sabato 25 maggio 2024

RECENSIONE: SLASH (Orgy Of The Damned)

 

SLASH  Orgy Of The Damned (Gibson Records, 2024)




tra le belle sorprese dell'anno

Sapere che un inedito Iggy Pop è qui alle prese con 'Awful Dreams' di Lightnin' Hopkins potrebbe bastare per dare un ascolto curioso a questo disco. Voce da crooner e chitarra i soli ingredienti. Dischi di cover blues ne è pieno il mondo: spesso inutili e di maniera, a volte divertenti, raramente indispensabili. Orgy Of Damned non è certamente indispensabile ma divertente secondo me lo è. Il taglio rock della chitarra di Slash contribuisce a dare quel tocco di diversità indispensabile per creare delle cover quantomeno singolari e ben riuscite. I puristi del blues grideranno allo scandalo. Ma chi se ne frega. La produzione di Mike Clink, l'uomo dietro a Appetite For Destruction è anche una garanzia.

E poi tutti gli altri ospiti che in qualche modo lasciano il loro segno: Chris Robinson sembra a suo agio con 'The Pusher' degli Steppenwolf che non sfigurerebbe in qualsiasi setlist dei Black Crowes, la chitarra di Gary Clark Jr. incrocia quella di Slash in mezzo al crocicchio presidiato da Robert Johnson (Crossroads) ed è un bel sentire, Billy Gibbons si intrufola in 'Hoochie Coochie Man' con la facilità con la quale pettina la sua barba ogni mattina, Crhis Stapleton in 'Oh Well' dei Fleetwood Mac è meglio di qualunque cosa abbia registrato nel suo ultimo disco. Brian Jhonson ora sa cosa fare quando smetterà di torturarsi l'ugola con gli Ac Dc ('Killing Floor' con l'armonica di Steve Tyler funziona), le quote rose sono assicurate da Dorothy ('Key to the Highway') ma soprattutto da una sorprendente e pop Demi Lovato in un classico che più classico non si può come 'Papa Was a Rolling Stone' e da una sempre rassicurante e grintosa Beth Hart in 'Stormy Monday'. Quattordici minuti totali per loro due.

Completano Tash Neal (presente in tutto il disco con la sua chitarra) in una quasi commovente 'Living For The City' di Stevie Wonder presa da quel capolavoro che fu Innervisions del 1973 ("quella era la traccia che sapevo sarebbe stata quella più insidiosa per la persona media, ma era la mia canzone preferita quando Innervisions uscì quando avevo circa 9 anni. Ho adorato quella canzone" ha detto recentemente Slash) e un impeccabile e di mestiete Paul Rodgers con 'Born Under a Bad Sign' di Albert King.

Un disco inseguito da più di trent'anni quando dopo lo scioglimento dei Guns N'Roses mise in piedi la band Slash's Blues Ball, dalla quale recupera i vecchi compagni Johnny Griparic al basso e Teddy Andreadis alle tastiere.

Un disco simile Slash lo aveva già fatto nel 2010 (Ian Astbury, Ozzy Osbourne, Lemmy, Iggy Pop, Chris Cornell, Dave Grohl tra i tanti cantanti presenti allora) ma con tutte canzoni inedite. Qui l'unica traccia inedita la lascia nel finale, la strumentale, melodica ed espressiva 'Metal Chestnut'. Prendetevi un buon cocktail e rilassatevi con queste dodici canzoni registrate senza troppe menate in una atmosfera sicuramente rilassata. Si percepisce. Funziona tutto. Poi arriveranno anche gli odiatori seriali ma li mettiamo insieme ai puristi del blues. 





sabato 18 maggio 2024

RECENSIONE: KULA SHAKER (Natural Magick)

KULA SHAKER  Natural Magick (Strange Folk Records, 2024)



il bello del 2024

Natural Magick è uno dei dischi più spassosi, divertenti e colorati che ho ascoltato in questi primi mesi del 2024. Il concerto all'Alcatraz di Milano del 13 Maggio si candida a concerto del 2024.

"Beh, quando penso al rock 'n' roll, penso ai fratelli Marx tanto quanto penso ai Kinks o a Jerry Lee Lewis. Penso che il rock 'n' roll sia uno stato d'animo. È un tipo di anarchia spirituale, sana ed eterna"  così Crispian Mills (voce, chitarra e maggior autore dei testi), recentemente, ha detto la sua sul pianeta musica che lui e la sua band circumnavigano da quel lontano 1996 quando uscì l'esordio K , perfettamente in orario per l'esplosione del brit pop di cui furono brillanti esponenti, certamente tra i più fantasiosi e poco etichettabili nel loro intento di creare ponti con l'Oriente come insegnato dai Beatles, e da George Harrison in particolare. Per tanti che li premiarono furono anche massacrati.

