicuramente veritiera- con il folk che scorre nel sangue e con le scarpe ben
sporche della sua amata terra.
Franco Giordani (foto:Gabriele Moretti) |
In questo debutto solista ha messo tutto se stesso con
il prezioso aiuto di Luigi Maieron, poeta e cantautore carnico (cercate il suo
VINO TABACCO E CIELO del 2011) che lascia la firma su parecchi testi, sia in
dialetto (friulano e clautano) che in italiano (‘Gente Persa Per La Città’). E
poi c’è anche una piacevole parentesi inglese
con la finale rilettura di ‘The Old Triangle’ del drammaturgo e poeta irlandese
Brendan Behan.
I Mé, Pék e Barba, finalmente visti al recente Buscadero Day, sono una nutrita truppa
di sanguigni emiliani che ha lasciato un pezzetto di cuore in Irlanda, proprio come
fecero i primissimi vicini di casa MCR. Amano
scavare nel passato dei luoghi, delle persone, degli avvenimenti (per un classe
’73 come me, come non identificarsi in ‘Rossi Gol’?), amano far ballare (‘Niù
Folk’) e far pensare (‘Canto Barbaro’ ispirato da ‘Barbarico’ di G.L.Ferretti).
CARTA CANTA si spinge anche oltre: è un prezioso concept album con dodici
canzoni, anche qui dialetto e italiano si abbracciano, che traggono spunto da
altrettanti libri e autori. Partono da Trans Europa Express di Paolo Rumiz e arrivano
a Storia di Una Scatola Di sassi di Davide Persico. Strumenti della tradizione
(banjo, ghironda, flauto, violino) guidati dal capo banda Sandro Pezzarossa, con
la partecipazione di importanti ospiti
musicali tra cui spicca Marino Severini dei Gang che lascia la voce da bandito in ‘La Tigre D’Ogliastra’.Mé, Pék e Barba |
Infine, il legame che mi ha fatto accoppiare questi due dischi: Franco Giordani e i Me Pek e Barba sono buoni amici, si conoscono e hanno collaborato spesso insieme in passato, sia in studio che live. Non è un caso.
vedi anche:
RECENSIONE: ME PEK E BARBA-La Scatola Magica (2012)
RECENSIONE: LUIGI MAIERON-Vino, Tabacco e Cielo (2011)
lunedì 3 agosto 2015
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