lunedì 15 aprile 2024

RECENSIONE: THE BLACK KEYS (Ohio Players)

THE BLACK KEYS  Ohio Players (Nonesuch Records, Easy Eye Sound, 2024)




buona partita!

Chissà, forse mi sto rincoglionendo io (è la cosa più probabile) vista l'accoglienza tiepida che ha ricevuto nella sua prima settimana d'uscita il dodicesimo album dei Black Keys: ma secondo me è il loro miglior disco dai tempi di El Camino. Se nei due precedenti dischi, che comunque mi erano piaciuti (i Black  Keys mi piacciono anche nella loro onesta paraculaggine) la coppia formata da Dan Auerbach e Patrick Carney aveva tirato il freno per stazionare su lidi sicuri (sto parlando degli album  Let's Rock e Dropout Boogie), con Ohio Players (notare l'omaggio alle loro radici - Akron - e alla band funky loro concittadina) si ributtano nella mischia degli sperimentatori, rischiano e escono dalla comfort zone che li recintava ultimamente. Si può rischiare anche pacioccando e divertendosi con il pop, i generi e coinvolgendo alla festa altre persone.

Per farlo cedono alle collaborazioni e  radunano alcuni amici.  Primo: Beck che collabora come co-autore, voce e strumentista in quasi metà disco, un incontro, il loro, avvenuto più di vent'anni fa in tour e che ora da i suoi primi frutti anche in studio di registrazione, poi Noel Gallagher presente pure lui in modo massiccio,  più alcuni featuring dei rapper Lil Noid e Juicy J. e infine il produttore Dan the Automator

"Volevamo potesse stare al passo con Brothers ed El Camino . Alla fine abbiamo lavorato molto duramente su questo album e abbiamo trascorso più tempo in studio rispetto a Brothers , El Camino e Turn Blue messi insieme. Penso che siamo stati in studio circa 150 giorni" dice Patrick Carney. 

Cosa ne è uscito? Un disco che al primo ascolto dici "boh?", al secondo ti prende voglia di riascoltarlo, al terzo ti ci infili dentro fino alle scarpe. Così è successo a me, naturalmente. "Una collezione di 45 giri" come dicono loro: 14 canzoni dal basso minutaggio, uno strike di motivi pop sixties, freschi e ballabili ('This Is Nowhere', 'Don't Let Me Go', 'Only Love Matters'), di funky e soul ('Beautiful People (Stay High)), di onde surf (You'll Pay), glassa pop aroma Beatles in primo piano (On The Game), poi certe cose che sembrano riportare le lancette agli albori del crossover ('Candy Y And Her Friends' con Lil Noid e 'Paper Crown' con Beck e Juicy J. e quella chitarra "alla Santana") quando mischiare i generi era ancora un azzardo visto con occhi storti da certi puristi. Il rap che va a braccetto con il rock.

A tenere i ganci con il passato ci pensano la cover di William Bell e Booker T. Jones

('I Forgot To Be Your Lover') e certe reminiscenze garage blues che escono da 'Please Me (Till I'm Satisfied)' e 'Everytime You Leave', una 'Live Till I Die' che inizia là dove finiva 'Cinnamon Girl' di Neil Young e le atmosfere Western di 'Read Em And Weep' che piacerebbe tanto a Quentin Tarantino.

Si percepisce voglia di divertirsi. Dategli un po' di tempo...il tempo di una serata al bowling aspettando il primo strike. Con me è arrivato quasi subito.





domenica 7 aprile 2024

JUDAS PRIEST live@Forum Assago, 6 Aprile 2024



JUDAS PRIEST live@Forum Assago, 6 Aprile 2024

sei foto da portarsi a casa

1 - Quando cala il telone sulle note di War Pigs dei concittadini Black Sabbath (non è forse l'operaia Birmingham una delle città più rock'n'roll di sempre?) e il concerto inizia con la band raggruppata intorno alla batteria di Scott Travis. Sembra un'istantanea rubata ai primi tempi quando gli spazi erano ancora stretti e angusti. I loro abiti con rifiniture d'acciaio e d'argento brillano, poi entra in scena  il sontuoso impianto luci, semplice ma d'effetto e capisci quanta strada abbiano fatto.



2 - Le canzoni dell'ultimo album Invincible Shield non soffrono a stare in mezzo ai loro classici. Panic Attack è l'opener del concerto e funziona, la melodia di Crown Of Horns sembra già un classico e ha solo poche settimane di vita. Ma in definitiva quanti fottuti "classici" possono vantare i Judas Priest? Stasera hanno tirato fuori una Saints In Hell da Stained Class (1978). E quanti sono rimasti fuori dalla setlist stasera? Io ad esempio avrei voluto Night Crawler.


3 -  Richie Faulkner e Andy Sneap sono una bellezza da vedere insieme tanto che KK Downing è ormai storia e passato. L' uno-due Victims Of Changes/ The Green Manalishi da manuale.



4 - Scott Travis e Ian Hill sono invece una macchina da guerra là dietro. Il bassista, 72 anni, è inchiodato al pavimento ma non butta via un colpo, l'attacco di batteria di Painkiller nella mia testa è sempre la versione metal anni novanta di Rock’n’Roll di John Bonham. 


5 - Rob Halford a 72 anni ha ancora una voce della madonna e una presenza scenica carismatica. Sui toni bassi è molto interessante e tra poco uscirà il suo progetto blues. Quando si invecchia si arriva lì.

Cambia giacche come una modella sulla passerella e gioca e fa giocare con la voce come faceva l'amico Freddie Mercury. L'entrata in scena con moto e frustino su Hell Bent For Leather è tanto pacchiana quanto fotografia insostituibile da tramandare ai posteri tra le migliori trovate rock'n'roll di sempre sopra le assi di un palco, giocandosela con i Blue Oyster Cult, la ghigliottina di Alice Cooper e tante altre. Se non ci sono ti mancano. Cose che via via andranno a scomparire. Lo sapete?

E poi... dopo aver letto la sua autobiografia  Confesso che non è certamente un saggio letterario ma  la schiettezza e l'autoironia di Halford ne fanno una  autobiografia  "vera", esplicita, godibile e diretta come poche, facendotelo amare ancor di più. Quindi: anche se sei un fan del folk britannico, un suonatore di country bluegrass, un jazzista, un alternativo a tutti i costi, credo che la vita di Rob Halford meriti di essere letta e conosciuta comunque. 

"Ero il vocalist di una delle più grandi metal band esistenti, eppure ero troppo spaventato per dire al mondo di essere gay. La notte me ne stavo a letto sveglio, turbato, a domandarmi:" cosa succederebbe se facessi coming out? ". L'ha fatto e ne è uscito più forte di prima.



6 - l'amorevole devozione con la quale Halford si prende cura di Glenn Tipton, affetto da Parkinson, abbracciandolo e bisbigliandogli frasi d'incoraggiamento, uscito nel gran finale per eseguire Metal Gods e la sempre spassosa Living After Midnight mi ha stretto il cuore. Tipton non riusciva a lanciare i plettri al pubblico a fine concerto, li ha lasciati uno ad uno a un addetto alla sicurezza che ha fatto da tramite dalla sua mano a quelle dei fan.


"In this world we're livin' in we have our share of sorrow, answer now is: don't give in, aim for a new tomorrow"



giovedì 4 aprile 2024

RECENSIONE: ANDREA VAN CLEEF & The Black Jack Conspiracy (Horse Latitudes)

 

ANDREA VAN CLEEF & The Black Jack Conspiracy  Horse Latitudes (Rivertale Productions, 2024)



cavalcate in libertà

Mi perdonerà Andrea se oso mettere in pubblica piazza un argomento su cui si discuteva qualche mese fa in chat e sui cui entrambi eravamo d'accordo: certo giornalismo musicale degli anni settanta e ottanta ha creato barriere e paraocchi negli ascoltatori più che aprire menti e stimolare orecchie. Quando da uomo di valle sbarcai a Brescia quasi dieci anni fa, uno dei primi concerti che vidi in città fu quello di Andrea Van Cleef con il suo  defunto progetto Van Cleef Continental: un concentrato di stoner pesante che sapeva aprirsi verso territori prog e psichedelici. Con il trascorrere degli anni ho capito quanto la curiosità musicale di Andrea invece (figlia degli anni novanta) gli abbia permesso di viaggiare, suonare e incidere in totale libertà ciò che più gradiva sul momento in base all'ispirazione. Eccolo così cantare e suonare la chitarra nei bergamaschi Humulus, band stoner con un buon seguito in Europa (recentemente ha lasciato la band), eccolo con i suoi tanti progetti solistici, partendo dal folk psichedelico di Sundog, passando dal precedente e vario Tropic Of Nowhere (2018) e poi i suoi tanti omaggi alla musica, tra tutti quello dedicato ai Morphine, insieme ad altri musicisti bresciani, che ogni tanto rispolvera dalla naftalina e porta sopra a un palco. E proprio dalla fine di questo nuovo disco vorrei partire: la traccia finale 'The Real Stranger', con i suoi sette minuti la più lunga del disco, vede proprio ospite Dana Colley, sassofonista della inimitabile band americana capitanata dal compianto Mark Sandman. 

