giovedì 26 giugno 2025

SAVATAGE live@Alcatraz, Milano, 24 Giugno 2025

 


Gods Of Metal nel Giugno 2001: durante l'esibizione dei suoi Motorhead, Lemmy indirizza un sonoro "fuck you" ai Savatage che nel palco opposto al loro, dentro al defunto Palatrussardi, o Palasharp, o come si chiamasse all'epoca non ricordo, stanno facendo un soundcheck piuttoso rumoroso (quell'edizione fu ricordata per l'assurda presenza di due palchi uno opposto all'altro). Ecco:  del concerto dei Savatage che suonarono immediatamente dopo i Motorhead ricordo solo quel sonoro "vaffanculo". Stavano portando in giro il controverso e difficoltoso da portare a termine Poets And Madmen, Zak Stevens era uscito dal gruppo, sostituito da un certo Damond Jiniya (che fine avrà fatto?). Un concerto non certo memorabile che li porterà piano piano a sciogliersi un anno dopo. Memorabili  furono invece i tre precedenti che vidi: nelle viscere dell'inferno del Rainbow a Milano nel 1996, concerto  che in una recente intervista Jon Oliva ha ricordato come uno dei più caldi della sua carriera, nell'esotico tendone del Palacquatica sempre a Milano nel 1997 in una versione serra con tanto di condensa misto sudore che pioveva nelle nostre teste e a due passi da casa al Babylonia di Biella nel 1998, quando a cinque minuti di macchina mi vedevo anche tre concerti a settimana. E che concerti!

E come memorabile, seppur fresco di nemmeno 24 ore, è stato il concerto di ieri sera. Uno dei concerti emotivamente più toccanti e  partecipati a cui abbia assistito negli ultimi anni. Le ragioni sono state tante: i Savatage sono tornati a suonare in Italia dopo 24 anni e il pubblico che ha riempito l'Alcatraz si divideva sostanzialmente in chi non li aveva mai visti prima e chi aspettava questo momento da circa un quarto di secolo dopo averli già visti negli anni d'oro. La formazione è quella del tour di Wake Of Magellan, ossia Zak Stevens alla voce, simpatico e coinvolgente con qualche trascurabile pecca vocale, un Chris Caffery alla chitarra che durante 'I Am' dimostra di poter sostuire più che degnamente anche la voce di Oliva volendo, un serafico e compassato Al Pitrelli alla chitarra solista, un Johnny Lee Middleton al basso, sereno e sempre sorridente,  Jeff Plate terremotante anche se nascosto dietro alla sua ingombrante batteria. Più due tastieristi. Già, perché per sostituire Jon Oliva, assente giustificato in riabilitazione dopo una brutta caduta, ci vogliono due musicisti. Ma l'ingombrante ombra di Oliva sembra sempre presenziare durante tutte le canzoni (lui ha dato l'ok per continuare comunque un tour già programmato anche senza la sua presenza) per poi materializzarsi davanti ai nostri occhi sul megaschermo, seduto davanti a un pianoforte in sala di registrazione (il prossimo anno uscirà un nuovo disco, si spera), mostrando tutti i segni fisici del tempo che però non hanno scalfito la voce che apre e chiude una commovente 'Believe' dedicata al fratello Criss. Uno dei tanti momenti da lacrima facile e pelle d'oca. La scelta di dare maggior spazio alle canzoni di The Wake Of Magellan invece (se ne conteranno sei), la vedo come un gesto di continuità con la propria carriera: se ai tempi fosse continuata come doveva, il concerto sarebbe stato questo.


Con 'Welcome' a dare il benvenuto allo show e la strumentale 'The Storm' per mettere in risalto la perizia strumentale.

 I Savatage non sono mai stati personaggi da prima pagina (singolare il fatto che raggiunsero il picco di notorietà dopo la morte di Criss Oliva): lo stupore davanti a un pubblico che ha cantato tutte le canzoni, dalla prima all'ultima (20 in scaletta, 1 ora e 50 la durata) e la tanta voglia di suonare e star bene si legge in faccia a ognuno di loro. Quando i musicisti suonano divertendosi si crea una speciale e naturale alchimia con i fan. Qualcosa di magico (semplici e azzeccati anche i  fondali con le copertine dei dischi), palpabile, sontuoso, che si percepiva ad ogni nota suonata. In tempi in cui le basi preregistrate abbondano, i Savatage tirano fuori l'antica artiglieria da veterani: gli intrecci vocali di una canzone come 'Chance' non sono da tutti, nemmeno i Queen ripetevano live certi cori registrati in studio, i Savatage sì. Una scaletta dove hanno trovato posto l'epicità di metà carriera ('Edge Of Thorns', 'All That I Bleed', 'Dead Winter Dead', 'Handful Of Rain') e la grezza attitudine power metal made in USA dei primi sei dischi (il crescendo di 'Gutter Ballett' sempre da brividi, 'Strange Wings', 'Sirens', 'Jesus Saves') che tocca il culmine con un finale d'altri tempi con 'Power Of The Night' e 'Hall Of The Mountain King' con Stevens a ringhiare come avrebbe fatto Oliva.

Riavvolgendo il nastro: dopo pochi mesi da quel Giugno del 2001 il mondo sociale e politico cambiò per sempre con gli attentati del 11 Settembre. Dopo ventiquattro anni si spera sempre che qualcosa sia cambiato. In meglio. Sbirciando fuori di casa ti accorgi che non è così. Tutto è immutato, perfino peggiorato. Con la musica, invece, speri che tutto rimanga uguale a vent'anni prima, perché, di solito, invecchiando si peggiora. I Savatage no, sembrano essere rimasti lì, quelli di sempre. Congelati. Un buon segno per il disco nuovo che arriverà. In più: il jolly da calare di nome Jon Oliva che se si dovesse rimettere in forma potrebbe regalarci ancora tante altre soddisfazioni. Serata da segnare e archiviare tra i concerti della vita. Ebbene sì.



Foto: Enzo Curelli


martedì 24 giugno 2025

RECENSIONE: JAMES McMURTRY (The Black Dog And The Wandering Boy)


JAMES McMURTRY  The Black Dog And The Wandering Boy (New West Records, 2025)




parole al posto giusto


In questi giorni si fa fatica a pensare che Donald Trump e James McMurtry siano entrambi cittadini americani. Mentre uno in una spirale di delirio misto di demenza e onnipotenza dice cose e ne fa altre, fa cose e dice il contrario quasi fosse dentro a un reality tv da consumare di giorno e dimenticare di notte con l'unico grave difetto di tenere  sotto scacco l'intero mondo, McMurtry da seguito al precedente e ottimo The Horses And The Hounds mantenendo lo stesso livello di scrittura di sempre: alto, tendente all' altissimo. Uno di cui ci si può sempre fidare, insomma. Un candidato alla presidenza perfetto.

"Segui le parole dove ti conducono. Se riesci a creare un personaggio, forse puoi creare una storia. Se riesci a impostare una struttura strofa-ritornello, forse puoi creare una canzone" dice lui come fosse una delle cose più semplici da fare. Il manuale del perfetto songwtiter è aperto ma non sono tantissimi quelli che l'hanno studiato come ha fatto McMurtry durante la sua ormai lunga carriera, cosparsa di dischi usciti però con parsimonia temporale.

