martedì 29 gennaio 2019

RECENSIONE: WATERMELON SLIM (Church Of The Blues)

WATERMELON SLIM   Church Of The Blues (Northen Blues Music, 2019)




 la messa perfetta...
Watermelon Slim è uno vero, duro e puro che ha coltivato e maturato il suo blues sottopelle. Un cerimoniere credibile. Lo si può capire dalle numerose e incredibili esperienze che ha passato in vita. Un vero working class hero (ecco il suo nome!). Ho ancora negli occhi quella t shirt dei “veterani del Vietnam” che esibì con orgoglio girando per le strade di Ameno qualche anno fa. Facemmo pure un brindisi con la birra a quella maglietta lisa dal tempo, testimone di chissà quali atroci ricordi. Piccole cose indimenticabili. Da quando ha iniziato a fare sul serio con il blues ha collezionato premi e riconoscimenti e questo tredicesimo disco è un omaggio alla religione blues fatto alla vecchia e sana maniera: Slim mette insieme sette canzoni e sette cover, chiama tantissimi amici (Sherman Holmes e John Nemeth alle voci, Red Young alle tastiere, Nick Schnebelen, Joe Louis Walker, Albert Castiglia alle chitarre) tra cui spicca su tutti la chitarra di Bob Margolin, presente in più pezzi tra cui ‘Gypsy Woman’ di McKinley Morgan field. Ad accompagnarlo, la sua band composta da Brian Wells (batteria) e John Allouise (basso).
Dalle quasi autobiografiche e personali ‘Tax Man Blues’ di John Mayall e ‘That Ole 1-4-5’, ai fiati swing che sbuffano su ‘Post-Modern Blues’, all'impegno di canzoni come ‘Mni Wiconi-The Water Song’ dai toni soul o ‘Charlottesville (Blues For My Nation), un southern blues che le canta chiare, fino alla leggera ‘Me And My Woman’ di Shuggie Otis, il solitario ululato di ‘Holler #4’, e il divertente finale affidato a ‘Halloween Man’, le quattordici canzoni scivolano via tra infuocati blues elettrici (belle ‘Smokestack Lightning’ nella versione di Howlin Wolf e ‘Too Much Alcohol’di Rory Gallagher), slide come piovesse, armonica e quell’immaginario profumo di vecchio blues che dischi come questo sono ancora capaci di regalare. Poi tanto per inquadrare meglio il personaggio c’è una canzone scritta da un amico, un ex collega camionista (Watermelon ha guidato pure i tir): " ‘Saint Peter's Ledger’ è stata scritta da un mio amico camionista, Ronnie Lereaux Meadors. Un giorno era a Clarksdale e mi consegnò questa canzone su carta. Ho detto, "Ehi, mi piace, forse dovrei metterla sul mio prossimo disco", e nel giro di pochi mesi, è quello che abbiamo fatto.” Avercene amici così.








sabato 26 gennaio 2019

RECENSIONE: RIVAL SONS (Feral Roots)


RIVAL SONS  Feral Roots (Warner, 2019)


