domenica 28 aprile 2024

RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE (Fu ## in' Up)

NEIL YOUNG & CRAZY HORSE  Fu ## in' Up (Reprise Records, 2024)




cavallo vecchio non muta ambiatura

Mentre sta uscendo questo ennesimo disco live, Neil Young e i Crazy Horse hanno iniziato in America un nuovo tour e dai video che circolano sembrano tutti in buona forma, anche il vecchio Neil sembra essersi ripreso da una forma di artrite che lo ha perseguitato ultimamente. Micah Nelson (Promise of the Real) ha preso il posto di Nils Lofgren, impegnato con la E Street Band di Springsteen ma qui in questo concerto registrato al Rivoli club di Toronto, davanti a 200 persone in una serata privata per pochi, ci sono tutti e due (si scambiano il ruolo tra chitarre e pianoforte) che uniti alla Old Black di Young, al basso di  Billy Talbot e la batteria di Ralph Molina portano a sublimazione il lato elettrico della sua carriera.

Viene celebrato Ragged Glory (già osannato live con Weld e pure recentemente con l' uscita di Way Down In The Rust Bucket , registrazione live risalente al 1990 ), uno dei tanti vertici elettrici dei Crazy Horse, disco che nel 1990 sembrò aprire un nuovo inaspettato decennio per il rock, ma visto che Neil Young non sarebbe lui senza qualche bizzarria di mezzo, le nove canzoni, a parte Farmer John che è una cover (e Mother Earth presente su Ragged Glory ma qui assente), sono state ribattezzate con titoli diversi, estrapolando una frase dal testo di ognuna di esse. Così Country Home diventa City Life e Over And Over è Broken Circle.

Un modo, secondo l'autore, per far continuare a vivere in eterno queste canzoni (eterne come l'amore) che ancora una volta esplodono in tutta la loro veemenza di feedback e spirito garage con qualche divertissement honky tonk portato dal pianoforte (in Feels Like A Railroad (River Of Pride) ossia White Line).

Certo, un disco per conpletisti incalliti, come gran parte delle ultime uscite legate agli archivi, e poco digeribile per chi apprezza maggiormente il lato bucolico di Young ma cosa si può dire davanti a un settantottenne e due ottantenni che  spingono come ragazzini sopra ai dodici minuti di Valley Of Hearts (Love To Burn) e  ai quindici della finale A Chance On Love (Love And Only Love)? Insomma nulla di nuovo sotto il sole del canadese ma buono per provare lo stato di salute dal vivo dopo gli anni di stop dovuti al lockdown. E le parole di Micah Nelson confermano: "c'è qualcosa di così primordiale e primitivo in Neil, specialmente quando è con Crazy Horse".





domenica 21 aprile 2024

RECENSIONE: MARK KNOPFLER (One Deep River)

 

MARK KNOPFLER  One Deep River (EMI, 2024)




luci gentili

Diciamo la verità: Mark Knopfler con il canzoniere messo in piedi con i Dire Straits potrebbe vivere di rendita all'infinito. Potrebbe fare tour nostalgici e accontentare quei fan distratti con un piede ancora negli anni ottanta che dopo i suoi concerti odierni si domandano "ma come? Solo due canzoni dei Dire Straits?". Li ho sentiti con le mie orecchie. Che poi, a fare queste cose ci pensano le cover band. E Mark Knopfler da più di trent'anni ha scelto di non essere la cover band di se stesso. Vi sento: "ma come? I suoi dischi sono tutti uguali. Fanno dormire". Troppo facile liquidare un disco così. Ha scelto una strada, la sta percorrendo e probabilmente la seguirà fino alla fine dei suoi giorni. Alcune recenti dichiarazioni non lasciano dubbi "con i Dire Straits non tornerò mai". Ma nemmeno dal vivo da solista a quanto pare. Una strada onesta che serpeggia elegantemente in mezzo al folk, al country, al blues, ai toni jazzati, dove i guizzi veramente elettrici sono pochi (in questo disco quasi assenti), dove i tempi sono lenti, contemplativi, da lungo viaggio, dove comunque a prevalere sono sempre le belle canzoni. E qui calo il mio asso che sa di sentenza: Privateering rimane il suo album migliore e per ora inavvicinabile.

