martedì 26 ottobre 2021

RECENSIONE: TAYLOR McCALL (Black Powder Soul)

TAYLOR McCALL   Black Powder Soul  (Black Powder Soul/Thirty Tigers, 2021)


un debuttante da tenere d'occhio

Il giovane Taylor McCall, faccia pulita e un baseball cap calato in testa, sembra inciampato dentro alla musica per puro caso, quasi fosse stato trasportato da un oscuro incantesimo. Ma ci sta da dio. Il passo  dalla cameretta di casa nel Carolina del Sud dove viveva con i genitori e strimpellava le sue prime canzoni  a questo primo album, dopo due EP già editi, è stato breve ma senza moderne scorciatoie. Un ragazzino timido e riservato che viveva con difficoltà l'approccio con il prossimo ma che improvvisamente scopre di avere così tanto talento per la musica, così gli dicevano quelli che lo ascoltavano, che lasciare morire quelle canzoni dentro a quattro mura sarebbe stato imperdonabile. Per tutti. 

La musica diventa terapia, forza, sogno. La sua vita. 

"Considero la mia arte e la mia musica prima di tutto la mia terapia" ha raccontato recentemente in un'intervista. Gli si crede e si va avanti. 


Insieme a lui ha sempre la fida chitarra, la prima gliela regalò il nonno materno quando aveva solo sette anni. Il nonno è quello che si sente, doppiato dalla voce dell'allora giovane madre di McCall nel breve gospel di introduzione al disco 'Old Ship Of Zion Prelude', una vecchia registrazione che McCall ha pensato di mettere all'inizio (ma, anche alla fine) per rendere omaggio al suo primo vero fan. 

McCall è un autodidatta della chitarra ma in queste dodici canzoni di folk blues oscuro e country arcano, a tratti minaccioso e inquisitorio, riesce a fare un lavoro che sa di straordinario. Una prima opera  matura, prodotta da Sean McConnell, in grado di proiettarlo tra le figure più promettenti del cantautorato americano. In una continua lotta tra il bene e il male, il diavolo e l'acqua santa, le sue canzoni cantate con voce giovane ma tenebrosa e rauca il giusto, alternano i momenti elettrici del gospel sporco 'Black Powder Soul' con le traiettorie desertiche e misteriose di 'White Wine', i blues minacciosi e neri ('Surrender Blues', Hell's Half Acre') con sipari di folk acustico, con sola voce e chitarra ('Man Out Of Time', 'So Damn Lucky'), il passo lento di 'South Of Broadway' con la più movimentata 'Cooked Lanes, fino ad arrivare ai nove minuti di 'Lucifer' con i suoi riverberi carichi di nuvole pesanti pronte ad esplodere da un momento all'altro. 

Un viaggio spigoloso ma intenso. La meta è estremamente appagante anche se nelle atmosfere western da ultimo duello della bella 'Highway Will' canta "If The Devil Don't Kill Me Then The Highway Will". Non c'è via di scampo, insomma.





sabato 23 ottobre 2021

RECENSIONE: THE ROLLING STONES (Tattoo You, 40th Anniversary)

THE ROLLING STONES  Tattoo You - 40th Anniversary (Interscope, 1981/2021)



40 anni di scarti di valore

Nonostante Emotional Rescue non fosse andato così male in fatto di vendite, i Rolling Stones ridussero al minimo la promozione senza fare tour. Quando arrivò il momento di girare nuovamente  il mondo, Mick Jagger e Keith Richards si rinchiusero invece in uno studio insieme a Chris Kimsey, rispolverando vecchie canzoni per fare qualcosa di nuovo da portare in giro, come se non avessero già abbastanza materiale da cui attingere. Le sedute di registrazione di Black And Blue, Some Girls e Emotional Rescue furono prolifiche tanto da lasciare in eredità un sacco di outtake, ma si andò a pescare ancora più indietro, recuperando in annate lontane come il 1972: saltarono fuori canzoni come 'Tops' con la chitarra di Mick Taylor che venne lasciata senza essere accreditata. Naturalmente il chitarrista rivendicò le sue royalties appena ascoltò il disco. 