Due uscite in poco più di un anno per una formazione che ci aveva abituato a tempi lunghissimi tra un disco e il successivo sembrano parlare chiaro: la band di Londra sta vivendo un periodo di fertile ispirazione. Il ritorno in formazione del primo tastierista Jay Darlington li catapulta addirittura indietro di venticinque anni per riprendere in mano tutte le influenze assorbite fin dagli esordi (è il primo album con la formazione originaria dal 1998: con Mills e Darlington, il bassista Alonza Bevan e il batterista Paul Winter Hart): ci sono i Kinks già dal riff iniziale del rock 'Gaslighting' e delle successive 'Waves' e 'Natural Magick' (venuta in ispirazione dopo aver ascoltato i Can!), rock pop, semplici, trascinanti e d'impatto assicurato. Da 'Indian Record Player' iniziano ad affiorare in superficie le care influenze indiane di Mills che si amalgamano con rock'n'roll e spezie tex mex fino a confluire nella cavalcata western 'Chura Liya' cantata da Laboni Barua. Difficile annoiarsi di fronte alla psichedelia pop sixties disegnata dall'armonica e dalle percussioni in 'Something Dangerous', vietato non sognare di fronte alle ballate 'Stay With Me Tonight' e 'Give Me Tomorrow' dal forte aroma anni cinquanta tutto brillantina e neon colorati sullo sfondo, viaggiare di fantasia sotto l'accecante solarità di 'Kalifornia Blues', vietato non meditare davanti al sitar che chiama in causa Krishma nella psichedelica 'Happy Birthday', o non protestare su una 'F- Bombs', che pare quasi fuori contesto, un canto anti guerra purtroppo sempre d'attualità che esplode in ripetuti "fuck war" che dal vivo, ne sono sicuro, faranno faville.  Non il massimo dell'originalità ma sempre utile. Io per non sbagliarmi qualche settimana fa ho preso il biglietto per il loro concerto all'Alcatraz di Milano che si terrà tra circa un mese. Voglio toccare con mano questo loro ispirato e colorato ritorno.

"Il mondo ha bisogno del rock 'n' roll in questo momento", firmato Crispian Mills. Fosse anche con un "è solo" davanti, va bene ugualmente.





domenica 12 maggio 2024

RECENSIONE: ANDERS OSBORNE (Picasso's Villa)

 

ANDERS OSBORNE  Picasso's Villa (Missing Piece Records, 2024)



lo svedese di New Orleans

Durante il lockdown ci fu un "uso" alquanto superficiale e scorretto degli artisti e dei musicisti. Il loro compito sembrava fosse solo uno: far divertire la gente. Fare passare qualche minuto, qualche ora, diventati giorni e poi mesi in totale spensieratezza a chi (noi) come loro era chiuso in casa. Naturalmente senza compenso, dimenticando che tanti erano professionisti messi al palo, a paga zero, dall'epidemia. Per qualche politico un atto dovuto: l'arte come lavoro era ed è ancora qualcosa di inconcepibile per alcuni. La domanda: "sì ma di lavoro cosa fai?" non è così rara da sentire.

Nella canzone musicalmente spensierata e puntellata dall'Hammond  'Picasso's Villa' che da anche il titolo all' album, il diciasettesimo, Anders Osborne sembra proprio rivolgersi a tutte quelle persone che gravitano intorno all'arte con sprovveduta superficialità (lui è pure un pittore):

"Picasso's Villa tenta di descrivere il business della musica e il ruolo da giullare che hanno i musicisti. Siamo una valuta utilizzata, giudicata, negoziata, scambiata, valutata e talvolta scartata".