È un disco, il suo primo senza chitarre elettriche, che all'ascolto potrebbe dividersi in tre atti: una prima parte legata in modo indissolubile al country americano, c'è molto di Johnny Cash in tracce come 'The Longest Song' e 'Love Is Lovely' dove la voce profonda viene doppiata da una voce femminile quasi a ricreare il connubio Cash- June Carter, ma scava ancora  più in profondità serpeggiando tra i fantasmi e i simbolismi che popolano certa letteratura gotica a stelle e strisce e al fantasma più terreno di Mark Lanegan nell'iniziale e primo singolo 'A Horse Naned Cain' e in 'Arrows'. 

In mezzo due tracce più ritmate come 'Thing', doo-wop non troppo distante dell'approccio su cui Dan Auerbach ha incanalato i suoi Black Keys e 'Oh La La', l'unica cover del disco, canzone dei Faces che ai tempi perfino Rod Stewart si rifiutò di cantare, salvo poi farla sua da solista, lasciando l'incombenza a  Ron Wood che se la cavò alla grande. Andrea non solo la canta ma riesce anche a vestirla con i suoi abiti.

Se 'Fires In My Bones' è un folk con strumenti a corda e violino che conducono verso terre irlandesi, il finale del disco sembra allargare gli orizzonti sonori verso soluzioni più ardite: prima con 'Come Home' che assume quelle trame cupe e misteriose che Daniel Lanois imbastì per Oh Mercy' di Bob Dylan, poi con  'The 'Disappearing Child' che avanza in un crescendo quasi orchestrale che mi ha ricordato certe composizioni di  Glen Campbell (di rimando anche Western Stars di Bruce Springsteen) per poi concludersi con la già citata 'The Real Stranger' dove contrabbasso e percussioni preparano l'entrata in scena del sax di Colley che si prende tutta la scena. Canzone dalla grande atmosfera e degna chiusura di un disco dal fascino oscuro, misterioso, avvolgente, dai tratti filmici e dal carattere ben preciso. 

Registrato tra lo Studio Rick Del Castillo in Texas dove hanno suonato ospiti come Matthew Smith, Haydn Vitera, Jason Murdy e il Buca Recording Studio di Montichiari  con Simone Piccinelli in prima linea e una lunga schiera di musicisti bresciani: Ottavia Brown, Pietro Gozzini, Simone Grazioli, Simone Helgast, Giulia Mabellini, Matteo Rossetti.

L'altra sera ero a vedere Steve Wynn quando un amico particolarmente curioso mi ha chiesto quale fosse l'ultimo disco da me ascoltato: consigliandolo, gli ho risposto questo, in macchina, durante il tragitto verso Torino. Consiglio che allargo anche a tutti voi, naturalmente.





mercoledì 3 aprile 2024

RECENSIONE: LITTLE ALBERT (The Road Not Taken)

LITTLE ALBERT   The Road Not Taken (Virgin/Universal, 2024)



blues again

Che i Messa siano una delle rock band italiane più interessanti apparse negli ultimi anni è ormai un dato di fatto assodato: parlano chiaro i loro dischi, i loro concerti, i loro tour  negli Stati Uniti (la foto di copertina scattata in Arizona) e le presenze ai maggiori festival europei. Alberto Piccolo della band veneta è il chitarrista (qui anche voce) e per la seconda volta si concede l'uscita solistica sotto il nome, non troppo camuffato, di Little Albert. Ha firmato per la prestigiosa Virgin e fatto uscire questo The Road Not Taken riprendendo quella strada blues iniziata quattro anni fa con il precedente Swamp King ma che di fatto ha iniziato a percorrere appena ha preso una chitarra in mano quando in casa giravano i dischi dei Led Zeppelin. Qualcosa che ha dentro, si sente e lo si capisce guardandolo sopra a un palco.

Ad accompagnarlo la batteria di Diego Dal Bon e il basso di Alex Fernet, più l'aiuto nella stesura dei testi della compagna di band nei Messa Sara Bianchin. Registrato alla vecchia maniera all'Outside Inside  Studio insieme a Matteo Bordin.

Un disco blues che pare uscito tra i fine anni sessanta e i primi settanta: qui si parla la lingua dei Cream, dei Led Zeppelin, dei Ten Years After, Johnny Winter, Blue Cheer, Black Sabbath, Hendrix e Steve Ray Vaughan, più tutti i padri neri naturalmente, aggiungendo quel tocco personale derivante dai suoi studi jazz.

Se l'iniziale 'Still Alive' tradisce l'amore per l'hard blues hendrixiano e lo stoner, proseguendo le cose si fanno via via sempre più interessanti e complicate. 'Demon Woman' batte territori da "dirigibile" inseguendo Jimmy Page (tornato in auge sulla bocca di tutti, se mai qualcuno l'abbia  dimenticato, dopo il film al cinema dei Led Zeppelin dove pare un extraterrestre non replicabile), 'See My Love Coming Home' è lenta come il più nero sabbath con il bel solo finale, ' Hiding All My Love Away' e 'Magic  Carpet Ride' volano alte di psichedelia e prog, 'Blue And Lonesome' di Little Walter è l'unica cover,  fino ad arrivare a 'This House Ain't No Home', la mia preferita, dinamica, prova di squadra per power trio, con i suoi cambi di tempo, soffusa pronta ad esplodere con la lunga jam finale che passa dal jazz, altro suo grande amore. Alberto è uno dei migliori chitarristi italiani degli ultimi dieci anni: tecnico ma anche pieno di passione, non aggiunge mai troppo,  fa il giusto, lasciando spazio alla composizione. Trentasei minuti che volano, con la non scontata bravura di lasciare il suo personale tocco in un genere destinato all'eternità.





martedì 2 aprile 2024

TYGERS OF PAN TANG live@Legend Club, Milano, 30 Marzo 2024



Diciamolo: alcuni grandi gruppi della NWOBHM a distanza di più di quarant'anni dalla loro apparizione sono ancora in splendida forma, pur con l'età che avanza, con le immancabili defezioni che la vita porta in conto e con l'inevitabile innesto di nuovi componenti a portare forze nuove. Qualcuno che storce il naso, comunque, c'è sempre: Jacopo Meille prima del concerto mi ha raccontato di quanti non riescano ancora ad accettare che i Tygers Of Pan Tang girino il mondo con questo nome perché è rimasto un solo componente originale."Quanti gruppi possono vantare tutti gli originali in formazione? Forse solo gli U2". 

L'esempio degli ultimi album di Judas Priest e Saxon freschi di pubblicazione le  cantano chiaro alle nuove generazioni, il DNA non mente (il prossimo weekend insieme live a Milano per chi ci sarà), i Tygers Of Pan Tang guidati dal veterano chitarrista Robb Weir, uno che ci crede ancora, si accodano  e confermano il tutto su disco con lo strepitoso Bloodlines uscito l'anno scorso (sapete quei dischi perfetti dove forza e melodia sono incastrate in modo  spettacolare e le canzoni ci sono e funzionano? Eccolo!) e live dove passato e presente si rincorrono senza prevalere l'uno sull'altro.  Jacopo Meille con la sua presenza bluesy, "toscana" e "Plantiana" è in formazione da vent'anni, il terremotante batterista Craig Ellis pure (più Tygers Of Pan Tang di così), i più recenti innesti di Francesco Marras che ha portato il suo funambolico e fresco chitarrismo donando pure un altro pezzetto d'italia alla band britannica (siamo a 2/5) e del basso di Huw Holding, sinonimo di mestiere e solidità d'altri tempi, hanno donato ulteriore vivacità a canzoni entrate di diritto nella storia del metal britannico.