Jagger fu quello che lavorò di più in studio, sopra incidendo gran parte delle voci, in alcune venne aggiunto il sax di Sonny Rollins (in 'Slave' dove c'è pure Pete Townshend ai cori, nella scatenata 'Neighbors' scritta da Jagger "è la prima canzone che Mick scrive per me" dirà Richards. E nella conclusiva 'Waiting On A Friend'). 

Come le migliori case che custodiscono in cantina  pezzi vecchi ma ancora pregiati, i Rolling Stones avevano da parte canzoni così buone da farci un disco che per qualcuno diventò l’ultimo grande album della band, per altri addirittura la chiusura della loro migliore stagione rock. C'era chi già li considerava dei vecchi dinosauri, è bene ricordarlo. 



"Quelle canzoni non si prestavano ad essere inserite in nessun altro album. Ma sono belle canzoni" dirà Mick Jagger. 

Il disco fu lanciato dal  primo singolo apripista  ‘Start Me Up’, una canzone nata con sonorità reggae addirittura ai tempi di Black And Blue nel 1975 e registrata lo stesso giorno di 'Miss You' come raccontato dal produttore  Chris Kimsey. 

"Start Me Up è il motivo per cui l'album rimase nove settimane in cima alle classifiche" ironizzò Ron Wood. 

In verità Tattoo You pur nella sua apparente disomogeneità (convivono bene il rock'n'roll di 'Little T&A' cantata da Richards con il blues ispirato da Hop Wilson di' Black Limousine' e ballate come la notturna 'Heaven' e 'Worried About Me' con il falsetto di Jagger a dominare)  è un disco che funziona alla grande, incartato dentro al lavoro grafico minuzioso del trio Peter Corriston (grafico), Hubert Kretzschmar (fotografo) e Christian Piper (disegnatore), diventato in poco tempo uno dei più amati dai fan. 

"È un disco onesto. La maggior parte delle canzoni sono state scritte in pochissimo tempo" Mick Jagger. 

Uno scatto in avanti messo in piedi con il minimo degli sforzi.

A quarant'anni dall'uscita anche un disco fatto di scarti ha la sua bella nuova vetrina: è stato oggi rimasterizzato e per mettere bene in mostra il quantitativo di canzoni su cui si stava lavorando all'epoca, sono state aggiunte ulteriori nove canzoni (Lost & Found) tra cui spicca sicuramente 'Living In The Heart Of Love', dimostrazione di quanto bastasse loro poco per tirare giù un singolo che funzionasse. Questo funziona in qualsiasi decennio lo si ascolti. Il brano non trovò posto nella scaletta originale così come il rock blues tirato e tagliente di 'Fiji Jim', il blues 'It's A Lie' con l'armonica di Sugar Blue, lo sgangherato honk tonk 'Come To The Ball' con il piano di Nicky Hopkins, la bella e notturna ballata 'Fast Talking, Slow Walking' con la presenza di Mick Taylor e Billy Preston e una versione alternativa di 'Start Me Up'. 

Più una serie di cover: 'Trouble's A-Comin' della band di Chicago CH-Lites registrata a Parigi nel 1979, una basica 'Shame, Shame, Shame' di Jimmy Reed, la cui versione originale è del 1963 e la ballata 'Drift Away' portata al successo da Dobie Gray nel 1973 e che gli Stones già registrarono in studio un anno dopo durante le session di It's Only Rock'n'roll. 


Naturalmente rimangono fuori altre innumerevoli tracce. Troveranno un loro posto nel cinquantennale. 

"Sono solo tracce che sono state registrate in qualsiasi momento dal 1972 al 1981. Non era proprio un album. Era dappertutto. Non ha una sorta di centro" ha detto recentemente Mick Jagger. 

A completare l'operazione nostalgia, il concerto allo stadio di Wembley del 25 Giugno 1982 (fratello dell'edito Still Life), concerto che in scaletta presenta per la prima volta qualche canzone di Tattoo You ma anche alcune cover ('Just My Imagination' dei Temptations, 'Twenty Flight Rock' di Eddie Cochran, 'Going To A Go Go' dei Miracles e 'Chantilly Lace' di Big Bopper, mai apparsa prima ufficialmente).

