giovedì 1 agosto 2019

RECENSIONE: BLACK PUMAS (Black Pumas)

BLACK PUMAS  Black Pumas (ATO Records, 2019)
 
 
 
 
black moon rising
Se questo disco ha un difetto, uno solo, lo si può trovare unicamente nella placida uniformità su cui fluttuano le dieci canzoni, uniformità che si può tranquillamente tradurre anche con vellutata ripetitività. Una ripetitività però positiva che cattura, avvolge, finisce per inchiodarti all'intero ascolto. Punti di forza: voce e arrangiamenti. È però vero che se si prendono le tracce una ad una, il duo di Austin, Texas, formato dal cantante e chitarrista Eric Burton e dal polistrumentista e produttore Adrian Quesada, i Black Pumas (notare la citazione alle Black Panthers) vincono su tutta la linea, come classe, songwriting e buon gusto.
Il duo sembra si sia incontrato per puro caso, ma si sa, a volte le migliori scintille si generano senza volerlo. Quesada, con un Grammy in bella mostra nel taschino, aveva queste canzoni nascoste nel cassetto che aspettavano solo di essere cantate da una grande voce. Un amico gli segnalò quel tizio dalla voce incredibile che cercava fortuna cantando all'angolo di una strada ad Austin.
Per telefono il loro primo incontro.
"Ascolto hip-hop della East Coast, vecchia musica soul, musica folk. Quando Adrian mi ha inviato le canzoni, era come se le avessi già ascoltate prima. Eravamo sulla stessa lunghezza d'onda sin dall'inizio ” racconta Burton. 
 " Stavo cercando qualcuno sulla mia stessa lunghezza d'onda. A cui piacesse Neil Young quanto Sam Cooke" dice Quesada. Perfetto dico io.

La voce di Burton che spesso si traduce in falsetto (il singolo 'Colors'), accompagna dieci composizioni che non temono di giocare ad armi pari con i grandi dischi Motown degli anni 60, 70. Non inventano nulla ma trasportano il soul, il R&B, il funky nero, negli anni venti dei 2000. A volte sembra proseguano il discorso iniziato, poi interrotto, dai Black Keys con Danger Mouse. Qui però nessun singolo da classifica sembra emergere prepotente.
Danno una pennellata di modernità al calore mai assopito di certa black music, iniettando soffi di ipnotica psichedelia e leggere dosi rock, anche se per me mai abbastanza per riuscire a dare una graffiata più profonda al loro sound. Insomma, non c'è la spregiudicatezza garage punk di Black Joe Lewis o l'assalto crossover di Fantastic Negrito, tanto per citare due dei più conosciuti compagni di viaggio di questi anni. Ci sono altre cose.
I fantasmi neri di Al Green, Curtis Mayfield, Bill Withers, Otis Redding, Sam Cooke, con la benedizione di Van Morrison direttamente da questo pianeta, ballano intorno a canzoni costruite splendidamente dove sinuose chitarre acustiche, elettriche (la magniloqyente 'Touch The Sky'), organi, pianoforti, archi, fiati, voco femminili si fondono alla perfezione nei momenti funky (la bella apertura 'Black Moon Rising'), sensuali ('You Know Better'), spirituali (la minimale 'Sweet Conversations' che chiude il disco), nelle ballate (la toccante e folkie 'Oct 33'), nelle citazioni ('Fire' sembra richiamare Ennio Morricone).
Questo è solo l'inizio del matrimonio ma sono sicuro: se la relazione dovesse proseguire, il meglio non tarderà ad arrivare. Vecchio soul per le nuove generazioni.
 
 
 
 
 

 
 
 
 

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