Togliendo il capo e la coda del disco, due canzoni non sue, la prima da tempo nelle  setlist, il tagliente rock 'Laredo (Small Dark Something)' dell'amico texano John Dee Graham che indaga sulle dipendenze e i confini, l'ultima 'Broken Freedom Song' un raggio di speranza per il futuro cotruito però dalle profonde  cicatrici della vita, è una rilettura omaggio di un altro texano sconparso recentemente, Kris Kristofferson, faro guida per le generazioni che arrivarono dopo, in mezzo, nelle restanti otto canzoni un campionario esaustivo della sua scrittura. Personali e lucide riflessioni sull'invecchiamento come 'South Texas Lawman' dove il protagonista ripete "non sopporto di invecchiare, non mi si addice" e il blues della title track, in crescendo con l'esplosione nell'assolo di chitarra, che in accoppiata con il disegno di copertina, schizzo di Ken Kesey, ricordano il padre Larry romanziere scomparso nel 2021 che ha vissuto gli ultimi anni di vita con la compagnia della demenza; stoccate politiche messe giù con arguzia (per chi preferisce  la pancia c'è Neil Young) come 'Annie' che ritorna indietro all'Undici Settembre e alla presidenza di George W. Bush (con l'aiuto vocale e il banjo della texana Sarah Jarosz), momenti più leggeri disegnati con sottile ironia dove a contare sono sempre i dettagli e l'incastro delle parole che donano il ritmo come succede in 'Pinocchio In Vegas' dove rilegge da par suo la favola di Pinocchio donandole attualità e rivestendola con suoni d'archi o la descrittiva e più leggera 'Back To Coeur D'Alene' viaggio lungo i sempre affascinanti, se raccontati bene,  paesaggi americani con l'organo suonato da Red Young in evidenza.

Si fa aiutare in produzione da una vecchia conoscenza come Don Dixon, i fidati musicisti di sempre (BettySoo alla fisarmonica e cori, Cornbread al basso, Tim Holt alla chitarra e Daren Hess alla batteria) più qualche ospite (Sarah Jarosz, Charlie Sexton, Bonnie Whitmore e Bukka Allen) in dieci canzoni forse poco omogenee nei temi trattati rispetto al passato, McMurtry affonda bene nel tempo e nella storia, da attento osservatore raccoglie personaggi noti e "qualunque", perdenti e finti vincenti, percorre strade spesso secondarie, dipinge fondali e visita paesaggi. Più omogeneo musicalmente, con poche vere stoccate elettriche, ma giocando preferibilmente tra le ombre elettro-acustiche delle radici.

'The Color Of Night' rappresenta bene quanto musica e parole tarate con minuziosità di particolari possano viaggiare bene insieme. Ed è un bel viaggiare.

Tornando all'inizio: in 'Sons Of The Second Sons' McMurtry sembra proprio rivolgersi alla recente presidenza Trump, quando scavando indietro nella breve storia degli USA porta a galla malesseri e malattie che nonostante il tempo trascorso, a questo punto un "invano" ci può stare, sembrano rimanere croniche.

No,  Trump e McMurtry non possono essere figli della stessa terra, ci dev'essere un errore. Cotanta cialtroneria non può correre in parallelo con questa limpida visione delle cose. 





sabato 21 giugno 2025

RECENSIONE: WILLIE NILE (The Great Yellow Light)

WILLIE NILE  The Great Yellow Light (River House, 2025)





sing me a song

Lo so, travolti da mille uscite il nuovo disco di Willie Nile, il ventunesimo della sua carriera, rischia di passare velocemente con il marchio "l'ennesimo disco" stampato sopra. Io invece ad ogni nuova uscita del piccolo uomo di Buffalo esulto perché so che dentro ci troverò ancora la passione e la coerenza che lo hanno seguito fin dal principio. Cose rare in tempi che vogliono che tutto scorra veloce, possibilmente diverso per poter stupire. Avanti il prossimo. Un debutto, il suo, uscito nel 1980, un disco di canzoni straordinarie, perfettamente in bilico tra il vecchio folk, sporco di polvere preziosa, tramandato dal Greenwich Village, i sixties marchiati da una Rickenbacker dei Byrds e l'assalto urbano del punk rock che visse sulla propria pelle in anni irripetibili che oggi sembrano veramente preistoria del rock. Quella da studiare a scuola.

Quando tra il CBGB e il Max's Kansas City potevi stringere amicizie, rubare consigli a Patti Smith, Ramones e Television, tenendo una radio sempre sintonizzata dall'altra parte dell'oceano, in UK. 

Sono passati quarantacinque anni, nel mezzo Nile, dopo anni di esilio forzato dalla musica, è tornato prepotentemente ad agitare le mille chitarre, scrivere canzoni, incidere dischi, girare il mondo, e camminare per le vie della sua amata  New York con lo stesso impeto e lo sguardo sempre curioso di allora, occhi penetranti che si posano su loser e marciapiedi poco frequentati e quando lo sono, calpestati da chi non ha più nulla da perdere.

Forse non è più disincantato come allora, c'è più consapevolezza, ma la sincerità è sempre la stessa. Come l'attitudine da rocker, ribelle e romantico insieme che si chiede qual è il colore dell'amore nella riflessiva 'What Color Is Love', canta inni che sono una sorta di chiamata alle armi per tutti quelli che vogliono un mondo migliore di questo, sotto il ritmo incalzante di 'We Are We Are' o dimostra che a 77 anni si possa ancora pestare duro in 'Electrify Me', punk rock nervoso e immediato che rincorre la giovinezza ma pare con il fiato ancora buono.

Allora sei sicuro che mettendo su queste nuove dieci canzoni ci puoi trovare ancora tutta la curiosità, l'impegno (fin dal classic rock d'apertura 'Wild Wild World') e l'ironia di sempre che esce prepotente in canzoni come 'Tryin' To Make A Livin' In The USA'.

"Le mie canzoni sono molto semplici, ma scrivo di cose che vedo. Adoro l'ampia tavolozza. Adoro questa enorme tela bianca. Puoi scrivere d'amore, di perdita, di feste il sabato sera, di dolore, di estasi..." ha detto recentemente in una intervista. 

E proprio da delle tele si è ispirato per la title track, ballata squarciata da fulmini elettrici: quelle di  Vincent Van Gogh venute in dono grazie alla luce mediterranea di Arles che ispirarono molte opere "luminose" durante il soggiorno francese del pittore e che in qualche modo la bella foto di copertina, scattata in un piccolo tendone da circo europeo  dalla moglie e fotografa Cristina Arrigoni, vuole rappresentare e sottolineare. 

Un invito a cogliere i migliori momenti della vita, anche in periodi cupi come questi, ben raccontati dall'accoppiata a fine disco formata una 'Wake Up America' , uscita già un paio di anni fa e cantata insieme a Steve Earle, uno che ha sempre viaggiato dalla parte giusta, dove si domanda dove sia finita l'America che conosceva ("anche se la nostra storia è costellata di dolore e ingiustizia e le divisioni tra noi sono più grandi che mai, so che possiamo fare di meglio" disse presentando la canzone) e le speranze di libertà affidate alla conclusiva 'Washington's Day' con la presenza di Rob Hyman e Eric Brazilian degli storici Hooters.

Un disco corale, registrato all' Hoobo Sound nel New Jersey e prodotto insieme a Stewart Lerman, che oltre ai già citati ospiti, alla sua fedele band che lo accompagna live composta da Jimi Bones alle chitarre elettrica, Johnny Pisano al basso Jon Weber alla batteria, vede anche il cantautore irlandese Paul Brady in 'Irish Goodbye', folk non troppo lontano dai Pogues che proprio in questi giorni l'amico Little Steven dal suo programma radio ha proclamato canzone della settimana.

E allora speriamo che l'ultimo "arrivederci" scambiato con Willie Nile nell'ultimo suo viaggio in Italia, sua seconda patria, possa materializzarsi presto in qualche nuovo concerto dalle nostre parti, tanto per ribadire quanto il rock’n’roll non abbia bisogno di soli stadi pieni e sterminati luoghi pagati con un rene per espandere il proprio verbo, a volte non c'è bisogno di gridare troppo, il messaggio arriva chiaro e forte anche nei piccoli club delle periferie del mondo.


Foto: Enzo Curelli



giovedì 12 giugno 2025

RECENSIONE: NEIL YOUNG And The CHROME HEARTS (Talking To The Trees)

 


NEIL YOUNG And The CHROME HEARTS  Talking To The Trees (Reprise, 2025)




famiglia e politica

Ad ogni nuova uscita di Neil Young sembra quasi d'obbligo fare un punto su tutti i dischi che l'hanno preceduta. Bene, salto a piè pari questa pratica, lunga e dispendiosa di tempo e righe.