L'operazione uscita in vari formati per accontentare tutte le tasche, da uno spaccato reale di cos'era la band in quegli anni, scanditi da album in studio e tour. I "già vecchi" Stones erano veramente dappertutto in quei primissimi anni ottanta. Ancora oggi, nonostante tutto.





lunedì 18 ottobre 2021

RECENSIONE: SWEET CRISIS (Tricks On My Mind)

SWEET CRISIS   Tricks On My Mind (Headline, 2021)


lo chiamano (ancora) rock and roll

Ai Sweet Crisis manca giusto una manciata di sporcizia in più per essere la perfetta band di retro rock di questo 2021. Tutti gli altri ingredienti sembrano essere al loro posto: un cantante, Leo Robarts, dalla voce hard soul che ha come punto di riferimento Paul Rodgers tanto da riuscire a intrufolarsi all'interno della sua roulotte dopo un concerto, anni fa, quando il cantante si era unito a quel che rimaneva dei Queen, un chitarrista, Piers Mortimer, innamorato dell'hard rock dei seventies, un Hammond (suonato da Dom Briggs-Fish) dietro a tappare ogni buco lasciato dai due sopra, una sezione ritmica precisa e presente (Matt Duduryn al basso e Joe Taylor alla batteria), una manciata di canzoni che funzionano da qualunque parte le si prenda: hard rock, blues, soul, psichedelia, funk. 

Venduti sbrigativamente come un incrocio tra i Free e i Black Keys, la band inglese nata a Cambridge nel 2015 in verità è molto di più e ha tutte le carte in regola per ritagliarsi un posto da protagonista nel mappamondo odierno del rock'n'roll sempre più bisognoso di nuove facce da mettere in vetrina. Sia quando giocano ad emulare i Fleetwood Mac periodo Peter Green nella strumentale e psichedelica  'Living Life On The Edge' che chiude il disco, quando  indossano gli abiti soul imbastiti dalla voce di Leo Robarts   in 'Love Me Like Sugar' e nella straordinaria 'Black Magic' con la voce di Sarah Brown (già corista dei Pink Floyd, Roxy Music e tanti altri) e Don Airey (attuale tastierista dei Deep Purple) ospiti illustri più che graditi, quando accarezzano le pieghe acustiche in 'Misty Haze', o quando vanno giù duro in 'One Way Traffic', gli Sweet Crisis sembrano maneggiare bene con cura e devozione queste vecchie materie quasi dimenticate dai giovani d'oggi, unendo in modo sopraffino il passato con il loro presente. Queste dieci canzoni sono il frutto dei primi cinque anni di esistenza della band, se con il secondo album sapranno confermarsi non vi è dubbio che l'Inghilterra abbia trovato il proprio antidoto agli statunitensi e più parodistici Greta Van Fleet.






domenica 10 ottobre 2021

RECENSIONE: SAMI YAFFA (The Innermost Journey To Your Outermost Mind )

SAMI YAFFA  The Innermost Journey To Your Outermost Mind (Live Wire, 2021)



se ami il rock'n'roll, passa di qui

Sarebbe veramente un delitto dimenticarsi di questo disco, tra le cose più rock'n'roll ascoltate quest'anno. A proposito: è uscito anche il ritorno dei Wildhearts di Ginger. 

Sami Yaffa non ha bisogno di troppe presentazioni. Per i più distratti si possono citare alcuni nomi: bassista dei seminali Hanoi Rocks, degli ancor più seminali New York Dolls riformati negli anni duemila, dei sempre dimenticati Jetboy, ha collaborato e suonato nei progetti dell'amico Michael Monroe (solista, Jerusalem Slim, Demolition 23), con Joan Jett, Johnny Thunders, i Murphy'Law. Insomma, negli ultimi quarant'anni si è dato da fare, lasciando le impronte del suo basso un po' ovunque. 