il lato selvaggio dei Rival Sons
A dieci anni dal debutto e otto da quel Pressure And Time che li decretò i nuovi paladini del classic hard rock degli anni duemila, i californiani RIVAL SONS continuano a mantenere intatta una freschezza invidiabile, nonostante in mezzo ci siano altri tre dischi incisi e una sequenza ininterrotta di tour come opener (Black Sabbath, QOTSA, Rolling Stones) e da headliner. Questo FERAL ROOTS si guadagna il titolo di disco più immediato e vario della loro discografia, che nel loro caso non sembra essere un aspetto negativo visto che con il tempo sono riusciti a trovare una strada tutta loro, personale quanto basta per sfuggire ai facili paragoni come avvenne a inizio carriera. Capito Greta Van Fleet? L’unica pecca sembra sempre la mancanza di canzoni veramente memorabili. Nel loro caso vince sempre l'insieme.
 “Non volevamo ripeterci in modo negativo. Penso che questo disco sia il nostro miglior tentativo per dimostrarlo. È ancora grezzo come piace a noi, ma pensiamo che ci sia un bel po’ di varietà, ed è un po' più diretto. " 
Canzoni nate tra i boschi e la natura selvaggia del Tennessee del Sud (ben rappresentate dalla copertina dell'artista Martin Wittfooth), disco prodotto dal rassicurante Dave Cobb e registrato tra Nashville, negli studi RCA, e i Muscle Shoals in Alabama alla consueta loro maniera: live in studio. E questo si sente nelle canzoni più rock guidate dalla chitarra di Scott Holiday che sa giocare bene le sue carte sia quando affonda nei riff dal taglio più moderno (l'iniziale ‘Do Your Worst’, ‘The End Of Forever’) sia quando dai seventies pesca i riff più oscuri e pesanti di ‘Too Bad’ e ‘Back In The Woods’ o quando mischia sapientemente i periodi come nella terremotante ‘Sugar On The Bone’. Piacciono pure il bianco e il nero di canzoni avvolgenti e cangianti come ‘Look Away’ e ‘All Directions’ dove all’inizio acustico segue l'esplosione elettrica.
 “Il Rock ’n’ Roll è da sempre punto chiave della nostra identità culturale e questo è tangibile in ogni nostra canzone” racconta il chitarrista.
 Il loro segreto rimane un retrobottega che nasconde quelle pillole soul che la gola del cantante Jay Buchanan, il vero trascinatore, digerisce con estrema disinvoltura: la già citata ‘Back On The Woods’, la title track che ci mostra quanto Paul Rodgers non sia poi così lontano, il contagioso gospel blues finale ‘Shooting Stars’ ne sono l'esempio più lampante, con l’ultima che insieme al latin funk di ‘Stood By Me’ ci mostrano una duttilità rara e vincente che pochi possono permettersi risultando così credibili.






RECENSIONE: RIVAL SONS-Pressure & Time (2011)
RECENSIONE: RIVAL SONS-Head Down (2012)
RECENSIONE: RIVAL SONS-Great Western Valkyrie


giovedì 24 gennaio 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 73: CINDERELLA (Long Cold Winter/Heartbreak Station)

CINDERELLA  Long Cold Winter (Mercury, 1988)



inizia il lungo inverno
Allora perché non tirare fuori un disco dalla candida ed elegante copertina che all’epoca spazzò via in un solo colpo i vestiti colorati e il trucco pesante di NIGHT SONGS, il pur buon debutto uscito solo due anni prima e messo in piedi con l’aiuto di Bon Jovi. Lo si capisce subito dalla slide che introduce ‘Bad Seamstress Blues’ e che si trasforma subito in ‘Fallin’ Apart At The Seams’ che qualcosa è maturato in meglio: la consapevolezza di essere una delle migliori band uscite negli Stati Uniti a metà anni ottanta prende forma. I Cinderella cambiano vestiti e pelle musicale e LONG COLD WINTER guidato dalle sue perle bianche come neve è un disco da conservare gelosamente: la trascinante ‘Gypsy Road’, la ballata pianistica ‘Don’t Know What You Got (Till It’s Gone)’ in grado di succhiare lacrime ad ogni ascolto e prenotarsi un posto nelle immancabili compilation in cassetta dell'epoca dedicate alle ballads, le chitarre di ‘The Last Mile’ e ‘Fire And Ice’ colpiscono tra hard e southern rock, mettendo in fila influenze catturate a Aerosmith, Led Zeppelin, Lynyrd Skynyrd e AC/DC. Nata a Philadelphia, la band di TOM KEIFER, fino compositore e voce aspra, abrasiva e graffiante come poche-e corde vocali delicate visti i tanti problemi che arriveranno dopo-del chitarrista Jeff Labar, del bassista Eric Brittingham e del batterista Fred Coury (ma sul disco ci suonarono Cozy Powell e Danny Carmassi) da qui in avanti metterà da parte l’iniziale sbandata glam così vicina a ciò che girava nei marciapiedi di Los Angeles all’epoca, per gettarsi dentro alle acque più torbide e stagnanti del blues (‘Long Cold Winter’ è un blues ammaliante e notturno, ‘la finale ‘Take Me Back’ va giù di slide), per poi asciugarsi sdraiata sull’erba sempre verde del country (l’altra ballata ‘Coming Home’), anticipando le mosse del successivo e altrettanto bello HEARTBREAK STATION (1990). Uno dei migliori album americani dell’epoca, in grado di raccogliere estimatori ad ogni latitudine musicale.