Talking To The Trees è un disco, il primo di inediti da World Record del 2022, che si infila dentro deciso ai suoi dischi dal piglio country e acustici anche se non mancano un paio di song rumoriste a disturbare l'atmosfera: 'Big Change' che fu il primo singolo, una chiara chiamata alle armi contro le mire espansionistiche  di Donald Trump. Il natio Canada nel mirino. Quando uscì, Young aveva appena annunciato il tour europeo che salta l'Italia ma che sarebbe dovuto passare addirittura in Ucraina per un concerto che avrebbe avuto il sigillo dell'epicità. Poi il peggiorare della situazione fece saltare il tutto.

"Esatto, gente, se dite qualcosa di negativo su Trump o sulla sua amministrazione, potreste essere esclusi dal rientro negli Stati Uniti.  Se siete canadesi ... Se avete la doppia cittadinanza come me, chi lo sa? Lo scopriremo tutti insieme...".

C'è poi 'Lets Roll Again': che a Neil Young stia particolarmente sul culo Donald Trump lo avevamo già capito cinque anni fa quando fece uscire l'Ep The Times che conteneva una versione riveduta e corretta della sua vecchia 'Looking For A Leader' dove cantava: "non abbiamo bisogno di un leader  che costruisce muri intorno alle nostre case, che non conosce Black Lives Matter, è ora di mandarlo a casa". Non solo Trump non andò a casa ma ritornò.

Ora, in 'Lets Roll Again', una riscrittura di 'This Land is Your Land' di Woody Guthrie ('Silver Eagle' che la precede pure ma in acustico con parole d'amore per il tour bus), che nel titolo rimanda anche alla sua vecchia 'Let's Roll' presente su Are You Passionate? non le manda a dire a  Elon Musk: "se sei un fascista, allora prendi una Tesla, se è elettrica, non importa, se sei un democratico, assapora la tua libertà, prendi quello che vuoi, e assapora la tua libertà”.

Ad accompagnarlo in questa nuova avventura ci sono i  Chrome Hearts, ossia: Micah NelsonCorey McCormickAnthony LoGerfo, tutti presenti nei Promise Of The Real, e il vecchio compare Spooner Oldham, gli stessi che lo accompagneranno in tour da inizio Giugno. A produrre l'aiuto del novantenne Lou Adler.

A fare da ponte verso i prevalenti momenti acustici, lo sferragliante blues 'Dark Mirage'  dove tira in ballo sua figlia Amber Jean e la ex moglie Pegi, scomparsa nel 2019. E sono proprio i quadretti famigliari a uscire con maggior frequenza tra i testi: Family Life', un  folk con armonica che la sua attuale voce rende sgangherato, tanto da sembrare uscita  da American Stars And Bars, 'First Fire Of Winter' è 'Helpless' con un altro testo, altro monumento alla vita domestica e bucolica con la moglie Daryl Hannah , quella che abbiamo ammirato durante il lockdown con i suoi video davanti al caminetto.

Sono però le quattro canzoni finali quelle più interessanti: 'Talkin To The Trees', un classico Neil Young acustico, ecologista, che cita pure Bob Dylan tra le righe, una speranzosa 'Movin Ahead', dove finalmente si sente  Spooner Oldham, canzone quasi inusuale nel suo repertorio, 'Bottle Of Love', ballata al pianoforte e la finale 'Thankful' un dolce e rarefratto country che trova la sua collocazione ideale su Comes A Time.

Il vecchio Neil, alla soglia degli ottant'anni, continua in qualche modo la sua battaglia, continuando a vivere la sua vita agreste che pare concedere poco ai lussi. Sì ok, il suo parco macchine è grande come quello di un concessionario però scarpe grosse, t-shirt e camicia a quadri sono quelle di sempre.  Sicuramente non è un disco epocale anche se uno dei migliori dell'ultimo decennio,  ma come sempre, ultimamente, per lui sembra contare più il messaggio (ricorda l'incompiutezza e la genuinità di Peace Trail) e Neil Young ci ha sempre messo la faccia con onestà, coraggio e un po' di quella sana ingenuità che ce lo fa ancora amare anche ora che la voce è debole, spesso copia se stesso,  nessuna di queste canzoni entrerà in un suo greatest hits ma il cervello sembra funzionare ancora molto bene, sia nel riparo della sua fattoria, sia quando mette fuori la testa osservando l'involuzione della società.




lunedì 9 giugno 2025

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 87: THE ROLLING STONES (Some Girls)

The ROLLING STONES  Some Girls (CBS, 1978) 


 “Volevamo essere più punk dei punk. Pensavamo, loro non sanno suonare, noi sì”. Keith Richards.


 

Some Girls rappresentò un importante e salvifico segnale di vita. Così immerso nella seconda metà dei settanta, dopo un album da spiaggia caraibica (mica tanto) come Black and Blue (oh, io lo adoro) e con i piedi immersi totalmente dentro alla rivoluzione punk che diede la caccia feroce ai dinosauri del rock. E gli Stones poco più che trentenni erano già animali preistorici per molti. Gli Stones non potevano affondare dentro alla melma che loro stessi contribuirono a foraggiare per attitudine e suoni. Un colpo di coda sfavillante partorito da una delle loro sedute di registrazioni più lunghe e prolifiche in assoluto (vedere la deluxe edition uscita qualche anno fa): entrarono negli studi parigini  nell’Ottobre del 1977, ne uscirono fuori nel Febbraio 1978. “Parigi è sempre stato un bel posto per gli Stones, motivo per cui mi piace registrare là. È un luogo molto più calmo, senza la solita fan-mania, solo tossici e spacciatori” parola di Ron Wood. Bene.

Uscito nel 1978 con una geniale copertina di Peter Corriston, che inseguendo Warhol, crea un giornale vintage che nell'originale idea doveva immortalare importanti e famose star femminili del cinema e dello spettacolo (tra cui la nostra Sophia Loren), ma che per motivi di copyright e beghe legali divenne una sfilza di parrucche con i volti intercambiabili dei componenti del gruppo. Anche alcuni versi della canzone ‘Some Girls’  (un blues con l’armonica di Sugar Blue) vennero fraintesi, creando  non pochi problemi.

SOME GIRLS rimane, per qualcuno, l'ultimo vero colpo di coda della band, calcolando che i seguenti Emotional Rescue e Tattoo You gli devono molto. Il primo estremizzò l'esperimento, il secondo fu un buon album ma costruito con tante canzoni provenienti dalle prolifiche session parigine. 

Le sedute di registrazione per Some Girls ebbero sempre il vento in poppa dal primo momento in cui cominciammo le prove negli studi parigini Pathè Marconi…fu come ringiovanire, una cosa sorprendente per quel momento così buio, quando era possibile che sarei andato in prigione e che gli Stones si sciogliessero. Ma forse in parte era per questo. Mettiamo giù qualcosa prima che succeda”, scriverà Keith Richards in Life.

È proprio ‘Miss You’, messa lì all'inizio, a far capire quanto gli Stones potessero giocare ancora a loro piacimento con la musica. In verità ‘Hot Stuff’ anticipò il giochetto di un paio di anni. La disco music che imperava venne assorbita, digerita e risputata fuori con un brano disco/funk, appiccicoso e contagioso nel suo coro ma che emana groove e sensualità, venuto in dono a Jagger frequentando lo Studio 54 e dall’intuito di Billy Preston che segnò la strada da seguire. Jagger ci va a nozze e forse fu l'inizio di un abuso per tante future mosse.

Il resto del disco però va da tutt'altra parte. Un disco di strada, chitarristico (Richards usò un pedale nuovo, MXR, un riverbero) e prodotto grezzamente il giusto, con pochi interventi esterni. Un disco marcato Jagger ma le chitarre di Richards e Wood (fu il suo primo vero disco dopo il battesimo di Black And Blue) sono protagoniste, nonostante il buon Keith in quegli anni continuava a bisticciare con le porte dei carceri (l’arresto a Toronto nel 77) e le tasche delle giacche piene di droghe. Come egli stesso racconta nella biografica ‘Before They Make Me Run’. L'aggressiva ‘When The Whip Comes Down’ con Jagger che si unisce alla terza chitarra, ‘Respectable’, ‘Lies’, i paesaggi urbani di ’Shattered’ presentano tipiche rasoiate quasi punk e sbeffeggianti verso qualunque novizio Steve Jones di turno. “Volevamo essere più punk dei punk. Pensavamo, loro non sanno suonare, noi sì” sempre Richards a rincarare la dose. 