Album come Wild Cat (Euthanasia, Slave To Freedom, Suzie Smiled), Crazy Nights (Do It Good, Love Don't Stay, Running Out Of Time), Spellbound (Gangland, Hellbound) non fanno ombra alle canzoni degli ultimi vent'anni (Destiny, Keeping Me Alive) e dell'ultimo uscito Bloodlines (A New Heartbeat, Fire On The Horizon, Back For Good, Edge Of The World) così come i ricordi del passato non sembrano mettere in ombra una formazione vitale e scalpitante che ha ancora qualcosa da dire. Non c'è traccia di tempi passati, revival e nostalgia ma solo di presente e futuro. Buona cosa per una band nata nel 1978.

Di imminente uscita un nuovo live album ma il consiglio è di passare a vederli per togliersi ogni dubbio.


venerdì 29 marzo 2024

RECENSIONE: LUCA ROVINI (Lungo i Bordi Della Vita)

 

LUCA ROVINI  Lungo i Bordi Della Vita (2024)




canta ancora un po'

Con questa foto di copertina che sembra uscire da qualche vecchia scatola degli anni cinquanta abbandonata  in un angolo dei Sun Studio di Memphis, Luca Rovini  arriva al suo settimo disco in dodici anni. E proprio sugli stessi marciapiedi contornati da naturalezza e semplicità degli albori del rock Luca ha sempre macinato i suoi tanti passi con gli stivali di pelle e il cappello calato in testa, attraversando e acciuffando i suoi sogni di rock'n'roll con mani artigiane, valige piene di chitarre, storie e amore viscerale per la musica.

Lungo I Bordi Della Vita è uno dei suoi dischi più vari e divertenti musicalmente e...aspetta: qui mi accorgo che ad ogni uscita ripeto "è il suo miglior disco". A questo punto credo sia un buon segno di continua crescita. Poi però bastano delle belle chitarre elettriche sferraglianti perché quello studio di registrazione a Memphis (in verità a Pisa, dalle sue parti) si trasformi in un batter di mani nello studio di Neil Young immortalato con effetto fish eye sulla copertina di Ragged Glory: 'Una Casa Che Non C'è' e 'Il Vento Della Sera' (ultima della fila) sono pure cavalcate alla Crazy Horse che paiono uscire da lì, libere e fiere di correre contro vento. Il suo "cavallo pazzo" sono i fidi Companeros che lo accompagnano da anni. Luca si muove ormai con disinvoltura tra romanticismo bucolico (l'arioso country di 'I Veli Di Una Donna' e 'Canta Ancora Un Po' '), luci urbane e ricerca della verità in mezzo a una società che galleggia per inerzia sulle menzogne. Varietà dicevo: quella di passare da 'Matilda' che richiama e cita Tom Waits fin dal titolo avanzando  cupa e minacciosa tra vicoli e strade che portano giù al mare ad un accattivante blues come 'Spoglia I Tuoi Sensi' che batte il ritmo alla Bo Diddley. Se 'Banditi' ha quell'organo dietro che mi riporta  alle ballate di The River di springsteeniana memoria, 'Nessuno Vince Come Vuole' è un  abbraccio blues che sa di tradizione e continuità. C'è poi 'Le Stelle Cadono Sole' che celebra il matrimonio tra i "songwriter" americani e i "cantautori" italiani con in cima l'amato Francesco De Gregori, un matrimonio che Luca sta continuando a celebrare con rinnovata passione disco dopo disco.

                                                                  foto: Samuele Romano




domenica 24 marzo 2024

CROWEOLOGY: un volo sopra ai dischi in studio dei Black Crowes




The BLACK CROWES -  Shake Your Money Maker (American Recordings, 1990) 

Monsters of Rock 1991: i Black Crowes salgono sul palco del festival itinerante sulle note introduttive di ‘Sex Machine’ di James Brown. Nel bill del festival c’erano AC/DC, Metallica e Queensrÿche . Sfida lanciata. Presentarono il debutto SHAKE YOUR MONEY MAKER uscito l’anno prima, un disco fuori dal tempo già dalla foto di copertina, mentre tra una data e l’altra, e con faccia tosta da vendere a livelli altissimi (chiedere agli ZZ Top e alla loro birra sponsor), stava già  nascendo l’importante seguito. Intanto, via Jeff Cease che appariva un peso morto nel contesto “non sapeva suonare…è un buon chitarrista ma non sa comporre una virgola. Ovvero non gli riusciva di farlo come volevamo noi” e dentro Marc Ford “sa suonare tanto quanto beve”. Perfetto. Anche se nel disco ci suona Chuck Leavell, poi arrivarono anche le tastiere di Eddie Harsch, pace all’anima sua "l'abbiamo ingaggiato come session man ma il suo contributo si è dimostrato così prezioso sia dal vivo per quanto riguarda i vecchi brani sia sul nuovo materiale da farci rendere conto che la tastiera è parte integrante del nostro sound". Immaginario sixties, sonorità che cercavano di unire tutte le loro influenze: la componente british era forte e scalpitante, i fratelli Robinson una coppia cantante-chitarrista alla vecchia maniera (gli Stones di Exile e i Faces in testa:’Jealous Again’, lo scatenato ‘Thick ‘n’ Thin’ è letteralmente uno schianto), la componente southern della loro Georgia a scaldare gli animi (‘Sister Luck’) ma in seguito lo farà ancor di più, la parte black che rimanda alla Motown è servita in ‘Seeing Things’, alla ballata acustica ‘She Talks To Angels’  che racconta di una ragazza eroinomane il compito di rapire i cuori più deboli e vero traino all'intero disco, più un’irresistibile ‘Hard To Handle’ di Otis Redding che sbancherà, portando il disco a stazionare per più di diciotto mesi nelle classifiche americane. Furono in tutto cinque i singoli estratti. Un debutto con il botto ma il meglio deve ancora venire." Quando abbiamo inciso  il primo disco non ci cagava nessuno ma alla gente è piaciuta la nostra musica ed è questo quello che conta. E il nostro disco ha ugualmente venduto in pochi mesi due milioni di copie, senza spinte, forte soltanto di sé stesso e di una band che lo portava in giro dal vivo nei club".  Un disco che guiderà la rinascita e l’interesse per i vecchi suoni del sud in un periodo di forti cambiamenti musicali. Il grunge era già lì dietro all’angolo con la pistola puntata. Ritornando a quel Monsters Of Rock, Chris Robinson dirà: “In  quell’occasione era particolarmente dura perché dovevamo aprire le orecchie a fan che non hanno mai sentito un gruppo di rock’n’roll su quel  palco. Siamo riusciti a suonare bene.” Modesto. Sfida vinta.


THE BLACK CROWES - The Southern Harmony And Musical Companion (American Recording/WEA, 1992) 

"Non capisco tutte le polemiche sollevate da quella razza fottuta e bastarda dei giornalisti inglesi. Siamo stati attaccati dai media inglesi sempre per il solito problema delle influenze, delle somiglianze… Cazzate". Così i Black Crowes risposero a quanti li accusarono di poca originalità dopo l'uscita del debutto Shake Your Money Maker di due anni prima. Non certo il pubblico che li premiò da subito. Ma la risposta migliore la affidarono alla musica: The Southern Harmony And Musical Companion li consacrerà a veri eredi della grande tradizione del southern rock e dell'american music in generale, scavando in profondità nella tradizione  fino a trovare le radici gospel e soul che si unirono al forte vento british che spettinava le canzoni del debutto. Certo, tra dichiarazioni al vetriolo verso giornalisti e colleghi e la (mal)sana abitudine di non voler accontentare a tutti i costi il proprio pubblico durante i concerti (quando i nuovi fan acquisiti chiedevano i successi del fortunato debutto loro partivano con nuove canzoni e improvvisazioni sconosciute ai più), i Black Crowes partirono con l'adesivo di band arrogante e poco simpatica già appiccicato addosso. Ma erano determinati e liberi.  E proprio in tour ha preso forma il secondo disco: "abbiamo iniziato a comporlo in tour, sono nate circa trenta canzoni tra cui  'Thorn On My Pride', 'Sting Me' e 'My Morning Song'" che faranno da apripista alle altre scritte e provate in quindici giorni nel garage di una casa vittoriana appena comprata da Chris Robinson, lontano da tutto in quel di Atlanta.  Poi registrate in presa diretta negli studi Southern Tracks sempre di Atlanta insieme al l'allora inseparabile George Drakoulias in produzione "ci tenevamo a rispettare fino in fondo le atmosfere  che ci apprestavamo a ricreare. Usare la tecnologia in un disco del genere sarebbe stato un delitto" con il nuovo chitarrista Marc Ford dei Burning Tree che sostituì Jeff Cease, licenziato con l'etichetta "peso morto" attaccata al collo. Sarà solo la prima sostituzione di una lunga serie di musicisti che ruoteranno intorno ai fratelli Robinson che intanto continueranno ad alimentare il loro indissolubile rapporto di sangue con continui e reiterati litigi, spesso violenti ma di breve durata. "Tra i due fratelli c'è sempre stata tensione già da prima che registrassimo il primo disco" dirà il bassista Johnny Colt. Bastarono otto giorni di registrazione per ottenere questo concentrato di ritmo ('Sting Me'), soul (il classico istantaneo 'Remedy', inno alla libertà), southern rock ('Thorn In My Pride') e funky, impreziosito dalle tastiere del nuovo acquisto, il talentuoso Ed Harsch, e dalla incredibile batteria di Steve Gorman che non spreca un colpo. Le ombre  malinconiche ricamate in 'Bad Luck Blue Eyes Goodbye', l'oscuro presagio disegnato in 'Black Moon Creeping', fanno da contrapposizione al  rock'n'roll blues di 'Hotel Illness' e 'No Speak No Slave' dove le chitarre di Rich Robinson e Marc Ford si intrecciano che è un piacere e la voce di Chris Robinson vola alta, sinuosa e graffiante. Perfino 'Time Will Tell' di Bob Marley si vestì con abiti gospel innestandosi alla perfezione, chiudendo la fila delle dieci tracce. "Quando l'abbiamo ascoltata per la prima volta mi ha fatto respirare aria di gospel music e ci ha stregato" racconterà Rich Robinson. Il disco che uscì nel Maggio del 1992, debuttando al numero uno nella classifica di Billboard, in copertina li presenta come dei guerrieri della notte degli stati del sud (richiamando the Band) immortalati dal fotografo Mark Seliger in un cimitero di automobili nella periferia di Atlanta. Posto marcio e disordinato, adatto per rappresentare tutto ciò che accadrà nella loro carriera dall'uscita del disco in avanti…