CINDERELLA Heartbreak Station (Vertigo, 1990)


Tra il portico in legno di una vecchia casa abbandonata in Pennsylvania, gli infiniti binari di una ferrovia che attraversa il nulla e gli stadi stracolmi di fan, i Cinderella di Tom Keifer registrano uno dei miei album americani perfetti, senza scomodare tanti altri nomi blasonati. C'è tutto quello che mi piace qui dentro: voce graffiante e unica, grandi chitarre slide ('The More Things Change'), rock alla Aerosmith vecchia maniera ('Love's Got Me Doin' Time'), rock'n'roll che strizza l'occhio a Keith Richards ('Sick Gor The Cure','Make Your Own Way'), country ('One For The Rock And Roll'), RnB ('Shelter Me'), ballad perfette ('Heartbreak Station'), western song ('Dead Man's Road'), anthem trascinanti ('Love Gone Bad'). E c'è pure John Paul Jones come arrangiatore di archi. Me lo porto dietro da quasi trent'anni...





giovedì 17 gennaio 2019

RECENSIONE: STEVE GUNN (The Unseen In Between)

STEVE GUNN The Unseen In Between (Matador Records, 2019)






2019: sotto il segno di Gunn
Questo 2019 si apre decisamente sotto il segno di STEVE GUNN: il suo nuovo album THE UNSEEN IN BETWEEN si può già annoverare tra le uscite più interessanti e emotivamente coinvolgenti dell’anno in ambito folk rock, come se non bastasse il chitarrista songwriter della Pennsylvania, ex chitarra nella band di Kurt Vile e con tre dischi solisti all'attivo (possiamo dirlo: Gunn mette la freccia,... sorpassa e saluta l’amico Vile piantato), lascia nuovamente la sua firma nella produzione del nuovo album True North del settantasettenne Michael Chapman, album di imminente uscita che cercherà di bissare la buona riuscita del precedente 50.
The Unseen In Between sembra possedere tutte le carte in regola per farsi ricordare a lungo: Gunn cesella nove canzoni perfette, un miracoloso equilibrio dove la profondità di alcune liriche fortemente evocative (alcune scavano sulle perdite, anche di un amato animale come succede in ‘Luciano’) trova i suoi spazi tra la galleggiante e rassicurante psichedelia pop sixties di ‘New Moon’, il chitarrismo rock che circonda ‘Vagabond’, cantata in coppia con Meg Baird, e le aperture acustiche da grandi spazi di canzoni come ‘Morning Is Mended’ e la finale lisergica ‘Paranoid’. Colpisce ‘Sonehurst Cowboy’ una sentita dedica al padre, veterano del Vietnam, scomparso due anni fa.
“Mio padre, i suoi amici e fratelli non si sono mai veramente ripresi da quel momento. Alcuni sono andati meglio di altri. Con tutto ciò che è stato, mio ​​padre è stato una forza positiva ed esilarante tra la sua famiglia e gli amici per il resto della sua vita. Mi manca molto " lascia detto Gunn in un'intervista a GuitarWorld.
Si viaggia quasi sempre su tempi soffusi e lenti, preferendo la comodità alla immediatezza ma c’è sempre qualcosa di magico a catturare e spesso è la sua chitarra, suonata con rara maestria.
Lo aiutano il chitarrista e produttore James Elkington, il batterista di estrazione jazz T.J. Mainani e il bassista Tony Garnier, in licenza dalla band di Bob Dylan. Già Dylan, uno dei tanti fari musicali di Gunn, uno che ama cercare indietro i suoi punti di riferimento ma che sembra puntare molto avanti. In questo caso la copertina sembra rappresentare bene il personaggio: vintage sì ma sempre pronto a incamminarsi verso il futuro, viaggiare. Perché è da lì che nasce tutto:” assorbo costantemente i paesaggi e i personaggi intorno a me per scrivere…”. In ‘Lightning Field’ rende omaggio all'artista Walter De Maria che nel pieno deserto del New Mexico ha installato 400 pali di acciaio inossidabile, pronti ad attirare tuoni e fulmini. La gente sta lì, aspetta l'arrivo dei fulmini. Ma spesso non succede nulla… Un po’ come nella vita.
Da ascoltare.