Ma c’è molto di più appunto: il piacevole retrogusto country di ‘Far Away Eyes’ evidentemente  ispirata dall’amico Gram Parsons, scomparso qualche anno prima e con Ron Wood alla pedal steel, l’omaggio al soul con la cover di  ‘Just My Imagination’ dei Temptations e il secondo singolo ‘Beast Of Burden’, ballata che diventerà un classico e segno che i Rolling Stones erano  tutto fuorché dei dinosauri passati di moda.





lunedì 2 giugno 2025

JERRY CANTRELL live@Magazzini Generali, Milano, 1 Giugno 2025

 


L' ultimo disco solista I Want Blood, uscito lo scorso anno, aveva tutte le peculiarità per uscire con il nome Alice In Chains stampato sopra per quanto in grado di irrorare anni novanta da ogni solco. Se alle cinque canzoni estratte da quel disco eseguite stasera (dalla heavy title track alla melodica Afterglow), aggiunge altri cinque brani degli Alice In Chains messi in scaletta, Dirt a dominare (Them Bones, Man In The Box, Would?, Rooster e una straordinaria e sabbathiana Hate To Feel dedicata a Layne Staley, per me vertice assoluto del concerto) per un attimo mi è parso di essere catapultato indietro tra il 1992 e il 1996, almeno fino a quando mi sono toccato la testa in cerca dei miei capelli, trovando solo sudore. Jerry Cantrell, t-shirt con Mickey Mouse, si conferma ultimo depositario di certi suoni, sempre fedele a sé stesso ma comunque in cammino, chitarrista eccelso (forse sempre troppo sottovalutato?), emotivamente coinvolto nelle sue liriche quando certe ferite erano ancora fresche, due gli estratti rispettivamente da Degratation Trip del 1998 (apertura affidata a Psychotic Break) e Boggy Depot (2002) i primi due album solisti e con i bei contrasti di luce e ombra del più acustico e seventeen Brighten (2021) (belle le sfumature roots di Atone). Cantrell continua a scavare nell'oscurità dell'anima e del mondo lasciando sempre delle fessure  aperte per dei raggi più luminosi di speranza.

Ha funzionato tutto a meraviglia in un locale sold out (forse troppo stretto e sacrificato per il gran numero di persone) e con un pubblico coinvolto e affettuoso che ha cantato vecchie e nuove canzoni dall'inizio alla fine (un'ora e quaranta minuti la durata).

Peccato per una batteria che spesso ha sovrastato tutto, questa la percezione dalla mia postazione (certamente Roy Mayorga è uno che pesta giù duro ma l'acystica in generele non era il massimo, mentre Eliot Lorango al basso e Zach Throne alla seconda chitarra hanno lavorato di fino e mestiere) ma vorrei inveve  sottolineare lo splendido e rispettoso lavoro alle voci di Greg Puciato (ex Dillinger Escape Plan) nelle sempre difficili e ingombranti parti vocali di Staley: l'intreccio e il sincrono con la voce di Cantrell sono stati perfetti.



Foto: Enzo Curelli


sabato 31 maggio 2025

TYLA'S DOGS D'AMOUR live@RockNRoll Club, Rho, 29 Maggio 2025

 


Tyla si conferma l'ultimo dei banditi vagabondi. Fa riemergere il nome Dogs D'Amour dal profondo degli abissi esistenziali, raccatta quattro filibustieri dalla penisola iberica (The Jerrycans) e riparte in tour a raccontare la sua lunga e travagliata storia, recentemente rimessa in circolo con un cofanetto che raccoglie quei primi meravigliosi anni, a cavallo tra gli ottanta e i novanta, quando Londra si confondeva con Los Angeles e Stones, Johnny Thunders, New York Dolls e Hanoi Rocks erano una sola persona. E In The Dynamite Jet Saloon, Errol Flynn e Straight, dischi da mandare a memoria.

Mentre i suoi sodali sono pronti sul palco con i jack attaccati, lui è perso chissà dove? Forse seduto al tavolo del bar con un bicchiere in mano, a firmare ancora autografi, vecchi album e CD, pagine di magazine datati primi anni novanta, disegnare (altra passione viscerale) dediche con un pennarello nero su fogli A4 come ha fatto durante tutto il pre concerto.

"Tyla, Tyla, Tyla!!!". Si alza il grido dei suoi compagni e noi dietro. Nulla. Il bassista posa lo strumento e va a cercarlo, mentre il resto della band jamma sulle canzoni degli Stones.

Eccolo arrivare con tutta calma con i suoi sandali da "cammino di Santiago", i piedi fasciati e un bicchiere in mano. Nulla, appena attacca la chitarra e inizia a cantare le sue storie da marciapiede tra degrado e malinconico romanticismo, selvagge e disperate, con quella voce che il tempo ha corroso ancor di più (a tratti pare Tom Waits) gli perdoni tutto: anche canzoni iniziate e interrotte per tre volte,  consigli ai chitarristi (tre chitarre sul palco) sugli accordi da usare, quando dopo ogni canzone posa il suo culo sulla sedia posizionata davanti alla batteria per riposarsi pochi secondi. Fino al finale con la corale Errol Flynn, senza troppe "scenate" , come dice lui.

È stato un concerto totalmente imperfetto ma proprio per questo il perfetto concerto rock’n’roll che vorresti vedere sempre.  Attitudine e carisma non si cancellano con  gli stracci degli anni che passano: le consumi ma rimarranno in eterno. Autentico fino alla fine dei suoi giorni.

"How come it never rains?".





sabato 17 maggio 2025

RECENSIONE: COUNTING CROWS (Butter Miracle, The Complete Sweets!)

 

COUNTING CROWS  Butter Miracle, The Complete Sweets! (BMG, 2025)





il più classico dei ritorni


L' abitudine, la moda, la necessità di far uscire Ep di pochi pezzi con me non ha mai attecchito troppo. Mi sono perso tante uscite di tanti artisti costruite in questo modo. Così anche per i Counting Crows che quattro anni fa fecero uscire quattro nuove canzoni a distanza di sette anni dall'ultima uscita discografica, mi persi quelle canzoni. Come se non fossero mai veramente uscite. Sì ok, se non compro il supporto fisico, difficilmente ci torno su una seconda volta. Fortunatamente oggi è uscito Butter Miracle The Complete Sweets! che riprende quei quattro brani, a cui ne aggiungono cinque nuovi facendolo diventare a tutti gli effetti il vero successore del precedente Somewhere Under Wonderland.

 Un ritorno all'urgenza espressiva, ben in evidenza fin dall'apertura 'With Love, From A-Z', rock blues su cui Adam Duritz scolpisce l'autobiografico testo che i chitarristi  David Bryson, Dan Vickrey e David A. Immergluck rendono teso e vibrante il giusto.

"È strutturata come una canzone folk. Ma non volevo che fosse una canzone con la chitarra acustica" ha raccontato Duritz.

Momenti rock come 'Spaceman In Tulsa', la quintessenza del loro suono che pare uscire dai novanta ("parla di gente traumatizzata che trova un posto nel mondo grazie al rock o a qualche altra forma d’arte. In un certo senso è una celebrazione, dice che puoi sopravvivere e stare bene anche se vieni da un brutto posto"), anche più energici del solito come succede in 'Boxcars' con il suo riff dal piglio  hard glam che si alternano a ballate come 'Virginia Through The Rain'  con il pianoforte di Charles Gillingham a prendersi la scena e condurre il gioco. Nell'ariosa 'Under The Aurora' compare una sezione d'archi di memeroia beatlesiana mentre Duritz ci invita ad osservare il mondo da un'angolazione diversa: in fondo molte i queste nove canzoni sono nate durante la pandemia.