THE BLACK CROWES - Amorica (American Recordings/ Universal, 1994) 

"L' America è, spesso, un luogo di paura. Amorica invece è l'America che noi sogniamo, cioè un posto dove la gente sia libera di vivere senza paure" così Rich Robinson spiegò il titolo del terzo album dei Black Crowes, presentato da una copertina tanto acchiappa sguardi, rubata da una vecchia copertina della rivista Hustler, anno 1976, quanto ostacolo per la buona diffusione del prodotto che infatti venne censurato. Chissà se per quella bandiera americana messa lì davanti oppure per quello che c'era sotto o tutto l'insieme? A proposito Chris Robinson appena dopo l'uscita disse: "sarà raffigurata una ragazza abbigliata in classico bikini a stelle e strisce… Staremo a vedere. L'America, essendo un paese giovane, cerca di aggrapparsi a dei valori, stanno ancora cercando di capire cosa accade nel mondo e penso che la mentalità europea sia diversa". Non si sbagliava. E pensare che se possiamo accarezzare la copertina di Amorica è solo grazie a quei due fratelli serpenti che mandarono in fumo un album fatto e finito, nato sul finire del 1993 dopo i tour che seguirono The Southern Harmony and Musical Companion. Tall non vide mai la luce se non anni dopo quando uscì con l'altro album perduto Band, registrato nel 1997: raccolti sotto The Lost Crowes. Dentro Amorica ci finirono un po' di quelle canzoni perdute. "Vogliamo davvero vedere fino a che punto possiamo spingere la nostra espressione". Con queste parole Chris Robinson cercò di spiegare il balzo in avanti che la band provò a fare con Amorica, alla perenne ricerca di un suono identificativo lontano da mode e da tutto. I suoni si dilatano, c'è la voglia di lasciarsi andare, di entrare dentro a un mood senza troppi steccati a fare da argine. Cambia anche il produttore, dopo George Drakoulias arriva Jack Joseph Puig. Si intravedono tappeti, candele e incensi, piedi nudi che ci ballano intorno. Così da 'Gone' che sembra un bel invito messo in apertura ma ancora ben legato ai due precedenti dischi, passando per la liberatoria e sensuale  'A Conspiracy' e con un prezioso Eddie Harsch che sembra essersi inserito molto bene dentro alle trame della band, si passa attraverso i ritmi latini che accompagnano 'High Head Blues' con quell' invito esplicito nascosto tra le rime e piazzato alla fine:  "questa è l'erba migliore" viene ribadito  in spagnolo. E noi ci crediamo, visto che da qui in avanti tutto sembra apparire e scomparire dietro al fumo profumato.  Perché il viaggio jammato dei nuovi Black Crowes sembra non avere più ostacoli: 'Cursed Diamond' inizia lieve e introspettiva poi  si incendia sotto le chitarre di Marc Ford e Rich Robinson con Chris a cantare l'incredibile forza del perdono, 'Nonfiction' è una pausa dalle chitarre che sa di vecchia west coast anni settanta ma che poi conduce alla solarità senza confini di 'She Gave Good Sunflower', lavoro di squadra dove c'è spazio per tutti.  Una malata 'P. 25 London' che pur  sembrando un semplice divertissment blues con tanto di armonica ha il raro pregio di catturare l'attenzione con il suo groove (ecco il basso di Johnny Colt) prima di condurre il disco verso  l'accoppiata 'Ballad In Urgency' e 'Wiser Time', due viaggi accomunati dalla leggerezza, la prima si aggancia così bene ai padri Allman Brothers, la seconda è una corsa in macchina in discesa a motore spento, con il vento in faccia e il drumming percussivo di Steve Gorman che duella ad armi pari con le slide. Siamo ora on the road. Il disco nel finale si abbandona completamente, sgancia i freni, attorcigliandosi alle radici: il delta blues acustico di 'Downton Money Waster' con dobro e pianoforte e la forza evocativa e quasi gospel della finale 'Descending', con il grande lavoro al pianoforte di Harsch, sembrano riallacciare tutti i fili con la tradizione del southern rock che così bene questo disco aveva in qualche modo cercato di spezzare. "Che genere suonano i Black Crowes? Semplicemente musica, l'importante è quello che pensano gli ascoltatori", così Rich Robinson.


The BLACK CROWES - Three Snakes And One Charm (American REcordings/Universal, 1996) 

Three Snakes And One Charm ha sempre fatto poco per attirare l'attenzione su di sé: avvolto in una candida copertina poco appariscente, nessuna foto della band e nessun singolo veramente trainante se si escludono ‘Blackberry’ canzone con il groove giusto per diventarlo grazie alla sua riuscita commistione tra chitarre e black music e l'apertura ‘Under The Mountain’ che dà lo starter al disco in modo sornione per poi esplodere in tutto il suo sapore Southern. Anche la sua uscita fu tavagliata: l’estenuante tour seguente ad Amorica aveva messo tutti ko (aprirono anche per i Rolling Stones nel tour di Voodoo Lounge) e la situazione interna alla band inizia a scricchiolare, con i fratelli Robinson che comunicavano a distanza, dando inizio a quel amore odio che li seguirà per tutta la carriera: il chitarrista abitava a Los Angeles, il cantante ad Atlanta. Nonostante tutto quando si ritrovarono al Chateau de le Crowe riuscirono a mettere insieme dodici canzoni e l’anno seguente registrarono pure Band, album che non vide mai la pubblicazione  se non anni dopo insieme a Tall altro album perduto registrato prima di Amorica. A  più di venticinque anni dall'uscita, il disco dei tre serpenti si può considerare uno degli album più coraggiosi ed eclettici della loro carriera, ai tempi marchiato con troppa sufficienza con un bel “calo di ispirazione”, forse il più difficile da penetrare con facilità causa l'abbondanza di carne sul fuoco e il giro largo che fanno compiere alle canzoni rispetto ai primi tre album. Canzoni che scappano da più parti indicando le loro tante influenze: tutto l’amore per Sly Stone e il funk si manifesta in '(Only) HalfwayTo Everywhere’, i residui di R&B con tanto di fiati in ‘Let Me Share The Ride’,  i sixties e i Byrds vengono omaggiati in ‘Better When You're Not Alone’, il misterioso oriente in ‘How Much For Your Wings’ con le sue percussioni, la  psichedelia fa capolino in ‘Evil Eye’ e ‘Nebakanezer’ che presenta un riff che cattura subito, si respira aria fresca di campagna  nel country  ‘Bring On Bring On’, nell’armonica che guida ‘Good Friday’, nella pedal steel di ‘Girl From A Pawnshop’. Un anno dopo con l’uscita di Marc Ford e Johnny Colt cambieranno nuovamente le carte in tavola…mantenendo comunque intatta la libertà musicale di tutta la carriera.