Perché le canzoni di Mark Knopfler sono tutte belle: basterebbe sceglierne una a caso anche da questo disco, e ascoltarla senza pregiudizio. Prendetevi quattro minuti. Fatto? Non è bella? Ecco, questo mio scritto potrebbe finire qui, senza che vi racconti di quanta malinconia e contemplazione serpeggi tra le dodici canzoni che compongono questo suo decimo disco in studio, popolate da continui rimandi al Tulsa Sound del suo mentore JJ Cale, fin dall'apertura 'Two Pairs Of Hands' , canzone che si sofferma sulla sempre dura vita del musicista on the road insieme a una band, mentre in 'Ahead Of The Game' ricorda con velata nostalgia i primi passi musicali.

Serve ricordare quanto la sua scrittura sia sempre magnificamente descrittiva come nel bel blues 'Scavenger's Day' (uno dei pochi up tempo con la chitarra elettrica in evidenza) dove racconta di un poco di buono o in 'Tunnel 13' dove racconta la storia di tre banditi, i fratelli D'Autremont, con l'aiuto delle coriste? Potrei raccontarvi di quanto gli archi di ' Black Tie Jobs' diano una solenne grevità a una delle tante ballate del disco che indugia alla riflessione, al sogno, come in 'Watch Me Gone' con la lap steel di Greig Leisz riesca a citare due vecchi amici. A voi scoprire chi. Potrei dirvi come in 'Sweeter Than The Rain' che si apre con un canto a cappella riesca ad evocare antiche lande britanniche, o come non possa mancare un treno in arrivo ('Before My Train Comes'), che potrebbe essere anche 'slow' come quello del 1979 ('that's my train coming' canta) mentre il batterista Ian Thomas spazzola sui tamburi unendo America e Inghilterra.

"Se ascolti il suono del treno interpreti meglio il suono della vita" ha detto recentemente.

Potrei raccontarvi di come in 'This One's Not Going To End Well' giochi di classe aiutato dal violino di John McCusker con una storia di schiavitù inclusa nel.testo o come in 'Smart Money' le tastiere del sempre fedele Guy Fletcher portino verso lande caraibiche.

Ascoltando la finale, autobiografica (il fiume è il Tyne della sua Newcastle) e dylaniana 'One Deep River' (che già da sola varrebbe l'acquisto) mi assale quella strana voglia di pensare a cosa uscirebbe oggi da una collaborazione tra Mark Knopfler e Bob Dylan, ora che la saggezza ha preso il sopravvento, il tour quasi "pacco" insieme lo hanno già fatto e sembra un vecchio ricordo e il rosicato tempo davanti non è più quello che c'era ai tempi di Infidels.





lunedì 15 aprile 2024

RECENSIONE: THE BLACK KEYS (Ohio Players)

THE BLACK KEYS  Ohio Players (Nonesuch Records, Easy Eye Sound, 2024)




buona partita!

Chissà, forse mi sto rincoglionendo io (è la cosa più probabile) vista l'accoglienza tiepida che ha ricevuto nella sua prima settimana d'uscita il dodicesimo album dei Black Keys: ma secondo me è il loro miglior disco dai tempi di El Camino. Se nei due precedenti dischi, che comunque mi erano piaciuti (i Black  Keys mi piacciono anche nella loro onesta paraculaggine) la coppia formata da Dan Auerbach e Patrick Carney aveva tirato il freno per stazionare su lidi sicuri (sto parlando degli album  Let's Rock e Dropout Boogie), con Ohio Players (notare l'omaggio alle loro radici - Akron - e alla band funky loro concittadina) si ributtano nella mischia degli sperimentatori, rischiano e escono dalla comfort zone che li recintava ultimamente. Si può rischiare anche pacioccando e divertendosi con il pop, i generi e coinvolgendo alla festa altre persone.