Se due anni fa Anders Osbourne si presentò al Buscadero Day in solitaria, era appena uscito lo stupendo  Orpheus And The Mermaids (2021), un disco acustico trainato dai venti leggeri della West Coast Music che continuavano a sbuffare dal precedente Buddha And The Blues (2019), con questo nuovo Picasso's Villa, invece, ritorna ad abbracciare l'intera rosa dei venti musicali che hanno scompigliato i suoi capelli, ora bianchi, negli anni. Abbiamo imparato a amare i suoi primi dischi più conosciuti come  Which Way To Here (1995) e  Living Room (1999), quelli più marcatamente intrisi degli umori di New Orleans come Coming Down (2007), le canzoni più cupe e scure come quelle che uscivano da American Patchwork (2010) e Black Eye Galaxy (2012) e cose più bizzarre e giocose come le canzoni di Peace (2013), sfrontato fin dalla copertina e che iniziava a lasciarsi indietro problemi personali che lo stavano attanagliando.

Anders Osbourne non ha mai fatto dischi brutti (forse i primi più ruspanti si fanno preferire ma sono sottigliezze) e Picasso' s Villa va ad aggiungersi ad una lista da fare invidia a nomi più blasonati che continuano a vivere di rendita.

Straordinaria voce, chitarrista eccelso , autore sopraffino, dotato di limpida ironia e della rara dote di  saper colorare i suoi pezzi con sfumature sempre sgargianti ma anche buon conoscitore dei tempi su cui mette i piedi ogni giorno: 'Bewildered' prende in esame gli accadimenti degli ultimi quarant'anni nelle terre americane (tra cronaca, musica e politica) che lo hanno adottato quando dalla Svezia andò a cercarsi la sua America, con un suono di chitarre elettriche che chiama in causa i Crazy Horse di Neil Young e non è un caso che in produzione e nei suoni ci siano uomini che con il canadese hanno intrecciato spesso il percorso, ossia Nico Bolas e Chad Cromwell.

Splendide canzoni, dal piglio elettro acustico che spesso richiamano e omaggiano New Orleans nelle liriche, luogo che lo ha accolto e dove ha piantato  le sue radici europee, succhiandone l'anima: l'apertura 'Dark Decatur Love', un country in crescendo che mi ha ricordato Johnny Cash, e la finale 'Le Grande Zombie', dedicata a un ambasciatore importante come Dr. John e portata avanti in una babilonia di strumenti (archi e fiato) e suoni che chiudono il disco con colorato carattere malinconico.

Proprio nella ormai "sua" New Orleans ha registrato il disco insieme a una bella parata di ospiti tra cui spiccano la chitarra di Waddy Wachtel, il bassista Bob Glaub, l'armonica di Johnny Sansone e Ian Neville al B3. Otto canzoni che toccano con più insistenza il rock rispetto al recente passato: 'Reckless Heart' si pone a metà strada tra Springsteen e Petty, i sei minuti di 'Real Good Dirt' e 'Returning To My Bones' hanno l'inconfondibile passo elettrico dei Crazy Horse. Oggi sono veramente pochi gli artisti così completi come Anders Osborne. Con lui si va sempre sul sicuro.






venerdì 10 maggio 2024

PFM canta Fabrizio De André Anniversary live@Teatro Alfieri, Torino, 6 Maggio 2024

 


PFM canta Fabrizio De André Anniversary live@Teatro Alfieri, Torino, 6 Maggio 2024

1980, il mio primo ingenuo approccio con Fabrizio De André fu la cassetta di “Fabrizio De André In Concerto con arrangiamenti PFM-registrato dal vivo a Firenze e Bologna, 13-14-15-16/1/1979”. Un disco che diventerà uno dei grandi live della musica italiana, per come fu suonato, per gli arrangiamenti, per quello che ha rappresentato e rappresenta ancora oggi: quell'incontro/scontro tra rock e poetica cantautorale. Anche in Italia si poteva fare seguendo l'esempio di "Bob Dylan con The Band" dirà Franz Di Cioccio.

"La nostra tournée è stata il primo esempio di collaborazione tra due modi completamente diversi di concepire e eseguire le canzoni. Un’esperienza irripetibile perché PFM non era un’accolita di ottimi musicisti riuniti per l’occasione, ma un gruppo con una storia importante, che ha modificato il corso della musica italiana. Ecco, un giorno hanno preso tutto questo e l’hanno messo al mio servizio…" raccontò De André.

Avevo sette anni e un’ attrazione per quel pezzo di plastica arancione con il timbro Siae blu di una volta in bella evidenza. Cassetta conservata ancora oggi con maniacale cura, che quando girava nell'impianto stereo nuovo di pacca e costato sacrifici a mio padre, arrivati quasi alla fine del lato B, faceva uscire una frase che qualcuno in famiglia sottolineava sempre con velata ironia, soffermandosi sull’ultima parola della seconda strofa, e io ridevo a crepapelle senza sapere bene il perché. Qualche anno dopo, tutto sarebbe stato più chiaro: “passano gli anni i mesi, e se li conti anche i minuti. È triste trovarsi adulti senza essere cresciuti, la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo, fino a dire che un nano è una carogna di sicuro, perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo”.