La seconda parte del disco, quella già conosciuta (ma riveduta e corretta), è a tutti gli effetti una lunga suite di quasi venti minuti che porta alla finale 'Bobby And The Rat-Kings' dove Duritz gioca a fare lo Springsteen, e la band lo asseconda dividendosi tra la E Street Band periodo The Wild The Innocent And The E Street Shuffle e gli Who di Next's Who, riferimenti palesi e dichiarati. Tra omaggio e continuità con un modo di intendere il rock che sa ancora di antica classicità nel suono compatto della band e nei testi narrativi di Duritz.

Pur nato in due periodi diversi e distanti anni tra loro, è un disco che viaggia bene, dai toni caldi e avvolgenti, buona scusa per caricare ancora una volta  valige e strumenti e ripartire in tour, dove non deludono mai.





martedì 13 maggio 2025

RECENSIONE: CRISTIANO GODANO (Stammi Accanto)

CRISTIANO GODANO  Stammi Accanto (Al-kemi Records, 2025)




dentro le ferite

Mi Ero Perso Il Cuore, il precedente disco solista di Cristiano Godano, il primo, uscito nel 2020 è stato per me una delle più belle sorprese di questi ultimi anni. Un disco di ballate molto intime, poetiche, rarefatte, dall'anima folk, acustiche con l'America di Neil Young e Bob Dylan  come faro guida e lontanissime da quanto proposto dalla sua band madre. 

 A cinque anni di distanza ecco il seguito che percorre le stesse strade. Non più una sorpresa ma una conferma. Otto canzoni scritte durante la pandemia, accantonate, messe a riposo, lasciate a decantare per qualche anno e ora riportate in superficie, nella penombra di questi tempi duri e difficili. Il periodo che stiamo vivendo non è così diverso da quella assurda parentesi che ci ha coinvolti tutti, e queste canzoni figlie di quelle incertezze non hanno perso la loro attualità. Canzoni dalla profondità abissale ma dai tratti gentili, tanto quanto cariche di speranza ("eppure so che devo continuare a cercare poesia e bellezza per noi" canta in 'Eppure So'), guidate ora da un organo, da un pianoforte ('Stammi Accanto'), dalla chitarra acustica, dagli archi (una 'Eppure So' che sembra richiamare Eugenio Finardi). Tra citazioni (Battiato in 'Cerco Il Nulla'), intricate incursioni nei rapporti ('Ti Parlerò), i lenti passi di valzer country di 'Vacuità', si sente ancora tutto l'amore per Neil Young in 'Nel Respiro Dell'Aria' (quel banjo), nel frattempo portato in scena nei bellissimi e intimi concerti (Journey Through The Past) eseguiti in compagnia di Alessandro "Asso" Stefana negli ultimi anni. E proprio Stefana che con i suoi Guano Padano hanno accompagnato Godano nei primi concerti di presentazione di questo nuovo disco dove invece hanno suonato Vittorio Cosma e gli Ustmamò, Luca Rossi (anche co-produttore), Ezio Bonicelli e Simone Filippi. Ah dimenticavo: 'Dentro La Ferita', altra canzone che pare uscire da Harvest, ospita Samuele Bersani. Fragile, intimo e a suo modo potente e penetrante.





venerdì 2 maggio 2025

MICHAEL SCHENKER live@Alcatraz, Milano, 1 Maggio 2025

Foto: Enzo Curelli


Primo Maggio 1974, uscì Phenomenon, il primo disco della nuova era della band inglese guidata da Phil Mogg e Pete Way, dopo due dischi orientati verso la psichedelia dell'epoca. La svolta musicale si orienta verso l'hard rock e il talentuoso e non ancora maggiorenne Michael Schenker, prodigio della chitarra pescato dai tedeschi Scorpions fu la via verso il successo degli anni settanta segnato da dischi come Force It, No Heavy Petting, Lights Out, Obsession e il live Strangers In The Night, uscito nel 1979 quando il biondo chitarrista, artisticamente geniale quanto sregolato nella vita, aveva già salutato tutti per intraprendere la carriera solista, lasciando però la sua firma fatta di riff e assoli nei solchi di quel doppio album live che diventò a suo modo epocale.

Primo Maggio 2025, Michael Schenker, fresco settantenne, in un Alcatraz pieno ma non troppo ma nella sua versione dimezzata  (sarà la data con ponte annesso la causa?), presenta proprio quei suoi anni settanta con gli UFO ricalcando la scaletta del tour del 1978 che diventò poi Strangers In The Night (manca solo Out In The Street ma ci sono: Hot 'N' Ready, Reasons e un medley con Lipstick Traces e Between The Walls).

 L'anticipo è stato l'ancora fresco album in studio con ospiti che già dalla copertina riprende quella originale elaborata da Hipgnosis.


Ad accompagnarlo Bodo Schopf alla batteria, Barend Courbois al basso e Steve Mann a tastiere e seconda chitarra.

Alla voce pesca il jolly: lo svedese Erik Grönwall, 37 anni, già con Heat e Skid Row, uno dei migliori talenti vocali di questi ultimi anni, fresco vincitore della sua battaglia contro la leucemia. Il ragazzo fortunatamente è tornato in forma e difficilmente sta fermo, impugna l'acustica quando necessario e si catapulta tra le transenne, rubando selfie e cori.

La freschezza e l'entusiasmo di Grönwall non possono che fare ulteriore bene a canzoni con cinquant'anni sul groppone anche se i riff leggendari di Doctor Doctor, Rock Bottom e Shoot Shoot hanno tutte le caratteristiche per resistere in eterno e la voce, la classe, di Phil Mogg sono difficilmente sostituibili.

 Michael Schenker di suo si prende la meritata scena ma senza mai mettere in ombra il lavoro di squadra: quando lo fa, tipo durante la lunga coda di Rock Bottom si capisce perché il suo stile pur mai lodato come si deve (lo stesso discorso si potrebbe fare con gli UFO, anche se recentemente è stato proprio Phil Mogg a dichiarare "Vorrei ci ricordassero come una piccola band davvero brava. Niente di troppo glorioso")  è stato fonte di ispirazione per tanti giovani chitarristi in erba che segneranno gli anni ottanta. Con gli UFO al palo, questo tour rimane un'occasione rara per sentire dal vivo un pezzo importante dell'hard rock dei settanta,  forse proprio il meno celebrato e ricordato ma non per questo meno influente,  anzi. Serata piacevole di rock'n'roll in una giornata, il primo maggio, dove la parola "concertone" è troppo spesso abusata e non corrisponde con i fatti e non rappresenta il prodotto.

Ad aprire il concerto gli svizzeri Gut's, devoti all'hard blues degli AC/DC e con un chitarrista che se non fosse per l'altezza potrebbe fare da cosplayer ad Angus Young e i tedeschi Human Zoo, hard rock melodico ma massiccio, con l'originale presenza di un sax a distinguerli.





martedì 22 aprile 2025

RECENSIONE: MESSA (The Spin)

 

MESSA  The Spin (Metal Blade, 2025)



tutto gira

Ma che bello! Erano anni che non mi succedeva: mi sembra di essere tornato negli anni novanta quando aspettavo l'uscita di un disco con quella ingenua carica di aspettative che poi in un modo o nell'altro venivano rispettate, spesso a forza di tanti ascolti. The Spin, il quarto disco dei Messa è uscito da una settimana e si sta rivelando per quello che mi aspettavo: un disco importante che segnerà un prima e un dopo. 

Per di più di un gruppo italiano. Cosa volere di più?

Sono determinati i quattro veneti, sanno cosa vogliono ma allo stesso tempo sono una band che sembra non porre limiti alla propria ispirazione e crescita artistica. Dove vorranno mai arrivare? Intanto il mondo si è accorto di loro, prima di noi naturalmente, e il contratto con la Metal Blade è il sigillo di garanzia.