Per farlo cedono alle collaborazioni e  radunano alcuni amici.  Primo: Beck che collabora come co-autore, voce e strumentista in quasi metà disco, un incontro, il loro, avvenuto più di vent'anni fa in tour e che ora da i suoi primi frutti anche in studio di registrazione, poi Noel Gallagher presente pure lui in modo massiccio,  più alcuni featuring dei rapper Lil Noid e Juicy J. e infine il produttore Dan the Automator

"Volevamo potesse stare al passo con Brothers ed El Camino . Alla fine abbiamo lavorato molto duramente su questo album e abbiamo trascorso più tempo in studio rispetto a Brothers , El Camino e Turn Blue messi insieme. Penso che siamo stati in studio circa 150 giorni" dice Patrick Carney. 

Cosa ne è uscito? Un disco che al primo ascolto dici "boh?", al secondo ti prende voglia di riascoltarlo, al terzo ti ci infili dentro fino alle scarpe. Così è successo a me, naturalmente. "Una collezione di 45 giri" come dicono loro: 14 canzoni dal basso minutaggio, uno strike di motivi pop sixties, freschi e ballabili ('This Is Nowhere', 'Don't Let Me Go', 'Only Love Matters'), di funky e soul ('Beautiful People (Stay High)), di onde surf (You'll Pay), glassa pop aroma Beatles in primo piano (On The Game), poi certe cose che sembrano riportare le lancette agli albori del crossover ('Candy Y And Her Friends' con Lil Noid e 'Paper Crown' con Beck e Juicy J. e quella chitarra "alla Santana") quando mischiare i generi era ancora un azzardo visto con occhi storti da certi puristi. Il rap che va a braccetto con il rock.

A tenere i ganci con il passato ci pensano la cover di William Bell e Booker T. Jones

('I Forgot To Be Your Lover') e certe reminiscenze garage blues che escono da 'Please Me (Till I'm Satisfied)' e 'Everytime You Leave', una 'Live Till I Die' che inizia là dove finiva 'Cinnamon Girl' di Neil Young e le atmosfere Western di 'Read Em And Weep' che piacerebbe tanto a Quentin Tarantino.

Si percepisce voglia di divertirsi. Dategli un po' di tempo...il tempo di una serata al bowling aspettando il primo strike. Con me è arrivato quasi subito.





domenica 7 aprile 2024

JUDAS PRIEST live@Forum Assago, 6 Aprile 2024



JUDAS PRIEST live@Forum Assago, 6 Aprile 2024

sei foto da portarsi a casa

1 - Quando cala il telone sulle note di War Pigs dei concittadini Black Sabbath (non è forse l'operaia Birmingham una delle città più rock'n'roll di sempre?) e il concerto inizia con la band raggruppata intorno alla batteria di Scott Travis. Sembra un'istantanea rubata ai primi tempi quando gli spazi erano ancora stretti e angusti. I loro abiti con rifiniture d'acciaio e d'argento brillano, poi entra in scena  il sontuoso impianto luci, semplice ma d'effetto e capisci quanta strada abbiano fatto.



2 - Le canzoni dell'ultimo album Invincible Shield non soffrono a stare in mezzo ai loro classici. Panic Attack è l'opener del concerto e funziona, la melodia di Crown Of Horns sembra già un classico e ha solo poche settimane di vita. Ma in definitiva quanti fottuti "classici" possono vantare i Judas Priest? Stasera hanno tirato fuori una Saints In Hell da Stained Class (1978). E quanti sono rimasti fuori dalla setlist stasera? Io ad esempio avrei voluto Night Crawler.


3 -  Richie Faulkner e Andy Sneap sono una bellezza da vedere insieme tanto che KK Downing è ormai storia e passato. L' uno-due Victims Of Changes/ The Green Manalishi da manuale.



4 - Scott Travis e Ian Hill sono invece una macchina da guerra là dietro. Il bassista, 72 anni, è inchiodato al pavimento ma non butta via un colpo, l'attacco di batteria di Painkiller nella mia testa è sempre la versione metal anni novanta di Rock’n’Roll di John Bonham. 


5 - Rob Halford a 72 anni ha ancora una voce della madonna e una presenza scenica carismatica. Sui toni bassi è molto interessante e tra poco uscirà il suo progetto blues. Quando si invecchia si arriva lì.