THE BLACK CROWES - By Your Side (American, 1999) 

Sabato 10 Luglio 1999: una bufera di pioggia si scatena sul Monza Rock Festival. Alcuni gruppi in scaletta saltano ma vengono spostati al giorno successivo. Un po’ esulto, che diamine non può andare sempre di sfiga. Io avevo scelto quel giorno successivo! I principali sono Aerosmith e Litfiba (con l’ultimo concerto di Piero Pelù in formazione). Lo vengo a sapere il giorno dopo, appunto, sul posto e sul momento: io ero lì principalmente per i Black Crowes (e Lenny Kravitz) e il loro set sarà incastonato in mezzo tra la band di Boston e quella di Firenze. Posizione strategica. Gli Aerosmith fanno un gran concerto pescando bene nel passato, quello dei Litfiba è abbastanza penoso, mettendo in risalto una band ai ferri corti che giunge al termine dei propri impegni per contratto. E i Black Crowes? I Black Crowes si presentano sul palco esattamente come si vedono nella copertina del nuovo disco che stanno per presentare live. Un disco che già adoravo. Il pubblico sembra distratto. Gli Aerosmith hanno appagato i rocker, i fan dei Litfiba sono in spasmodica trepidazione. I Black Crowes fanno un gran concerto, certo penalizzato dai tempi ristretti, ma per quel che ricordo, alla fine, conquistano sia i rocker appagati quanto il pubblico distratto di Pelù. Per gli amanti delle statistiche ho recuperato la scaletta: ‘No Speak No Slave’, ‘Go Faster’, ‘Stare it Cold’, ‘Go tell the Congregations’, ‘Sting Me’,‘Heavy’, ‘Hard to Handle’,  ‘Kicking my Heart Around’, ‘Virtue and Vice’, ‘Jealous Again’, ‘Remedy’. BY YOUR SIDE uscì dopo un periodo poco felice: THREE SNAKES AND ONE CHARM non esaltò troppo, arrivando dopo un disco monstre come AMORICA, Marc Ford e Johnny Colt escono dal gruppo, c’è pure il cambio di etichetta discografica con il passaggio alla Sony. Tanti voltano le spalle. Eppure BY YOUR SIDE, ben prodotto da Kevin Shirley, spesso dimenticato ma presentato da una copertina mai così glam e glitterata, è un disco scalpitante, certamente il più accessibile in discografia, che si impossessa maggiormente della parte più british della loro musica: quella legata al rock blues dei Led Zeppelin , degli Stones, di Rod Stewart e i suoi Faces e la mischia con il suono nero americano. ‘Go Faster’ e ‘Kickin’ My Heart Around’ fanno muovere il culo e battere i piedi fin da subito: rock’n’roll senza freni e sezione ritmica a palla (Steve Gorman e Sven Pipen i protagonisti). ‘By Your Side’ è la canzone che Jagger e soci non fanno da trent’anni. ‘HorseHead’ ha i riff di Keith Richards benedetti sotto l’acqua santa dei cori gospel. ‘Only A Fool’ è una ballata soul condotta dai tasti del povero Eddie Harsch e dai fiati. ‘Heavy’ mischia le due anime del disco: da una parte il rock, dall’altra il R&B. ‘Welcome To The Goodtimes’ è tra gli episodi più inusuali ma riusciti del disco: Rod Stewart meets New Orleans e la voce di Chris Robinson ne esce vincitrice. Un piacere incontrarvi. Il fratello Rich Robinson rimane solo al comando delle chitarre e in ‘Then She Said My Name’ va giù duro prima di arrivare al bel finale di ‘ Virtue And Vice’ con ancora Harsch protagonista. Canzone assolutamente da riscoprire.  “Gotcha Moving, Gotcha Moving…Keep You Rolling” ancora da capo.


THE BLACK CROWES - Lions (V2, 2001) 

C'è uno sticker colorato nella custodia di Lions che annuncia cose da futuro immediato: metti il tuo CD nel computer, digita il codice che trovi all'interno e assisti a uno show del prossimo tour dei Black Crowes direttamente da casa, in streaming, sul tuo computer. Un modo per avvicinarsi alla tecnologia del prossimo futuro e ai tanti fan sparsi per il mondo.  Ma Lions è tutt'altro che un disco futuristico. Dopo il tour con Jimmy Page, o quello che doveva essere un tour visto la durata dimezzata, la band di Atlanta sembra rinvigorita nel seguire le tracce rock assaporate con l'ex chitarrista dei Led Zeppelin, registrando il tutto  in un vecchio teatro di New York sotto la produzione dell'esperto Don Was. Arrivarono all'appuntamento con alcune canzoni scritte proprio in tour, altre nacquero sul momento in studio di registrazione in un clima di rilassatezza e buona complicità. Una nuova casa discografica e la nuova fiamma di Chris Robinson avranno sicuramente influito al buon clima generale. Lo si sente subito in apertura con quelle chitarre stridenti, un lungo preludio, e la rullata di Steve Gorman, 'Midnight From The Inside Out' è puro Zeppelin sound che amoreggia volentieri con Jimi Hendrix. Anche 'Greasy Grass River' è una prova di squadra che passa l'esame con le chitarre di Rich Robinson e Audley Freed in primissimo piano. "Le date con Jimmy sono state un'enorme spinta in termini di energia" racconterà Chris Robinson.  Ma ciò che attrae di più di Lions a ventitre anni (!!!) dalla sua uscita è quel fragore ritmico imbottito di funky che accompagna gran parte delle canzoni. Il saltellante groove di 'Lickin' con il suo riff penetrante (il primo singolo), l'esortazione contagiante di 'Come On', la sensuale 'Ozone Mama' con il suadente organo di Ed Harsch e l'armonica di Chris Robinson che qui si prende pure la licenza di cantare rappando, l'incedere tribale che scandisce 'Young Man, Old Man' sono tutti schizzi che vanno a comporre una tela bianca senza cornici che ne limitano l'orizzonte. Ci sono poi almeno tre o quattro colpi da fuoriclasse: il crescendo di 'Losing My Mind', la ballata acustica 'Miracle To Me' anticipata dal pianoforte, la schizzata 'Cosmic Friend' che come una mosca vola sopra alla musica dimostrando a tutti la licenza della più totale libertà di espressione che si sono presi, la conclusiva 'Lay It All On Me' che pare un ibrido ben riuscito tra i Beatles del White Album e  l'Elton John più ispirato. Poi c'è quella 'Soul Singing' che rimarrà l'unica vera canzone ricordata di questo album, un gospel dai sentori  hippy, danza sfrenata di libertà e emancipazione in mezzo a colline verdi, prati fioriti, cieli azzurri e un bel sole al tramonto (sì proprio come nel video). "È stato un processo di registrazione davvero spontaneo. Abbiamo preso molta energia dalla libertà nella quale ci siamo trovati, anche con la casa discografica."dirà Chris Robinson riferendosi anche al nuovo contratto discografico con la V2. All'uscita Lions fu bersagliato dalla critica. Un po' come quando Neil Young fu accusato di "non fare Neil Young", qui i Black Crowes sfornano un album con talmente tanti spunti e tanta varietà che dopo più di vent'anni si riesce a trovare ancora qualcosa di nuovo.