 


Erano le parole di ‘Un Giudice’. Quella cassetta arrivò improvvisa a svegliarmi, forse perfino troppo presto, questo concerto "PFM canta Fabrizio De André, Anniversary" (e  sono ormai 45 anni) è arrivato altrettanto improvviso. Regalo di un'amica all'ultimo momento. "Ho un biglietto in più. Vieni?". Grazie! Perché no? Mi son detto. Sarei andato a chiudere un cerchio della mia vita iniziato in diretta nel 79, anche se mancano alcuni protagonisti, il principale sicuramente. A Torino piove e la città è quindi libera di riempire l'aria con il meglio di sé stessa: sprigionare tutta la sua arcana bellezza da vecchia capitale. Quegli specchi d'acqua dove a tarda notte  i palazzi e i monumenti si specchiano donano antica magia che ogni volta rapiscono. Almeno me. Arrivo presto per un aperitivo, ma mentre aspetto la mia amica sbircio davanti al teatro proprio mentre Franz Di Cioccio e Patrick Djivas escono per andare a cena, piove forte, sono incappucciati e viaggiano veloci, non oso fermarli. Ma lo ammetto, una foto con loro avrei voluto farla. Il resto della band segue dietro decisamente più rilassata e gioviale.



Entrati, gli arredi di stoffa rossa del Teatro Alfieri, il secondo più antico della città, le luci calde e soffuse fanno proseguire la magia delle vie, dei portici e delle piazze, creando un' atmosfera antica, tanto che quel protagonista che manca pare possa uscire da un momento all'altro da dietto un drappo rosso con il fumo della sigaretta ad anticiparlo. Ad uscire, in perfetto orario è invece la Premiata Forneria Marconi in una formazione a nove elementi. In prima fila i quattro reduci di quel tour del 79 passato alla storia: un Franz Di Cioccio che dall'alto dei suoi 78 anni, con le bacchette della batteria perennemente infilate nella cintola dei jeans, si prodiga durante tutto il concerto a cantare, suonare la batteria e ballare con passi di danza da menestrello rock,   Patrick Djivas incollato al suo sgabello fa uscire note di basso che fanno tremare il teatro e sembrano dialogare, Lucio Fabbri è il violinista che tutti conosciamo, e stasera c'è pure Flavio Premoli alle tastiere, fisarmonica ('Il Giudice')  e il mitico Moog. Poco più dietro i giovani: il talentuoso Luca Zabbini alle chitarre e tastiere e pure voce in 'Zirichiltaggia', Marco Sfogli alle chitarre con il sempre difficile compito di sostituire il maestro Franco Mussida e poi ancora Roberto Gualdi alla batteria quando non deve lasciarla a Di Ciccio e Alessandro Scaglione alle tastiere. Questa sera poi c'è Michele Ascolese l'instancabile chitarrista che con Fabrizio De André ci suonò negli ultimi dieci anni della sua vita.


Delle canzoni di Deandré non dico nulla, oltre ai classici che resero immortale quel tour c'è spazio anche per una lunga parentesi dedicata all'album Buona Novella del 1970 musicato da una PFM che ancora si chiamava I Quelli. 

"Molti di quegli arrangiamenti li ho mantenuti nel tour successivi perché hanno dato alla mia musica un volto nuovo e vivace" raccontò De André. Così nuovo che ancora oggi, così ricchi, funzionano alla grande.

Quando Franz Di Cioccio lancia quel "Branca, Branca, Branca..." prima di  'Volta La Carta' mi pare esca dalla mia vecchia cassetta e il pubblico che risponde "leon leon leon" sia quello presente nel 1979. Invece questa volta ci sono anch' io.


Il  bis è lasciato a 'Celebration' ed a un breve accenno di 'Impressioni di Settembre'. 