Ad oggi credo siano la più importante band rock italiana di questi ultimi anni ( chi può vantare una cantante come Sara  e un chitarrista come Alberto di questi livelli? E i loro live rapiscono. Sempre) e The Spin seppur diverso, mantiene saldamente la loro identità, un pò come l'uroboro (la ruota di motocicletta) raffigurato in copertina, svisa e si apre in mille direzioni, verso blues, jazz, hard rock, metal e dark wave targata eighties (la maggior novità) per poi tornare all'origine doom. Difficile oggi appiccicare loro delle etichette. Tanti spunti, tanta bravura, tanta sana ambizione, cura dei dettagli, professionalità con i piedi ben a terra, songwriting eccelso (Void Meridian, The Dress), idee mai scontate (Immolation, At Races), e canzoni che funzionano anche se non capisci bene dove finisca la loro semplicità (Reveal) e inizi la complessità (Fire On The Roof, Thicker Blood).

Tutto gira a meraviglia. Non fermatevi.





domenica 20 aprile 2025

LUCIO CORSI live@Teatro Concordia, Venaria Reale, 15 Aprile 2025


appunti di un concerto

Quando comprai il biglietto per il concerto, il Festival di Sanremo era un'entità lontana e avevo una sola grande aspettativa: godermi l'ennesimo concerto di Lucio Corsi, così come avvenne le altre volte. Dopo Sanremo con il mio biglietto in mano e l'esplosione della "Luciocorsimania" l'aspettativa cambiò radicalmente: si aggiunse un "speriamo", speriamo che Lucio Corsi non cambi davanti a questo incredibile successo che lo ha travolto. Pensiero stupido il mio.

Dopo questo concerto posso dirlo agli scettici come me: andate  tranquilli e in pace, nulla e poco è cambiato ma in cuor mio, forse, forse, lo sapevo già. Mi fidavo.


Gli unici cambiamenti sono: 

- l'età del suo pubblico. Ora ci sono tanti, ma tanti bambini accompagnati da mamma e papà e tanti ragazzini che prima non ricordavo. Che poi, è un bene eh, anche perché prima del concerto hanno potuto ascoltare le canzoni di Rolling Stones, Led Zeppelin, Crosby, Stills & Nash, Doobie Brothers uscire dalle casse in filodiffusione. Speriamo che Shazam abbia fatto il suo sporco lavoro. 

Ora il suo pubblico è veramente trasversale al cento per cento. Ma poi vuoi mettere avere dieci anni e trovarti un palco con una decina di chitarre sopra invece di un trapper con basi campionate? Qui ci si prenota il futuro.

- la scenografia del palco. Due enormi amplificatori in stile Rust Never Spleeps Tour di Neil Young vegliano da dietro e sembrano minacciare le nostre orecchie.

Un cambiamento da poco che fa però il suo effetto perché il concerto sarà molto "rock and roll can never die".

- nella band che lo accompagna si è aggiunto un secondo chitarrista. In molte canzoni c'erano tre chitarre elettriche e... (vedi il punto sopra: rock and roll can never die).

 In più sopra al palco si è materializzato Francis Delacroix, che fino a pochi mesi fa sembrava essere un eroe mitologico senza né corpo né volto. Ora si aggira con discrezione con la sua macchina fotografica e la canzone a lui dedicata è stata eseguita due volte in due versioni diverse  full band (Fast e rock’n’roll) diversa da come l'abbiamo conosciuta fino ad oggi (vedi il punto sopra che vede il punto sopra ancora: rock and roll can never die).

- Lucio Corsi parla molto meno, racconta meno storie, lasciando spazio alle canzoni.

Ora ha un album in più e tante canzoni nuove da eseguire (l'ultimo album è stato eseguito nella sua completezza).


E a qualche improvvisazione: a un "Lucio sposami" gridato da una voce maschile, risponde a "Las Vegas però", poi invita un tizio del posto a cantare sopra al palco, sventolava da tempo un cartello con su scritto "vorrei cantare una mia canzone". La canzone era poca cosa ma lui sembrava contento. Quando mai gli ricapiterà?

Anche le cover sono diminuite, solo Randy Newman (Short People tradotta La Gente Bassa "Randy Newman è quello che ha scritto anche Hai un Amico in Me. Le sue canzoni sono tutte belle. Cercatelo." dice), accenna Lucio Dalla, gli immancabili T.Rex (20th Century Boy) e quel Domenico Modugno già sentito a Sanremo  sono i sopravvissuti. Una ragazza del pubblico gli suggerisce Taglia La Testa Al Gallo di Ivan Graziani, lui ne esegue il ritornello e poi..." la prossima volta che veniamo da queste parti me la preparo".

Per il resto: godetevi il concerto. Lucio Corsi sembra ancora più affamato di musica di prima (non rinuncia a scendere dal palco e materializzarsi in mezzo al suo pubblico). 

Due ore e dieci di canzoni senza sosta (senza inutili orpelli e uscite per il bis) con una varietà di soluzioni musicali che, ripeto, ora come ora nessuno in Italia può vantare con questa naturale disinvoltura.

E se qualcuno osa ancora dubitare del suo talento, del suo vestire, lasciatelo parlare (il concerto lo conclude quasi nudo), prima o poi se ne farà una ragione.

L'ennesimo "chapeau" da parte mia. Non ho altro da aggiungere.



domenica 13 aprile 2025

RECENSIONE: ELTON JOHN & BRANDI CARLILE (Who Believes In Angels?)

 

ELTON JOHN & BRANDI CARLILE   Who Believes In Angels? (EMI, 2025)



in due è meglio

Quando finisce 'When This Old World Is Done With Me', ultima canzone in scaletta delle dieci, la sensazione di trovarsi di fronte al testamento finale della coppia artistica formata da Elton John e Bernie Taupin è forte, tangibile, quasi dichiarata con firme in calce, che se davvero dovesse esserlo di meglio davvero non si potrebbe fare. Elton John si stacca, rimane solo con il suo pianoforte e poco altro (un synth e alcuni fiati nel finale) a cantare, con voce segnata dal tempo,  la summa di una carriera, unica, trionfale senza eguali. "Quando questo vecchio mondo avrà finito con me, quando chiuderò gli occhi, rilasciatemi come un'onda dell'oceano, restituitemi alla marea". 

Ma questo disco non è un matrimonio a due ma uno di quelli allargati, quelli che vanno di moda oggi direbbe qualcuno, ma  funziona benissimo, certo meglio di alcuni matrimoni "classici", quelli "normali" direbbe sempre quel qualcuno. Un vero matrimonio a quattro. Da una parte chi ci mette voce, volto, corpo e talento:  Elton John e Brandi Carlile. Dall'altra: chi ci lavora dietro con eguale talento, ossia il paroliere Bernie Taupin e il produttore, musicista (suona un po' tutto) e autore Andrew Watt, uno che ci sa fare e qui lo fa bene, nonostante sia diventato come il prezzemolo, portandosi sempre dietro alcuni amici fidati. Questa volta sono della famiglia i due Red Hot Chili Peppers Chad Smith (batteria) e Josh Klinghoffer (chitarra ma più impegnato con le tastiere) più  Pino Palladino (basso), session man con il curriculum lungo e di spessore (The Who, NIN, Eric Clapton, Jeff Beck).

Ma se il disco finisce con un velo di malinconia per ciò che è stato, l'inizio non è da meno, sembra di tornare indietro a quei fine anni sessanta quando Elton John e Taupin iniziarono il loro sodalizio artistico, aggiungete una Brandi Carlile sempre sul pezzo (spesso è lei in prima linea) e una canzone dedicata a Laura Nyro ('The Rose Of Laura Nyro', dopo una lunga intro strumentale, è piena di riferimenti alle sue canzoni nel testo) e il disco potrebbe già stare in piedi con i suoi due estremi. 

In mezzo invece c'è tutto il resto: una giostra colorata, a tratti kitsch come la copertina, di pop rock frizzante, nato in soli venti giorni da fogli completamente bianchi e da imbrattare liberamente di parole e musica. La missione è riuscita particolarmente bene.

Un omaggio alla California musicale degli anni settanta dove rock’n’roll ('Little Richard's Bible' è l'omaggio a uno dei miti  di Elton John che va oltre la musica, concentrandosi anche alla vita personale, dura e piena di insidie dell'architetto del rock and roll), il country (l'accopiata formata da 'A Little Light' e 'The River Man', una delle migliori dell'album) e gli anni cinquanta alla Everly Brothers ('Someone To Belong To') si incontrano, trovando la sublimazione nella title track che sembra iniziare là dove finiva Goodbye Yellow Brick Road.