THE BLACK CROWES - Warpaint (Silver Arrow Records, 2008) 

Ma quanto è bello Warpaint? Il disco del (primo) ritorno, ma spesso dimenticato, dopo il breve scioglimento avvenuto nel 2002 e durato tre anni. I fratelli Rich e Chris Robinson ritornarono con tante novità ma con un sound che guardava fortemente al passato, cancellando in un solo colpo i segni lasciati dal poco capito Lions, uscito ben sette anni prima, sicuramente da riscoprire. Due nuove facce: la chitarra di Luther Dickinson (North Mississippi Allstar) e le tastiere di Adam MacDougall che si uniscono alla confermata sezione ritmica formata da Steve Gorman (vorrei vedere) e Sven Pipien."Abbiamo registrato Warpaint in uno studio chiamato Allaire. È in cima a una montagna nello stato di New York. È stato uno dei posti più belli in cui sia mai stato. L'atmosfera era incredibile - a parte il fatto che ero stressato per ottenere la musica giusta... " racconterà il tastierista nuovo entrato. Una nuova etichetta discografica di loro proprietà (Silver Arrow) che possa permettere di muoversi con più agilità sul mercato ma soprattutto canzoni che lasciano il segno, riunendo insieme tutte le migliori influenze della carriera, da quelle britanniche (Stones e Faces) a quelle americane (Little Feat, Allman e Lynyrd Skynyrd). L’iniziale chiamata alle armi di ‘Goodbye Daughters Of The Revolution’ è già un piccolo classico, i blues neri e sporchi di ‘Walk Believer Walk’ e della trascinante ‘God’s Got It’ rubata al repertorio del reverendo Charlie Jackson legano in maniera sanguigna con le radici ("non facciamo una cover per un disco da un po 'e mi è sempre piaciuta questa canzone. Credo che la metà dei ragazzi della band non l'avesse mai ascoltata. L'ho suonata per tutti e tutti si sono alzati in piedi e hanno iniziato a farla. Era anche un altro modo per entrare nelle nostre radici " dirà Chris Robinson), il southern vecchia scuola di ‘Evergreen’ e quattro ballate una diversa dall’altra fanno il resto: ‘Oh Josephine’ ("una delle cose migliori che io e Rich abbiamo mai scritto" dirà Chris Robinson), ‘Locust Street’, ‘There’s Gold In Them Hills’ e la finale e sorprendente ‘Whoa Mule’ tanto etnica quanto legata ai maestri della Band. L'anno dopo uscirà Warpaint Live a confermare il buon momento.


THE BLACK CROWES - Before the Frost...Until the Freeze (Silver Arrow Records, 2009) 

C'è un'immagine tra le foto promozionali di questo che a oggi rimane l'ultimo lavoro di inediti della band di Atlanta (l'anno dopo uscirà ancora la singolare raccolta Croweology, l'anno scorso è uscito 1972, album di cover) che rappresenta e presenta benissimo il disco. I Black Crowes sono stati fotografati sopra una scalinata con le loro barbe, i lunghi capelli e i vestiti marcati seventies all'entrata di un'enorme edificio in legno con pile di legna pronta da ardere ai due lati. Probabilmente si tratta dello studio di registrazione situato a Woodstock di proprietà del povero Levon Helm (che all'epoca uscì con lo splendido ELECTRIC DIRT) dove i nostri hanno registrato in presa diretta, davanti ad uno sparuto numero di spettatori, i 20 brani che compongono quest'album  che profuma veramente d'altri tempi. Quella legna da ardere sembra essere lì per testimoniare il calore che l'ascolto emana, in netta contrapposizione con l' algida copertina e il titolo dell'opera. Un disco buono per ogni occasione. Per come è nato (si provava fino alla riuscita, il pubblico applaude), e con il passare degli anni questo disco ha assunto il ruolo di perfetto mix tra i BASEMENT TAPES di Dylan/The Band e EXILE ON MAIN STREET degli Stones. Con le dovute proporzioni naturalmente. "Siamo partiti con l'idea iniziale che saremmo andati in uno studio normale e avremmo avuto una dozzina di fan lì dentro a guardarci, la cosa si è poi trasformata in una valanga quando siamo andati nel fienile e nello studio di Levon Helm a Woodstock con  200 persone a guardare" raccontò il batterista Steve Gormam. Tutte composizioni originali, escludendo la cover di Stephen Stills 'So Many Times'. Canzoni che dimostrano quanto la band sia maturata negli ultimi anni di attività. Già il precedente WARPAINT (2007) si era fatto apprezzare per la ritrovata vena compositiva dei fratelli Robinson, ma questo lo supera. Calore, introspezione, feeling, spontaneità, coesione sono aggettivi che ben si adoperano per descrivere lo status della band, che sembrò rinascere dopo l'entrata di Luther Dickinson (North Mississippi AllStars) alla chitarra. Il legame con i grandi degli anni settanta non è mai stato così marcato: facile trovare tracce di Rolling Stones, Faces, primo Rod Stewart (soprattutto nella splendida voce di Chris Robinson) o gli echi sudisti di Allman Brothers Band e il calore delle composizioni di The Band e Little Feat. I Black Crowes hanno perso per strada l'irruenza e l'urgenza degli esordi per avvicinarsi sempre più al crocevia che porta nella direzione delle radici americane e a The Band in particolar modo. Il primo disco BEFORE THE FROST…si apre con una formidabile 'Good Morning Captain', che parte da dove era finito il precedente WARPAINT. Canzone che possiede tutti i crismi di un loro classico. Da notare il prezioso lavoro al piano e tastiere di Adam MacDouglas. Accanto ad episodi di rock blues ruspante come 'Kept My Soul' o la lunga 'Been A Long Time (Waiting On Love)'con la sua jam finale troviamo episodi che rotolano spesso come palle di fieno sospinte dal vento nel country: la bellissima 'Appaloosa' che sembra uscire direttamente all'agreste HARVEST di Young o l'acustica 'What Is Home?' così vicina ai primi CSN. C'è pure spazio per un brano divertente e spiazzante come quelli che amavano fare gli Stones di fine anni settanta: 'I Ain't Hiding' è uno scherzo e così va preso. Ritmiche disco-funk che tanto piacerebbero alla boccaccia di Mick Jagger. La seconda parte del lavoro …UNTIL THE FREEZE la si poteva ottenere scaricandola dal sito grazie al codice presente nella confezione del cd oppure optando per il vinile: c'è tutto in due dischi e forse sarebbe la soluzione giusta visto i suoni così vintage. 'Aimless Peacock' lascia intravedere l'anima di questa seconda parte del lavoro, più cerebrale e psichedelica. Violini, sitar ci immergono in atmosfere care al George Harrison di fine anni sessanta. Mentre 'Garden Gate' è un divertente walzer country sorretto dal violino così come nei verdi campi del country viaggiano 'Shine Along' e 'Roll Old Jeremiah'. Venti canzoni che attraversano l'America a passo d'uomo, lasciando il giusto tempo di ammirare i paesaggi, sostare e ripartire. Tanto anacronistiche quanto utili di questi tempi. E sono ancora qui a chiedermi come sia stato possibile fermarsi dopo tanta prolificità, la stessa che ora è dispersa in altri mille progetti e in una (strana) reunion che per ora odora solo di verdi banconote. Uno dei loro dischi migliori, anche se pochi lo dicono.


THE BLACK CROWES  - Happiness Bastards (Silver Arrow, 2024) 