martedì 15 gennaio 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 72: DENNIS WILSON (Pacific Ocean Blue)

DENNIS WILSON  Pacific Ocean Blue (1977)





ho scritto "oceano" sulla sabbia
Marina del Rey, Los Angeles. Dennis Wilson sembra in preda allo spirito del subacqueo cacciatore: si tuffa in acqua una volta, poi due, poi tre. Quando riemerge, ogni volta ha qualcosa di molto personale in mano. Oggetti che lui stesso aveva gettato in mare qualche anno prima dalla sua imbarcazione ormeggiata nel molo, in preda a qualche raptus isterico. Amore? Quella barca non era più sua da tempo, era stato costretto a venderla per recuperare i tanti soldi sperperati in vita, e quel 28 Dicembre del 1983 era ospite di amici, gli stessi che lo guardavano mentre un po’ alticcio da vodka entrava e riemergeva dalle acque dell'oceano. Uno, due, tre volte. Alla quarta il mare si quieta per troppo tempo. Sarà il solito scherzo di quel mattacchione di Dennis. Dennis Wilson muore inghiottito da quello stesso oceano che gli aveva dato tutto in vita, tanto che gli sembrò naturale intitolare il suo primo e unico disco solista, uscito cinque anni prima, proprio Pacific Ocean Blue. Fu il primo album solista di un membro dei Beach Boys e sorprese tutti perché arrivò dalla mente e dalla penna della pecora nera di famiglia, il piccolo Dennis che dentro ai Beach Boys ci finì perché lo mise la mamma e finì dietro la batteria perché solo quel posto era rimasto. Poco male perché proprio ispirandosi a lui, il fratello Brian tirò fuori le hit più balneari che fecero la fortuna del gruppo. Dennis era forse il meno dotato dal punto di vista artistico ma certamente era lo sportivo di famiglia a cui ispirarsi per scrivere testi: aveva il fisico, la passione del surf, grande successo con le ragazze (si sposò ben cinque volte) e quell'aurea da bello e maledetto che lo porteranno a intraprendere i vizi più pericolosi (la santa trinità: coca, eroina e alcol) e frequentazioni poco sane (vedasi la parentesi a casa Charles Manson, il quale cercò di sfruttare l'amicizia per entrare nel mondo della musica, fino a quando Wilson tagliò tutti ponti capendo con chi aveva a che fare ).
Quando Pacific Ocean Blue uscì, i Beach Boys erano ai minimi storici di ispirazione e successo, tenuti in piedi proprio da Dennis; nel mondo musicale non si parlava d'altro che di punk, a chi vuoi che interessi l’album del batterista degli (ex) ragazzi da spiaggia? Così sarà, perché l’album, una sorta di diario delle sue abilità costruito in sette anni grazie al supporto di James Guercio, non ebbe troppo successo commerciale anche se la critica lo promosse, accrescendo il suo valore con il tempo. Dennis forse lo sapeva e nelle note di copertina sembrava scusarsi già con troppo anticipo “questo è il mio primo disco lontano dai Beach Boys. Sono sicuro che capirete il mio nervosismo. Vi ringrazio per il supporto e vi invito a mandare commenti o suggerimenti dopo averlo ascoltato”. Invece, Dennis Wilson che in questo album le bacchette della batteria le lascia volentieri ad altri, suona tutti gli strumenti possibili, prediligendo il pianoforte e stupisce tutti con canzoni che esulano totalmente dalla discografia della band per raggiungere uno status emozionale che sa di malinconia e verità, di amori falliti, tormento e disperazione, disperata ricerca di una pace interiore che mai troverà e che la sua voce roca da trentatreenne già in pensione ma interessantissima sa rendere al meglio. Dal gospel iniziale di ‘River Song’ alla straziante dedica ad un amico scomparso ‘Farewell My Friend’ (che tornerà tristemente utile al suo funerale), dall’arcigna’Friday Night’ alla dolente ‘Thoughts Of You’, la corale ‘Rainbows’, i sospiri e il crescendo di ‘Time’, i fiati della felina ‘Dreamer’, la confidenziale ‘You And I’, alla profetica ‘End Of The Show’, Dennis Wilson gioca in musica nello stesso campo su cui ha giocato la sua vita, su quel bordo della scogliera che da sul precipizio, su quella onda cavalcata fino alla fine. Fino a quando ce n'è. Adrenalina e urgenza dettano lo struggente spartito scarabocchiato di pop soul, funky e psichedelia salata di iodio. Imperfetto ma vero come i suoi occhi e la pelle bruciata dal sole californiano del suo viso che riempie la copertina. Un disco che rimase introvabile per venti anni, poi la ristampa del 2008 lo fece riemergere insieme al disco perduto Bambu (che lo stesso Wilson riteneva superiore) che non fece mai in tempo a pubblicare perché troppo perso a vivere (male). Qualcuno ha trovato il tempo per sceneggiare la vita del fratello Brian in un bel film (Love & Mercy) , ma la vita di Dennis Wilson è altrettanto degna di essere ricordata (rimane il bel documentario della BBC) , magari partendo proprio dal fotogramma finale per poi andare a ritroso: la quiete delle acque dell'oceano in primo piano dopo che l’ultima onda della sera ha cancellato la scritta “Pacific Ocean Blue” disegnata sulla sabbia.