Brandi Carlile, una carriera in continuo crescendo la sua, che già aveva contribuito a riportare sulle scene Joni Mitchell, corona il sogno di duettare con uno dei suoi miti: "è sempre stato il mio super eroe e abbiamo fatto un disco fantastico", e per lui scrive il testo di 'Never Too Late' che compare nella colonna sonora del documentario dedicato a Elton John, dallo stesso titolo e uscito per Disney Channel. I due hanno molte cose in comune: l' omosessualità, i figli, le famiglie. "Ho iniziato pensando: io sono una donna gay, Elton è un uomo gay e entrambi abbiamo figli e famiglia. I nostri sogni sono diventati realtà". Ecco allora la contagiosa e liberatoria 'Swing For The Fences', un invito a essere sempre se stessi e 'You Without Me', neo folk, dedicata alla figlia undicenne.

 Un disco, corto (lungo il giusto nei suoi 44 minuti), essenziale, che pare riportare le lancette indietro agli anni settanta e Elton ad una forma artistica che gli ultimi due dischi parevano aver un poco annebbiato. Gioia, armonia e freschezza senza tempo.

"Questo disco verte esattamente alla ricerca di gioia ed euforia" chiosa la Carlile. Mentre scrivo l'ennesima bomba russa fa strage di civili ucraini. E allora sotto che di questi tempi ne abbiamo bisogno: schiaccio il tasto play, faccio ripartire il tutto. 






lunedì 7 aprile 2025

RECENSIONE: TENNESSEE JET (Ranchero)

TENNESSEE JET   Ranchero (TJ Music, 2025)

non ci resta che l'America musicale 

L'adolescenza di Tennessee Jet (il cui vero nome è TJ McFarland) potrebbe essere uguale a quella di tanti altri ragazzini americani che grazie al lavoro dei genitori hanno potuto girare in lungo e in largo gli Stati Uniti. Sua madre e suo padre bazzicavano per rodei con un pick up  Ford Ranchero (ecco titolo e copertina di questo nuovo disco) e i cavalli al seguito mentre ad accompagnare il susseguirsi dei paesaggi c'era sempre una radio accesa che passava Bob Dylan, Willie Nelson, Waylon Jennings, Steve Earle e se si cambiava canale uscivano pure le chitarre '90 del grunge che influenzeranno i suoi primi due dischi.

Ecco che quegli ascolti hanno lasciato un segno indelebile venuto utile quando il giovane TJ ha iniziato a imbracciare una chitarra seguendo le orme di quelli che nel frattempo erano diventati per lui importanti quanto e più dei cavalli dei rodei. Iniziò a svrivere canzoni, anche per gente come i Whiskey Myers e Cody Jinks.

"Una volta che ho iniziato a fare la mia musica, ho capito che anche se avessi imparato quei suoni, avrei comunque emulato qualcun altro. Ho dovuto fare musica tutta mia. Per sapere cosa puoi apportare a un genere, a volte è bene fare l'opposto di quel genere, così puoi provare quei vestiti e vedere come ti stanno. Le cose che sono autentiche per te, le conservi. Le cose che non vanno, le scarti" racconta. 

Lo avevamo lasciato nel 2021 con il suo quarto disco South Dakota, un disco folk minimale, armonica, chitarra e voce, figlio diretto del lockdown, lo ritroviamo con questo Ranchero che invece ci mostra più lati della sua personalità musicale, legata comunque all'America.

A prevalere questa volta sembra il lato più elettrico: 'The Oklahoma Rose', hillbilly arricchito da un violino che apre l'album in quarta,  un altro singolare omaggio allo stato del Midwest e a un suo grande artista come Ray Wylie Hubbard, nella canzone omonima che avanza fiera e baldanzosa ricordando 'Come Toghether' dei Beatles,  una  tenebrosa e tagliente 'The Only High', il country rock di To Know Her, l'honky tonk di 'Poetry In Blood' con un banjo a condurre la marcia.

Ma la tensione non cala nemmeno nei momenti più soft: 'Bury My Bones' ha tutta l'epicità delle migliori ballad southern rock, 'From To River To The Sea' è l'episodio più folkie di tutto il disco con un testo "importante" che punta l'occhio alle guerre in medio oriente, la finale 'Love & Anarchy' chiude il disco con sottile fantasia di psichedelico country.

Nei suoi brevi 37 minuti di durata c'è anche il tempo per la cover di 'Runaway Train' dei Soul Asylum, passati poche settimane fa in Italia.

Anche se in giro da una decina di anni, ormai, anche se è un forte conservatore musicale, Tennessee Jet è uno dei giovani cantautori americani  più promettenti degli ultimi anni, sa scrivere mantenendo una freschezza invidiabile dentro alla tradizione.





domenica 30 marzo 2025

WARRIOR SOUL live@RocknRoll Club, Rho, 29 Marzo 2025


Kory Clarke è in una forma invidiabile. E questa è già una grandissima notizia. La seconda notizia: sarebbe bello trovare la sua età. Provateci voi se ci riuscite. 

Kory Clarke ha sempre fatto quello che cuore e mente gli hanno dettato. Nel bene e nel male. A un passo dal diventare uno dei più credibili guru del rock alternativo degli anni novanta quando la sua creatura Warrior Soul, germogliata a Detroit e sbocciata a New York, iniziò a buttare fuori dischi che mischiavano l'urgenza del post punk con il metal, la New Wave e la psichedelia condendo il tutto con testi al vetriolo da ultimo dei reietti con la missione ben precisa di mettere in guardia il mondo da un'imminente apocalisse e riportare il rock al centro dell'attenzione, portarlo nuovamente ad essere un animale selvatico, anarchico, strisciante, pericoloso, contro il sistema, veicolo di messaggi. Forti. Diretti. Disturbanti.

Ci andò vicino ma i suoi messaggi erano però "troppo divisivi" per un mercato che cercava nuovi idoli universali e per le masse.

"In America ho sempre trovato difficoltà. Ho sempre pensato che fosse a causa delle mie critiche alla situazione sociale americana e al coraggio di dire davvero quello che provo al riguardo" disse.


Troppo colto e intelligente nella musica è sinonimo di troppo pericoloso. Questo è stato il maggior pregio ma anche il motivo per cui il nome della band non è arrivato sulla bocca di tutti ma si è fermato un passo prima, nonostante un buon contratto con la Geffen. Cory Clarke era carismatico, dannato il giusto, sciamanico ma faceva paura, non era accomodante in nulla, andava avanti per la sua strada senza compiacere niente e nessuno e il trittico di dischi Last Decade Dead Century (1990), Drugs, God And The New Republic (1991) e Salutation From The Ghetto Nation (1992) rimarranno lì a dimostrarlo. Tra le migliori uscite di quei primi anni novanta, un attimo prima dell'esplosione grunge. Chill Pill (1993) e The Space Age Playboys (1994) subito dopo non erano da meno ma stava cambiando qualcosa.

Poi il tempo passò, i compagni di band pure (alcuni come il batterista Mark Evans e il bassista recentemente scomparso Pete McClanahan non ci sono più) la trasformazione nei meno impegnati e più stradaioli Space Age Playboys sembrò naturale, senza forzature, così come il ritorno al marchio Warrior Soul nel 2007. Da allora non ha più smesso (l'ultimo disco Out On Bail è del 2022) e le cose intorno a lui sembrano siano andate esattamente come immaginava: di merda.