Per questo suo primo disco solista, arrivato all'età di cinquantotto anni (ha pure trovato il tempo di dare alle stampe un'autobiografia uscita nel 2016), si circonda di tanti amici con i quali ha diviso una buona parte di carriera nei sotterranei dei locali sparsi tra States e Europa a suonare sleaze rock: da Michael Monroe che imprime il suo inseparabile sax nella psychobilly 'Fortunate One', al vecchio compagno d'infanzia e di mille avventure Janne Haavisto alla batteria. I chitarristi Rich Jones, Christian Martucci (Stone Sour) e Rane degli Smack. 

"L'idea per l'album solista ha iniziato a prendere forma qualche anno fa. In precedenza avevo scritto musica per i New York Dolls e la Michael Monroe Band, ma ora alcune delle canzoni che stavo scrivendo e che avevo scritto iniziavano a sembrare sempre più cose mie invece di quelle che avrei scritto per quelle band " racconta il finlandese. 

The Innermost Journey To Your Outermost Mind è così un compendio della sua carriera, un diario di vita che raccoglie tutte le sue influenze musicali:  nell'apertura 'Armageddon Togheter' misura la temperatura dell'attuale stato delle cose là fuori, Iu8ii8o9b 9in pieno stile Stooges, 'Selling Me Shit' è un rantolo punk hardcore con una parentesi dub reggae nel mezzo, parentesi sviluppata meglio nei ritmi in levare di 'You Gimme Fever' (con una bella chitarra solista) e in 'Rotten Roots' che raccoglie i semi crossover seminati da Joe Strummer. In mezzo al punk veloce di  'Germinator', al rock'n'roll psichedelico di 'The Lady Time', all'hard rock pesante di 'I Can' t Stand It' con alla chitarra Timo Kaltio, scomparso recentemente (co autore di 'Right Next Door To Hell' insieme a Izzy Stradlin, canzone presente su Use Your Illusion dei Guns N' Roses), troviamo 'Down At St. Joe' s', ballata dagli umori americani con slide e pianoforte e parole vissute sulla dipendenza da alcol, una curiosa, meticcia e ben riuscita  'Look Ahead' patchanka gypsy con tanto di fiati e la finale 'Cancel The End Of The World', epica, gospel, positiva risposta alla canzone che apre il disco. 

Un disco che per quaranta minuti fa riaffiorare ricordi di quel rock'n'roll che sembrava dimenticato in questi due ultimi anni senza concerti: si respira l'aria del CBGB, c'è l'alito di Johnny Thunders che sbuffa dietro, i nervi tesi e sudati di Iggy Pop che si piegano e si allungano, la Jamaica vista in prospettiva Clash, i bicchieri pieni a festa dei Faces un po' alticci e la santa benedizione degli eterni Glimmer Twins. Insomma: quasi tutto quello che serve.





mercoledì 6 ottobre 2021

RECENSIONE: ROCKETS (Alienation)

ROCKETS   Alienation (Recording Arts/Intermezzo, 1981/2021)



ritorno al futuro con il  disco dimenticato

Primi giorni di Agosto del 1980, nel piccolo stadio  di Caorle atterrano i francesi Rockets, proprio pochi giorni dopo la strage di Bologna. Avevo sette anni ma i dischi dei Rockets li ricordo nitidamente, conoscevo le canzoni, la cassetta di Plasteroid mandata a memoria, le copertine, loro mi facevano pure paura, e ricordo che mio fratello, sette anni più di me, nel pieno della sua adolescenza, a quel concerto ci andò. Io rimasi in campeggio con il mio pallone super tele, le mie bocce piene d'acqua, il frisbee nero con un fulmine come adesivo e i miei soldatini di plastica colorata ma con le orecchie ben tese sperando di intercettare qualche suono proveniente dalla lontana galassia della periferia della cittadina balneare. Nulla. Solo stelle e nemmeno cadenti. Andai a dormire deluso dopo aver certamente spento uno zampirone ma con la curiosità di sapere i dettagli. Il giorno dopo mi fu raccontato tutto nei minimi particolari: loro che uscirono da delle grosse uova, i famigerati raggi laser raccontati come fossero delle armi letali in grado di trapassarti il corpo. La ghigna sempre incazzata del cantante Christian Le Bartz, con il suo collo taurino che pareva un mix alieno tra Mussolini e Mastro Lindo. Il biglietto di quel concerto che conservai come se ci fossi andato io. 

