venerdì 29 dicembre 2023

RECENSIONE: FOGHAT (Sonic Mojo)

FOGHAT  Sonic Mojo (Foghat Records, 2023)




sempre in pista

Dalle nostre parti seguire i Foghat non è mai stata cosa da gran fighi già negli anni settanta pur con un loro grande seguito e  successo in America. Forse proprio per via di quel successo aldilà  dell'oceano che certa critica altezzosa mal digeriva perché persa in ascolti più "impegnati". Come se non si potesse ascoltare tutto senza paraocchi.

Hanno sempre snobbato il loro hard blues dalle tinte boogie relegandoli in serie che non sono la A ma forse nemmeno la B, figuriamoci oggi che hanno perso per strada tanti pezzi della loro storia. 

Per inciso: Foghat (1972), Energized (1974), Fool For The City (1975) e il live Foghat Live (1977) sarebbero tutti da rivalutare.

Ricordo in particolare come band come loro, con i Watt sopra la media e alcune hit commerciali (la loro 'Slow Ride' ha vissuto anche una seconda giovinezza con il gioco Guitar Hero) furono trattate in un volume chiamato Note di Pop Inglese (c'era anche il corrispettivo Americano) , tra i miei primi libri di musica negli anni ottanta: " rock blues di maniera incapace di provocare la pur minima emozione" si scriveva. Guarda caso tutte le band che piacevano a me venivano massacrate.

La compagnia era numerosa, ricordo pure i Nazareth ("uno dei tanti esempi di come si possa diventare miliardari giocando sui soliti tre accordi amplificati da qualche migliaio di Watt") e gli Status Quo ("un quartetto approssimativo persino nell'uso dello strumento" sempre in quel libro): tre gruppi che però, sarà una coincidenza, oggi pur con mille defezioni sono ancora vive e operanti.

Londinesi, nati nel 1970 da alcune costole estirpate ai Savoy Brown, oggi sono guidati dall'unico superstite dell'epoca, il batterista Roger Earl ,  dal chitarrista e produttore Bryan Bassett (Wild Cherry, Molly Hatchet), dal bassista Rodney O' Quinn (Pat Travers Band), e dal buon cantante Scott Holt (da anni sotto l'aurea di Buddy Guy), chitarra solista e voce. Ritornano dopo sette anni di assenza discografia con un disco di pregevole fattura che seppur non avendo e non potendo puntare sull'esuberanza giovanile si aggrappa al mestiere riuscendo  a portarsi a casa un pregevole titolo di "disco da viaggio" che dalle mie parti non si butta mai via.

Dodici canzoni che mettono in fila alcune cover di Chuck Berry, B.B.King, Willie Dixon, Rodney Crowell, Claude DeMetrius con quattro canzoni composte per l'occasione e tre pezzi lasciati da Kid Simmons, proprio dei Savoy Brown, prima di morire l'anno scorso (avrebbe dovuto anche suonarli su disco) che in qualche modo sembrano chiudere il cerchio con il passato.

"I brani che Kim ha scritto per noi penso siano tra i migliori dell'album e tra i miei preferiti" lascia detto Earl.

Tra trascinanti boogie alla ZZ Top ('She's A Little Bit Of Everything'), shuffle alla John Lee Hooker (la slide in 'Drivin' On'), rock melodici ('I Don't Appreciate You') e più pesanti ('Black Days & Blue Nights'), latin rock alla Santana ('Mean Woman Blues' già incisa anche da Elvis), incursioni nel country ('Wish I'd A Been There' scritta in collaborazione con Colin Earl dei Mungo Jerry, fratello maggiore di Roger Earl) e blues nostalgici e notturni ('Time Slips Away') la musica dei Foghat, inglesi ma di casa negli States (il disco è stato registrato al Boogie Motel South a Deland  in Florida), scorre ancora con incredibile disinvoltura e senza pretese di cambiare il mondo se non aggiungere altre fresche canzoni da portare in tour.

Tenacia e passione a volte riescono a sopperire l'inventiva, portando la carriera a superare il traguardo dei cinquant'anni di vita.







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