martedì 8 gennaio 2019

RECENSIONE: JOHN GARCIA (John Garcia And The Band Of Gold)

JOHN GARCIA AND THE BAND OF GOLD (Napalm Records/Audioglobe, 2019)




bentornato
Potremmo liquidare tutto con un “niente di nuovo sotto il sole di Palm Springs” ma visto che i due album solisti precedenti non avevano fatto gridare al miracolo, con questo album John Garcia qualche allucinazione in più tra la sabbia del deserto e il cielo stellato ce la fa venire. Tra i due minuti e quarantacinque secondi dell’ iniziale strumentale a due velocità ‘Space Vato’ e i quattro minuti del soffuso e liquido finale, in stile Planet Caravan' di ‘Softer Side’ ci regala qualche buon motivo per seguire ancora le sue orme prima che il vento le cancelli. Eh sì, pare che in alcune interviste abbia lasciato trapelare l'intenzione di mollare tutto dopo questo disco. Ci credete?
Questo ritorno con l'ennesimo progetto chiamato JOHN GARCIA AND THE BAND OF GOLD, dopo aver messo in piedi e poi abbandonato mille altri progetti (Hermano, Unida , Slo Burn, Vista Chino e i due dischi solisti tra cui The Coyote Who Spoke in Tongues che rivisito vecchie canzoni della sua storica band) l’ex iconico cantante dei Kyuss mette in piedi l'ennesima band, questa volta formata dal fedele chitarrista Ehren Groban, il bassista Mike Pygmie (ex Mondo Generator) e il batterista Greg Saenz (ex Dwarves, Excel, Suicidal Tendencies). La produzione è affidata allo storico Chris Goss che recentemente lo stesso Garcia ha definito “chirurgo” per aver avuto il merito di tirarlo fuori da un periodo non troppo felice e portare a termine la lavorazione del disco che cerca di ritrovare qualche vecchio cimelio targato Kyuss. In alcuni punti ci riesce pure ma è puro revisionismo.
Garcia mantiene inalterata la sua voce inconfondibile e ipnotica sia quando batte le strade che portano al crossover funky ‘Chicken Delight’ che sa tanto di anni novanta, sia quando sembra impossessarsi dello spirito di Jimi Hendrix nel blues ‘Kentucky II’. Foxy Lady? Dietro di lui una band che cerca di suonare sporca ma che spesso Garcia porta all'ordine con la melodia del cantato. Piace il singolo ‘Jim’s Whiskers’, la pesante circolarità del riff che traina ‘My Eveything’, il groove ‘90 di ‘Lillianna’, i rimandi ai QOTSA del vecchio amico Josh Homme in ‘Apache Juncion’, le distorsioni e i rallentamenti di ‘Cheyletiella’. Come tanti altri vecchi rocker di razza, Garcia la storia l’ha già modificata quasi trent'anni fa, vivere e essere ricordato su quello che ha messo in piedi nel suo passato è un diritto che nessuno può negargli. Piacevole.