Era il tour di Galaxy il loro album del 1980. Un successo incredibile soprattutto qui in Italia, grazie a canzoni come 'Galactica', 'Universal Band' e 'In The Galaxy'. 



Questo Agosto, a quarant'anni di distanza mentre ero sdraiato su un prato a godermi il sole estivo con il cellulare in mano (ecco il futuro che cantavano), da una pagina social scopro che ai primi di Ottobre avrebbe fatto capolino il famigerato "ghost album" dei Rockets, ossia l'album che sarebbe dovuto uscire dopo Galaxy nel 1981 ma che la casa discografica CGD bloccò perché non troppo in linea con il loro passato. Strano per una band che guardava al futuro. Subito dopo uscì il controverso p greco, 3,14 con due canzoni ('Hypnotic Reality' e 'King Of The Universe' ) prese dal disco abortito, rivedute e corrette, ma qui non sono presenti. 

Oggi tengo in mano quel disco in versione Cd che avevo immediatamente prenotato sdraiato sull'erba appena saputa la notizia. Le comodità del futuro. In quel 1980 pure il CD, sebbene già inventato dal signor James Russell sembrava una cosa da futuro lontano, almeno una manciata di anni. 

Si presenta bene con una copertina disegnata per l'occasione dallo scenografo e artista Victor Togliani, il logo è quello dei bei tempi, anche se le vecchie copertine avevano sicuramente un altro fascino vintage. Fabrice Quagliotti, unico membro che porta ancora avanti il marchio Rockets (esistono ancora sotto altra forma) ha acquistato i diritti di queste vecchie otto canzoni registrate tra la fine del 1980 a Parigi e i primi mesi del 1981 a Saint Souplet sotto la produzione del mentore Claude Lemoine

Otto canzoni recuperate da vecchie bobine 24 piste, scritte in comunione dalla formazione storica che oltre a Quagliotti alle tastiere e vocoder e al fantasma di Le Bartz alla voce (l'unico a non firmare nessuna canzone, pure assente al canto ma presente nei credits), comprendeva la mente di "Little" Gerard L'Her al basso e voce, Alain Maratrat alle chitarre e Alain Groetzinger alla batteria. 

A parte un paio di pezzi che si riallacciano ai precedenti dischi (l'apertura 'Non - Stop' è uno space electro rock, solido e alla loro maniera, sicuramente con le caratteristiche del singolo vincente), i Rockets in quel momento si stavano guardando intorno cercando di assorbire gli umori musicali che gravitavano intorno alla  loro galassia: ecco così l'elettro pop di 'Venus Queen' e 'Talk About', ficcanti e melodiche il giusto per entrare bene in testa, l'immancabile strumentale 'Electromental' che anticipava i Daft Punk, una stupefacente 'Children Of Time', il vero gioiello del disco che indica la via alle ballate synth pop dei futuri Depeche Mode, e una  'Sky Invaders', schizzata come se i Talking Heads amoreggiassero con i Kraftwerk che a loro volta flirtano con i Devo. Quanto amore. 

A sorprendere però è  'Skared', canzone totalmente avulsa dal loro repertorio e che pare uscire da Sandinista dei Clash, una patchanka tra ska, punk e reggae, che presenta alla voce un ospite misterioso: tale Johnny X (from London) che ad un primo ascolto pare proprio un ibrido tra Mick Jones e Joe Strummer. Suggestioni? Chissà? Il futuro non è scritto. 

Per un attimo sono tornato indietro a quella serata estiva del 1980 in campeggio, ho allungato ancora una volta il collo e sturato le oreccchie. Sento una voce provenire da molto vicino, questa volta, cantare: "to be on the run, dangerous game, all upside down, never the same".

Non li vedrò anche questa volta. Ma li sento. Sono tornati. Rimarremo con un solo grande dubbio: questo disco avrebbe cambiato la sorte della loro carriera?