"Ma poi le cose accadono...nella vita, le cose accadono. E nel mio caso, incontrare l'amore della mia vita dopo tutti questi anni e avere un partner che possa davvero farmi vedere le cose per quello che sono, essere in grado di guarire il mio rapporto con Rich - e lui direbbe la stessa cosa, penso - avere il team di persone che abbiamo intorno...". Così Chris Robinson ha raccontato quanto la compagna Camille Johnson (anche autrice dell'artwork) sia stata determinante per ricucire i rapporti con il fratello Rich, invertendo per una volta quella legge non scritta del rock'n'roll che vuole mogli e compagne come le cause di tutti i mali all'interno di una band. Riavvicinamento che portò a una reunion e al conseguente tour celebrativo di Shake Your Money Maker che passò pure all'Alcatraz di Milano ma che, a dirla tutta, a distanza di un paio di anni non mi sembrò così entusiasmante, finendo nelle retrovie dei loro concerti visti da me. Mi sembrò un compitino contornato di belle canzoni e suoni pessimi. Divertente e senza pretese fu anche 1972, l'EP che raccoglieva sei cover pescate in quell'anno di meraviglie. Ma forse proprio da lì si può partire per capire lo spirito che ha animato le dieci composizioni di questo ritorno. Basti l'ascolto di 'Bleed It Dry', uno shuffle blues con l'armonica di Chris Robinson che pare arrivare diretto diretto da Exile On Main Street. Torrido e sporco il giusto.Happiness Bastards è il disco più semplice e diretto della loro discografia, un concentrato di rock'n'roll blues che lo pone a metà strada tra il debutto e il sempre dimenticato By Your Side senza avere le canzoni di peso né dell'uno né dell'altro ma forse per trarre queste conclusioni è ancora presto. Insomma siamo distanti anni luce dall'ultimo e sorprende album Before The Frost...Until The Freeze del 2009 che li vedeva calati in vesti bucoliche dentro al fienile di Levon Helm e all'immaginario Americana disegnato da The Band anni prima. Un grande disco di sfumature che meritava maggiori attenzioni. Lo racconta bene Chris Robinson: "è un disco rock 'n' roll. Focalizzato, orientato al riff. Prima di invecchiare e non poterlo più fare". Anche se il recente album dei Rolling Stones ci racconta che si può arrivare anche agli ottant'anni a macinare riff su riff. Lo conferma il produttore Jay Joyce (presente anche con chittara e tastiere), raccontando come sono andate le cose in studio di registrazione:"era vecchia scuola: tutti nella stessa stanza, nessuna traccia di clic, niente stronzate". I Black Crowes di oggi sono Chris e Rich Robinson. Sven Pipien è l'unico sopravvissuto della vecchia guardia. E la strada che prende il disco la si capisce appena parte la prima traccia 'Bedside Manners' (invettiva contro qualche ex amante dove Chris canta:" se non vuoi i miei diamanti / non scuotere il mio albero”), up tempo e una slide sferragliante, un pianoforte battente (suonato da Erik Deutsch) sono un benvenuto e il mood di quasi tutto l'intero disco che ha nelle ballate 'Wilted Rose', insieme alla cantantautrice country Lainey Wilson, canzone che però ha una sua esposione e la finale 'Kindred Friend', con il suo placido e disteso andamento tra country, gospel e pop ( ai cori Vicky Hampton, Joanna Cotton e Robert Kearns), gli unici momenti in cui si tira il fiato. 'Rats And Clowns' ha un riff sonesiano incalzante (alla batteria Brian Griffin) e Chris Robinson canta in maniera avvolgente inseguendo le chitarre fino al chorus e all'assolo di Rich che in tutto il disco è aiutato dalla chitarra di Nico Bereciartua. Un disco dove che chitarre contano. L'arpeggio iniziale di 'Cross Your Fingers' inganna e porta verso l'immaginario roots ma poi la canzone si dipana in un saltellante funky con Chris che si trasforma in un delle sue migliori trasformazioni da soul singer, certamente la traccia più anomala e sperimentale del disco. 'Wanting And Waiting' la conosciamo già a memoria con il suo forte rimando alla vecchia 'Jealous Again'. Puro distillato Black Crowes che fa il paio con l'accusatoria 'Follow The Moon' quasi zeppeliniana. 'Dirty Cold Sun' è la più black del lotto, coriste e ancora tanto soul nel cantato. 'Flash Wound' è un trascinante mix tra la velocità del vecchio punk e le atmosfere festose da marching band con un breve break centrale. I tre minuti più spassosi di un disco che in 38 minuti ci presenta una band che vuole lanciare un messaggio forte e chiaro:" aprite le vostre orecchie, sappiamo ancora suonare rock'n'roll!". Tutte le altre sfumature che ci hanno fatto conoscere durante l'intera carriera sono state messe da parte per un approccio duro, fresco, vivace e diretto. Che piace e li tiene in vita con onestà e mestiere. Per ora cosa chiedere di più dopo quindici anni di silenzio discografico?


                                                                                       BONUS

THE BLACK CROWES - Band (1997) 

Avete mai pensato a come la storia e la carriera di alcuni artisti sarebbero potute cambiare se certi album incisi e lasciati poi ammuffire nei cassetti fossero invece usciti nei tempi giusti? La storia del rock è piena di lost album. Band dei Black Crowes registrato nel 1997 vide la luce solamente nel 2006  quando uscì insieme alle session Tall che qualche anno prima diedero  il giusto carburante ad Amorica. Band invece  fu il passo successivo a Three Snakes And One Charm un disco che Chris Robinson non lesinò a considerare "il mio album favorito" e fece da anticamera a di By Your Side (che invece è uno dei miei favoriti) a cui regalerà comunque  la title track qui ancora in una versione embrionale e intitolata 'If It ever Stops Raining' diversa da quella sottoposta al lavoro di Kevin Shirley che uscirà solo due anni dopo. Dieci canzoni scritte immediatamente dopo il lungo tour del disco precedente da Chris e Rich Robinson una sola settimana prima di chiamare a rapporto il resto della band, chiudersi nel piccolo studio Purple Dragon Recording di Atlanta e registrarle in sole tre giornate di lavoro. "Mi piaceva l'idea che ci fossero degli errori" raccontò Chris Robinson. Lo scopo era registrare e mantenere un approccio live e grezzo, cosa che riuscì loro perfettamente e le voci che si sentono all'inizio o alla fine di alcuni brani testimoniano. Insieme ai fratelli Robinson: Steve Gorman e Eddie Harsch, e poi della partita ci sono ancora Marc Ford e Johnny Colt, alle loro ultime registrazioni in studio con la band. Ford navigava in brutte acque poco digerite dal gruppo, fu licenziato poco dopo nel corso del 1997, Colt lo seguì quasi immediatamente. Il rock di 'Paint An 8' e 'Never Forget This Song', la jam senza troppe regole di 'Another Road Side Tragedy', il rock’n’roll stonesiano di 'Predictable', il mandolino di 'Lifevest', le tastiere della più solare e sbarazzina 'Grinnin', le ballate 'Wyoming & Me' e  'My Heart 's Killing Me'  con il violino di Donny Herron e la finale e superba 'Peace Anyway',  formano uno dei più ispirati e coesi album della band anche se nessuno lo saprà per almeno dieci anni. In rassegna le loro radici southern e soul, le influenze british, la loro anima più cerebrale e alcune anticipazioni sulle colline del country che troveranno strada qualche anno dopo. La American Recording di Rick Rubin non ne volle sapere nulla, considerando l'album poco competitivo sul mercato. Tutto venne accantonato e i  Black Crowes con la nuova etichetta Columbia e il nuovo innesto Sven Pipien  scomparirà per due anni per rifarsi viva con il più diretto e rock’n’roll By Your Side ma sarà un'altra incredibile storia.


THE BLACK CROWES Croweology (Silver Arrow Records, 2010) 

Ci fu poco tempo per apprezzarne il ritorno in quel 2010, i due album WARPAINT (2008) e BEFORE THE FROST...UNTIL THE FREEZE (2009) uscirono a ben sette anni di distanza dall'ultimo LIONS (2001), che i Black Crowes decisero di salutarci nuovamente. Per un po'? Per sempre? Per dieci anni. Ora lo sappiamo. CROWEOLOGY è un doppio album unplugged registrato in cinque giorni in presa diretta nel 2009 e uscì per festeggiare i 20 anni trascorsi dal loro debutto discografico SHAKE YOUR MONEY MAKER. Fino a quest'anno l'ultima uscita discografica della band di Atlanta, tornata nel 2022 con il.disco di cover 1972. L'album ripercorre l'intera carriera dei fratelli Robinson, mostrando il lato puramente roots, rustico ed acustico che già predominava in Until The Breeze, la seconda parte della precedente uscita discografica. Mandolini, lap steel, pedal steel e violini rivestono di nuovi abiti "made in americana" le grandi canzoni del loro repertorio, partendo da una 'She Talks To Angels' raccontata cosi da Rich Robinson:" per me, la canzone è semplicemente fantastica. Musicalmente, non mi annoio mai a suonarla, e penso che la melodia e il testo di Chris siano semplicemente fantastici. Per questo disco, è stato solo un gioco da ragazzi per tutti noi. Luther (Dickinson) è eccezionale in questo. Ha le orecchie sempre aperte e ascolta ciò che fanno tutti e aggiunge ciò che deve essere aggiunto". Ci sono poi 'Remedy', 'Soul Singing', 'Sister Luck', per un totale di venti canzoni tra cui la cover di 'She' di Gram Parsons e Chris Ethridge. Registrato al Sunset Sound di Los Angeles ci mostra comunque una band mai così unita e soprattutto alla continua ricerca di semplicità come testimoniarono le loro ultime uscite discografiche, suonate e registrate dal vivo lontane da qualsiasi sovraincisione da studio. Before The Frost...fu registrato nello studio/fienile del compianto Levon Helm davanti a pochi spettatori per essere riversato poi su disco così com'era. Per noi ci fu ancora la possibilità di vederli live nel 2011 e nel 2013 all'Alcatraz di Milano per quello che rimarrà il loro ultimo concerto in Italia per un po' di anni. E poi...? E poi ci si è messo di mezzo il Covid ad annullare la data autunnale della "strana e monca" reunion dei fratelli Robinson, nel 20024 giunta a compimento. 

sabato 23 marzo 2024

RECENSIONE: ROD STEWART With JOOLS HOLLAND (Swing Fever)

 

ROD STEWART With JOOLS HOLLAND  Swing Fever (Warner, 2024)




stasera si balla

Da qualche settimana è uscito questo disco e ne ho letto pochissimo in giro.

Potrei dire: mi sacrifico io ma non lo dico perché è stata una piacevole sorpresa. Sottotitolo: Rod Stewart insegna a Bruce Springsteen come fare dischi di cover che funzionano. Da qualcuno verrò fustigato ma il risultato finale parla chiaro. Basta avere orecchie.