Ma la catarsi si era già compiuta quando un leggio è stato posizionato a centro palco, una luce lo ha illuminato e la voce di De André ha cantato 'La Canzone Di Marinella'. In quel momento sì, c'eravamo tutti. (O quasi).




domenica 5 maggio 2024

RECENSIONE: IAN HUNTER (Defiance Part 2 Fiction)

 IAN HUNTER  Defiance Part 2 Fiction (Sun Records, 2024)



secondo e non ultimo capitolo

In una recentissima intervista Ian Hunter ha detto di "avere le orecchie di un ottantaquatrenne" (giustamente), di soffrire di acufene e che molto probabilmente sarà difficile vederlo su un palco per uno spettacolo elettrico e  rock, più probabilmente per qualcosa di acustico. Staremo a vedere. Ascoltando il nuovo Defiance Part 2 Fiction  che fa seguito al primo capitolo uscito lo scorso anno, viene però difficile credere che dietro a quei soliti ricci sotto cui ci sono i soliti occhiali ci  sia un uomo classe 1940, l'età di mia madre che non ha l'acufene ma fatica a fare le scale. Come difficile credere a un Ian Hunter lontano dalla musica: durante il lockdown, l'ex Mott The Hopple si è dato molto da fare, chiudendosi nel suo studio di registrazione nel Connecticut  insieme al fido Andy York, buttando giù una serie impressionante di canzoni che con questo capitolo però non scrivono la parola fine al progetto, visto che sembra già al lavoro per il terzo capitolo con canzoni nuove.

"Eravamo noi che facevamo demo nel mio seminterrato, e le demo nel mio seminterrato si sono trasformate in quello che avete" raccontò in occasione dell'uscita della prima parte.

Ciò che si nota dopo l'ascolto è il carattere in parte più gioioso di queste dieci canzoni rispetto alle precedenti. Come nel precedente però anche questa volta gli ospiti sono tanti: dai due Def Leppard Joe Elliott e Phil Collen (Def Leppard che certi suoni glam rock li amano da sempre, cercate il loro Yeah!, album di cover uscito nel 2006), i Cheap Trick quasi al completo nelle persone di Rick Nielsen, Robin Zander e Tom Petersson, Brian May ( i Queen che supportarono i Mott the Hoople nel loro tour del 1974 nel Regno Unito e nel Nord America), Waddy Wachtel, Johnny Deep (anche autore del dipinto in copertina), Lucinda Williams ("Lucinda e suo marito sono venuti a uno dei miei spettacoli a Nashville. Adoro la sua voce, c'è qualcosa di molto infantile. Capisci subito che è lei. Una voce che non si dimentica" ha raccontato Hunter), i tre Stone Temple Pilots Eric Kretz, Robert De Leo e Dean De Leo,  Benmont Tench, David Mansfield  (Bob Dylan, T Bone Burnett),  Tony Shanahan  (Patti Smith),  Steve Holley  (Wings),  Morgan Fisher, vecchio compagno nei Mott the Hoople e poi Jeff Beck e Taylor Hawkins qui nelle loro ultime registrazioni prima di morire. Forse inferiore qualitativamente al precedente, le dieci canzoni si alternano tra un inno dal chorus facile, cantabile e fin troppo sbarazzino dell'apertura 'People', alla voce invecchiata ma comunque sempre fascinosa che esce da 'Fiction' trainata dall' arrangiamento d'archi di David Mansfield e dal piano di Morgan Fisher, dalla ballata folkie 'The 3rd Rail' dedicata a Jeff Beck che lascia la sua chitarra e dal rock’n’roll a dispetto del titolo di 'This Ain't Rock And Roll'. 

Piacciono la tesa e rock 'Precoius' con la chitarra di May al comando, la ciondolante ballata bluesy a ritmo di valzer 'Weed', inno alla legalizzazione, la pesante, hard e scura 'Kettle Of Fish' che avanza minacciosa, l'immancabile ballata in stile dylaniano 'What Would I Do Without You' con la voce di Lucinda Williams. A chiudere il rock di Everybody' s Crazy But Me' e la ballata 'Hope' con la Williams e Billy Bob Thornton ai cori.

Gli ospiti, tanti, ci sono ma non stravolgono mai il trade mark ormai consolidato di Hunter. Pur mancando dell'intensità di alcune canzoni uscite lo scorso anno, Defiance Part 2 si fa comunque apprezzare: il livello di scrittura di Hunter è sempre superiore alla media e nonostante tutto gli si deve dare il merito di continuare a guardare avanti nonostante l'età. Insomma: una canzone a caso qui contenuta potrebbe fare comodo a qualunque songwriter in erba. Classe e mestiere se li hai li hai, a qualunque età e Ian Hunter ne ha pure d'avanzo.