JOHN GARCIA- The Coyote Who Spoke In Tongues (2017)


 

sabato 5 gennaio 2019

RECENSIONE: LUCA ROVINI & COMPANEROS (Cuori Fuorilegge)

LUCA ROVINI & COMPANEROS-Cuori Fuorilegge (2018)



 “Qualsiasi tipo di viaggio ha influenzato le mie canzoni. Non solo lo stare sulla strada, andare in giro per paesi, osservare la gente, credo in molti tipi di viaggio, c’è quello delle emozioni, quello dell’amore, quello della solitudine e spesso anche quello del dolore. Sono tutti viaggi che ti sbattono in qua e là, ti girano attorno e poi spariscono all’improvviso, magari non li vedi più ma restano dentro di te. Questo succede a tutti. Poi un giorno ti svegli e te li ritrovi lì che vogliono venire a trovarti, da me si materializzano con la voglia di scriverli come canzoni. E’ un viaggio della vita, io ho scelto di raccontarlo così, con una chitarra.”

Rispondeva così Luca Rovini, due anni fa, a una mia precisa domanda: quanto il viaggio ha influenzato la tue canzoni? Con Cuori Fuorilegge conferma di avere fatto ulteriore strada e caricato la valigia di nuove esperienze, tramutate con facilità in parole, tanti km da quel disco Figure Senza Età uscito nel 2017 e ancora di più se guardiamo indietro alla sua storia musicale arrivando fino all’esordio Avanzi e Guai. Se allora sembrava ancora un hobo solitario in cerca dell’angolo giusto dove fermarsi, far riposare le scarpe sporche di terra e polvere e calare il cappello sotto un lampione sul marciapiede, ora lo vedo sicuro sopra le assi di un palco illuminato dalle giuste luci e con lo stivale che batte il tempo sulle assi ma sempre con l'immutato spirito da songwriter solitario e qui la copertina con quella custodia in primo piano è la conferma. La città però è sempre la stessa: non è Pisa, non è nel Texas ma è quella con le vie della coerenza, delle piazze dal cuore sanguinante e delle case piene di passione. Le canzoni sono più ricche, elettriche, guidate dalla chitarra esperta di Peter Bonta , chitarrista americano con il prestigioso e buon passato nelle tasche, dalla batteria decisa di Gary A. Crockett (che ha sostituito Stefano Costagli, purtroppo scomparso prematuramente proprio quando il disco prendeva forma) e dal basso di Andrea Pavani. Tutti insieme formano i Companeros, amici fedeli, musicisti fidati che lo accompagnano su disco e nelle serate, quando porta in giro le sue canzoni che rimangono quel rassicurante piatto caldo cucinato a fuoco lento dove l’America country rock dei fuorilegge bolle insieme alle storie cantautorali della provincia italiana, dove le spezie d’amore (‘Honky Tonk Senorita’) ricoprono il gusto amaro delle falsità e delle bugie dell'umanità (‘Non Mi Avranno Mai’) , dove metafore e realtà ballano sulle stesse note ora affilate, elettriche e incisive (‘Fuorilegge’, ‘Vite di Contrabbando’), per farsi poi malinconiche e amare guidate dal dolce violino di Chiara Giacobbe (‘Al Tavolo di Un Altro’). Viaggia bene Luca: lentamente, ci fa ammirare i grandi spazi nella ballata di apertura ‘Senza Gambe né Parole’, quando accellera ci inebria con una vampata di benzina versata sul caldo asfalto che bolle nel rock on the road di ‘Sei giorni Sulla Via’ (rifacimento di ‘Six Days On The Riad’), ci cattura definitivamente nel finale con la descrittiva ‘Nuda Sull'Aurelia’ che batte le strade del suo idolo Bob Dylan. 12 canzoni di cuore, asfalto e resistenza. Avanti tutta, fino alla prossima fermata.