E qui non c'entra il repertorio pescato dal passato ma l'attitudine e l'esecuzione. L'approccio alla materia, i musicisti coinvolti, la registrazione. Il tutto parla di un buon due a zero a favore di Rod.

E dire che le cinque uscite Great American Songbook che hanno monopolizzato i primi dieci anni degli anni duemila vedendolo alle prese con canzoni impolverate e orchestra non erano di buon auspicio: troppo laccate e patinate, a tratti noiose. Forse solo troppe.

Invece si scopre che questa volta l'approccio è differente: serpeggia divertimento, la Rhythm and Blues Orchestra, la big band messa in piedi con Jools Holland, pianista sessantaseienne, dal 1992 conduttore e showman televisivo di Later sulla rete BBC2 ( lì è avvenuto l'incontro con Stewart) con un passato negli Squeeze, è completa di chitarristi, batteria, basso, fiati, coriste e pure ballerini di tip tap.

E pensare che poteva finire peggio, sentendo Rod Stewart: "ho iniziato a realizzare questo album a Los Angeles. Non stava andando come volevo. Era un po' troppo educato. Avevo bisogno di qualcuno con un po' di grinta e mi è venuto in mente quest'uomo. Sapevo tutto del suo passato".

Partito prevenuto, invece eccomi qua a dirvi che qui dentro ci si diverte alla grande e Rod Stewart e Jools Holland si dividono bene i meriti: Stewart, 79 anni, mette la sua voce sempre più logora e vissuta ma ancora dignitosa e capace di caldi abbracci per interpretare standard swing vecchi di un secolo, cose interpretate a suo tempo da gente come Bing Crosby, Doris Day, Billie Holiday e Frank Sinatra, Jools Holland aggiunge quell'esuberanza che mancava ai tanti volumi Great American Songbook. I due hanno scoperto che oltre alla passione per i treni (veri e modellini) sono cresciuti con la stessa musica.

Un disco che sbuffa come un treno in corsa, senza tempo per lenti e ballate: Stewart si lancia in uno scat con 'Oh Marie' di Louis Prima, 'Good Rockin' Tonight' è puro pre rock'n'roll già coverizzato ai tempi da Elvis. 'Love Is The Sweetest Thing' ha il ritmo ska giamaicano, il jazz esce da 'Frankie And Johnny'.

Approccio live su irrefrenabile boogie woogie, jump blues e R&B ('Tennessee Waltz'). Nell'iniziale 'Lullaby Of Broadway' ci sono pure dei danzatori di tip tap. Jools ricorda: “Rod voleva lasciare uno spazio per i ballerini di tip tap, ho detto che avremmo usato i sintetizzatori ma lui mi ha risposto: 'Non voglio nessuna sciocchezza dal sintetizzatore, voglio ballerini di tip tap!'”.

Tutti contenti.







domenica 17 marzo 2024

RECENSIONE: THE ROLLING STONES (Live At The Wiltern)

 

THE ROLLING STONES   Live At The Wiltern 2002 (Mercury/Universal2024)



archivi infiniti

Si sa, quando i Rolling Stones si chiudono dentro alle intime quattro mura di un teatro o di un piccolo locale succedono cose straordinarie, fuori dall'ordinaria sequenza di hit proposte nei grandi spazi. È uscito ufficialmente il terzo concerto che regalarono alla città di Los Angeles durante il faraonico tour Forty Licks che li tenne impegnati nel 2002 e 2003, diciotto mesi, 117 concerti, ottanta canzoni suonate ("il doppio preparate" raccontò Ronnie Wood) , per festeggiare i loro primi quarant'anni di carriera (ma forse sbagliarono i conti): dopo stadio e arena, il meglio nella città degli angeli lo diedero la sera del 4 Novembre 2002 al Wiltern Theatre, un teatro Art Déco del 1931, davanti a circa 2000 persone. Tra il pubblico illustri amici e colleghi come Tom Petty e Neil Young (inquadrati subito dalle telecamere nelle immagini del DVD a supporto), Sheryl Crow, Johnny Depp, Stephen Stills e Eddie Murphy. Gli Stones erano in gran forma, Jagger e Richards sembravano andare d'amore e d'accordo, a Ronnie Wood per il tour venne pure chiesto di ripulirsi. "Per la prima volta da quando ero uno Stone, sarei andato in tour con la band da sobrio...il tour Forty Licks doveva festeggiare i quarant'anni degli Stones. Nessuna band di rock'n'roll era arrivata così lontano. Eravamo entrati in un territorio non segnato dalle mappe".  Charlie Watts era il solito collante elegante, preciso e compassato che teneva uniti i pezzi.

La tappa di riscaldamento del tour fu suonata a sorpresa al Palais Royal Ballroom di Toronto con poche centinaia di persone ma fu questa data al Wiltern che passò alla storia. 

"Non potremmo davvero fare un intero tour facendo spettacoli prevedibili. Dobbiamo avere canzoni imprevedibili" racconta Wood.

Mick Jagger: "rende tutto interessante per il pubblico e la band. Ho dovuto pensare molto di più alle scalette di quanto avessi mai fatto".

Tutto sembra iniziare  nel modo più classico però con 'Jumpin Jack Flash' (in una normale discografia di una normale band verrebbe usata negli encore, sempre che una band "normale" possa vantare qualcosa di simile) con le chitarre di Wood (in canotta da spiaggia) e Keith Richards (in divisa militare) che si intrecciano, Jagger di blu vestito aizza il pubblico come se avesse davanti 100.000 persone. Ma mano a mano che avanzano le due ore di concerto ecco arrivare una tiratissima  'Live With Me' da Let It Bleed con il sax del compianto Bobby Keys che entra prepotente in scena. Durante il rock’n’roll di 'Neighbors', con le coriste e il piano di Chuck Leavell, sembrano divertirsi tutti un mondo mentre il pubblico è già tutto in piedi. Come altrimenti?  

"A volte in viaggio il tempo è brutto e metà della band è giù per qualcosa, ma a parte quei giorni ovviamente tristi, c'è un'incredibile freschezza in questi ragazzi" raccontò Richards.

L'atmosfera è rovente, Jagger si toglie la giacca di pailettes blu eseguire per una 'Hand Of Fate' dal mio adorato Black In Blue. Richards continua a lanciare e regalare plettri, assottiigliando  ancor di più la minima distanza tra rockstar e pubblico.

Quando Jagger imbraccia un'acustica parte 'No Expectations' ma gli occhi sembrano tutti puntati su Wood che sembra avere qualche problema con la slide, subito risolto. Dopo un classico come 'Beast Of Burden' ecco una 'Stray Cat Blues' con l'assolo al basso di Darryl Jones, il funky rock di 'Dance, Part 1' estrapolato da Emotional Rescue  è tutto pane per la boccaccia di Jagger (che tra l'altro sembra dimenticare pure da che album provenga) mentre gli ottoni si scaldano per uno dei momenti clou del concerto con la breve entrata in scena di Solomon Burke che in precedenza aveva aperto il concerto, presenza imponente e bastone in mano per una sempre coinvolgente 'Everybody Needs Somebody To Love' e l'incoronamento di Jagger a "king del  rock'n'roll" da parte di Burke. Jagger pare imbarazzato per troppa grazia. Si pesca lontano con 'That's How Strong My Love Is', catapultati nel 1965 e ci si rimane con la cover 'Going To A Go-Go' successo dei Miracles di Smokey Robinson. Dopo la presentazione di tutti i protagonisti da parte di Jagger (c'è anche Jim Keltner alle percussioni), arriva il momento di Richards che si cimenta alla voce con 'Thru And Thru' presa da Voodoo Lounge e la reageaggiante 'You Don't Have To Mean It'.

Altro momento di incorniciare e portarsi a casa sono i nove minuti di 'Can't You Hear Me Knocking?' canzone corale con l'intermezzo jazzato colorato dal solo al sax di Keys e  quello di Jagger all'armonica. Prima del gran finale, c'è il tempo per il blues di B.B. King 'Rock Me Baby'. Si va poi in discesa negli ultimi 25 minuti. In successione: 'Rock Me Baby', 'Bitch', 'Honkey Tonk Women', 'Start Me Up', 'Brown Sugar' (con i coristi Blondie Chaplin e Lisa Fisher che si prendono la scena) e 'Tumbling Dice'. 

Come dite? Sono stato prolisso? È la storia che lo impone. Buon divertimento. Live assolutamente da avere.