La data di Rho sembra sia stata aggiunta in corsa alle date italiane del tour europeo (io l'ho saputo un giorno prima!) ma il Rock'n'roll Club, piccolo, stipato e sudato ha risposto alla grande: perennemente in piedi dal trespolo di una cassa, in contatto costante con il suo pubblico, Kory accompagnato da Dennis Post e il "nostrano" GG Rock alle chitarre, Ivan Tambac alla batteria e Christian Kimmett al basso ci ha raccontato quanto il mondo stia andando a puttane. Nuovamente. Oppure è già andato e lui ci aveva avvertito in tempo. Da Intro e Interzone (dei Joy Division) che hanno aperto le danze è stato un susseguirsi di inni da cantare, scalciare e sputare: Love Destruction, Punk And Belligerent, la cinica Jump For Joy, Ass Kickin, The Party, Downtown, Junky Stripper, Fuck The Pigs, Rocket Engines, The Losers, Back On The Lash, Blown fino alla finale Wasteland, inno per tutti i perseguitati da politici e censura. Un'ora e 35 minuti senza una minima pausa. Duri, reali, senza trucchi, senza inganni. In your face. Kory aizza, salta, cade si rialza, si contorce, si accasscia, si sdraia, si rabbocca il calice di vino rosso, da vero trascinatore ci porta nella sua Detroit, in mezzo a droghe, malaffari, e corruzione. Ad una 'America marchiata da abusi di poteri, ingiustizie e violenza. Non si ferma mai. 



Un grande frontman, di quelli che non ne fanno più. Carico e pesante di esperienze e tanta vita on the road.

E durante 'Fuck The Pigs' alto si leva il coro: 'Fuck Elon Musk'. I bersagli cambiano, il dito medio è sempre lo stesso e puntato nella direzione giusta.

E quella apocalisse profetizzata, in questi anni difficili sembra essersi quasi materializzata. Forse aveva ragione lui. Forse vale ancora la pena farsi sentire. I Warrior Soul ci provano ancora, dal basso, dai piccoli locali anche se meriterebbero ben altre piazze. Concerto spiazzante per cotanta cruda bellezza!







mercoledì 26 marzo 2025

RYAN ADAMS live@Teatro Dal Verme, Milano, 24 Marzo 2025


Cos'è stato questo concerto se non la rappresentanza live sopra un palco, adgobbato come una sala dei primi 900, senza  maschere se non le tante sue, con i suoi fantasmi e i suoi mostri compresi nel prezzo, dell'intera vita artistica, e personale, di Ryan Adams? Un giro di quasi tre ore a bordo delle montagne russe di un vecchio luna park con tanti picchi, a tratti inarrivabili, irripetibili pure per lui nel tempo, genuini, geniali e artistici e altrettanti punti bassi da sfiorare, a volte, il tonfo. Narcisistico e caratteriale. Artistico.

Ryan Adams è da sempre un artista tormentato, bulimico di musica e con il cuore perennemente a pezzi. Uno di quelli che attacca per primo per difendersi dietro un vetro, spesso troppo sottile per poter reggere i colpi che arrivano da fuori. E a volte sono stati molto pesanti.

E allora: da una parte la bellezza di una voce che attacca con 'To Be Young (Is To Be Sad, Is To Be High)' come un vecchio bluesman del Delta Blues e durante la serata sciorina l'intero disco di debutto (non siamo qui, anche, per questo?), una splendida versione di 'Gimme Something Good' spogliata di elettrico e ricamata alla chitarra acustica spagnoleggiante, una 'Idiot Wind' di Dylan da sola vale quasi la serata, la mia amata 'Ashes & Fire'. 


Dall'altra: il dialogo continuo con il pubblico che diventa a tratti scontro, prolisso e sberleffo, pure noioso (senza microfono, la continua lotta con i flash dei telefonini. Con i telefonini anche senza flash), sicuramente mangiatore di buon tempo altrimenti da dedicare alla musica anche se poi da esso trae spunto per le sue improvvisazioni: dalla coppia che esibisce il cartello del tipo " mio marito passa più tempo con la tua musica che con me" che al pianoforte diventa una dedica per loro 'Dennis And Senia' (quando mai ricapiterà? Quali innamorati non la vorrebbero una dedica in teatro?), alle richieste musicali nel secondo set, con una 'Lucky Now' interpretata dal giovane, emozionato e bravissimo musicista bresciano Simone Bertanza, invitato sopra al palco, mentre Adams fa il contro canto, con fare fraterno, seduto di fianco. Al giro con acustica e senza microfono tra la platea a suonare le radici di Elsie Clark e Hank Williams:  "vorrei suonare qui ogni sera" dice. E tutto diventa sncora più caldo e intimo.

Ecco: alti e bassi, bassi e alti. Questo è stato. Questa è la vita. E sbirciando le scalette (sempre diverse: a Stocvolma nel secondo set ha catapultato dodici civer, da Ray Charles si Black Sabbath) di questo "solo" tour europeo capisci che Ryan Adams non finge e non sta recitando nessun canovaccio e nessun copione. Un concerto fuori catalago. Non è forse la pazzia (pure peggiorata: "è bruciato" il mantra più ripetuto all'uscita) che vogliamo dai nostri artisti preferiti?

Vedere Ryan Adams giocare con la vita mi è sembrata ancora una gran fortuna, tutto sommato.



domenica 23 marzo 2025

RECENSIONE: BLUES FACTORY feat. Fabio Drusin (III)

 

BLUES FACTORY feat. Fabio Drusin  III (ArteSuono, 2024)




music satisfie my soul


Quattordici anni fa (ma come passa il tempo!?) intervistando Fabio Drusin, voce e basso dei W.I.ND. storica band friulana e musicista in tanti altri progetti e collaborazioni di rilievo ( Alvin Youngblood Hart’s Muscle Theory), in occasione dell'uscita di Walkin In A New Direction gli chiesi come si potesse definire la loro musica e lui mi rispose così: "Una parola: Rock. Non amo particolarmente le etichette, che non dovrebbero essere date dai musicisti, i generi sono stati inventati dai giornalisti, per meglio etichettare una o l'altra band, che ovviamente è comodo e in certi casi serve; nel Rock, specie quello di un tempo, trovi un pò di tutto: il Blues, il Soul, il Funk. Mi piace ricordare una frase di Gregg Allman: "Non siamo una Jam Band, siamo una band che fa Jam". 

Oggi siamo nel 2025 e ritrovo Drusin come ospite speciale dei Blues Factory, un altro power trio friulano e quella parola "rock" si applica sempre bene per definire il progetto Blues Factory, messo in piedi dal cantante e chitarrista Cristian Oitzinger che vede lo stesso Drusin al basso e armonica e Daniele Clauderotti alla batteria.

Registrato all'Artesuono di Sefano Amerio a Udine, III è un disco per chi ama l'antica attitudine del rock blues suonato con competenza, rispetto e vigore, qui non si inventa nulla ma si porta avanti il verbo con antica passione e devozione. 


Oitzinger, autore di sette pezzi su otto  vanga nella tradizione mettendoci davanti il suo vissuto. E tutto sembra ruotare intorno al torrido riff di  'Mountain Man' composizione centrale dal tiro zztopiano, dedicata al padre Giovanni, ispirazione di vita: dall'iniziale e sorniona 'Unhappy Girl' che gira intorno ai territori cari a Gov't Mule e Warren Haynes, alle rockeggianti 'Rolling Man' e 'The Love You Brought' dalla ritmica dinamica tra i Free e gli Stones di metà anni settanta, con il testo scritto dall'amico di Nashville Mike Cullison. Belle anche le due ballate: 'Time To Make Mistake' e 'Like A Winter Night', dai sapori southern. 

'What You Wanna Do' è un rock blues dal basso pulsante e la slide di Oitzinger in grande evidenza, cantata dalla voce più sporca di  Drusin che si allunga in una jam finale con l'armonica.

In conclusione 'Music Satisfie My Soul', che inizia come un vecchio gospel ma si elettrizza subito mantenendo i piedi in tre scarpe, tra Led Zeppelin, southern rock e gospel con i cori femminili delle The Nuvoices Project e un Hammond B3 suonato da Rudy Fantin a tenere unito il tutto nella composizione più articolata e variegata in scaletta.

E torniamo a quella parola "Rock" con la quale ero partito: qui si va sul sicuro! Un disco caldo e avvolgente che tra alti quindici anni si potrà rimettere su, ritrovando tutta l'antica magia della musica suonata con cuore e passione. Naturalmente spero che i Blues Factory nel frattempo facciano uscire tanti altri dischi. "Music satisfie my soul" mi sembra una buona conclusione.