It's just another town along the road: Luca Rovini-Figure Senza Età & intervista

giovedì 3 gennaio 2019

RECENSIONE: DAN BAIRD & HOMEMADE SIN (Screamer)

DAN BAIRD & HOMEMADE SIN-Screamer (2018)



Più forte di prima
Uno dei migliori dischi di puro rock dell’anno è nato, con il rischio non vedere mai la luce, in un momento poco felice per il suo autore. SCREAMER è stato scritto da Dan Baird mentre era in cura per una forma di leucemia. Un riposo forzato che lo ha tenuto lontano dai palchi mentre il suo gruppo, gli HOMEMADE SIN portava a termine gli impegni presi con un altro cantante, il produttore Joe Blanton. Tempo utile per curarsi al meglio ma anche per ripensare al passato, agli amori e alle amicizie con un tocco di nostalgia ma con tanto ottimismo che finirà nei testi delle canzoni nate in quei giorni, canzoni che guadagnano il tiro rock’n’roll dei vecchi tempi, arrivando a toccare spesso e volentieri il periodo dei Georgia Satellites, di quei giorni bagnati dallo spirito del sud, dalle chitarre degli Stones e dei Faces. Accantonato il primordiale e ironico titolo Where Were We Before We Were So Rudely Interrupted, una volta guarita la malattia, Baird, oggi 65 anni, si è chiuso in studio con il batterista Mauro Magellan (fedele fin dai Georgia Satellites) , il nuovo bassista Sean Savacool e il chitarrista Warner E Hodges (Jason And The Scorchers) e ha messo su disco quelle idee: dodici canzoni, 50 minuti di puro rock chitarristico.
 “Warner e Mauro hanno preso Joe Blanton, il nostro amico e produttore come vocalist e chitarrista per gli Homemade Sin (non avrei dato la mia benedizione a nessun altro se non a lui). Il nostro vecchio bassista, Micke Björk, è stato messo in prigione. Roba di famiglia, cose serie, quindi abbiamo dovuto prendere un nuovo ragazzo al basso”. Tra la tirata ‘What Can I Say To Help’, il boogie di ‘Everlovin Mind’, i sapori southern di ‘You’re Going Down’, la solidità di ‘Charmed Life’, il veloce rockabilly di ‘Mister And Ma’am’, e la finale ‘Good Problem To Have’ cara ai vecchi Ac Dc, c’è anche il tempo per piacevoli e ariose ballate elettriche come ‘Adiliyda’ scritta insieme al cantautore Will Hoge, ‘Something Better’, e il country rock di ‘Up In The Kitchen’ che pare illuminato dalla stella luminosa di Tom Petty. Un rock che non troverà mai morte, perfetta sintesi tra chitarre elettriche e melodia.