Cambia giacche come una modella sulla passerella e gioca e fa giocare con la voce come faceva l'amico Freddie Mercury. L'entrata in scena con moto e frustino su Hell Bent For Leather è tanto pacchiana quanto fotografia insostituibile da tramandare ai posteri tra le migliori trovate rock'n'roll di sempre sopra le assi di un palco, giocandosela con i Blue Oyster Cult, la ghigliottina di Alice Cooper e tante altre. Se non ci sono ti mancano. Cose che via via andranno a scomparire. Lo sapete?

E poi... dopo aver letto la sua autobiografia  Confesso che non è certamente un saggio letterario ma  la schiettezza e l'autoironia di Halford ne fanno una  autobiografia  "vera", esplicita, godibile e diretta come poche, facendotelo amare ancor di più. Quindi: anche se sei un fan del folk britannico, un suonatore di country bluegrass, un jazzista, un alternativo a tutti i costi, credo che la vita di Rob Halford meriti di essere letta e conosciuta comunque. 

"Ero il vocalist di una delle più grandi metal band esistenti, eppure ero troppo spaventato per dire al mondo di essere gay. La notte me ne stavo a letto sveglio, turbato, a domandarmi:" cosa succederebbe se facessi coming out? ". L'ha fatto e ne è uscito più forte di prima.



6 - l'amorevole devozione con la quale Halford si prende cura di Glenn Tipton, affetto da Parkinson, abbracciandolo e bisbigliandogli frasi d'incoraggiamento, uscito nel gran finale per eseguire Metal Gods e la sempre spassosa Living After Midnight mi ha stretto il cuore. Tipton non riusciva a lanciare i plettri al pubblico a fine concerto, li ha lasciati uno ad uno a un addetto alla sicurezza che ha fatto da tramite dalla sua mano a quelle dei fan.


"In this world we're livin' in we have our share of sorrow, answer now is: don't give in, aim for a new tomorrow"



giovedì 4 aprile 2024

RECENSIONE: ANDREA VAN CLEEF & The Black Jack Conspiracy (Horse Latitudes)

 

ANDREA VAN CLEEF & The Black Jack Conspiracy  Horse Latitudes (Rivertale Productions, 2024)



cavalcate in libertà

Mi perdonerà Andrea se oso mettere in pubblica piazza un argomento su cui si discuteva qualche mese fa in chat e sui cui entrambi eravamo d'accordo: certo giornalismo musicale degli anni settanta e ottanta ha creato barriere e paraocchi negli ascoltatori più che aprire menti e stimolare orecchie. Quando da uomo di valle sbarcai a Brescia quasi dieci anni fa, uno dei primi concerti che vidi in città fu quello di Andrea Van Cleef con il suo  defunto progetto Van Cleef Continental: un concentrato di stoner pesante che sapeva aprirsi verso territori prog e psichedelici. Con il trascorrere degli anni ho capito quanto la curiosità musicale di Andrea invece (figlia degli anni novanta) gli abbia permesso di viaggiare, suonare e incidere in totale libertà ciò che più gradiva sul momento in base all'ispirazione. Eccolo così cantare e suonare la chitarra nei bergamaschi Humulus, band stoner con un buon seguito in Europa (recentemente ha lasciato la band), eccolo con i suoi tanti progetti solistici, partendo dal folk psichedelico di Sundog, passando dal precedente e vario Tropic Of Nowhere (2018) e poi i suoi tanti omaggi alla musica, tra tutti quello dedicato ai Morphine, insieme ad altri musicisti bresciani, che ogni tanto rispolvera dalla naftalina e porta sopra a un palco. E proprio dalla fine di questo nuovo disco vorrei partire: la traccia finale 'The Real Stranger', con i suoi sette minuti la più lunga del disco, vede proprio ospite Dana Colley, sassofonista della inimitabile band americana capitanata dal compianto Mark Sandman. 

È un disco, il suo primo senza chitarre elettriche, che all'ascolto potrebbe dividersi in tre atti: una prima parte legata in modo indissolubile al country americano, c'è molto di Johnny Cash in tracce come 'The Longest Song' e 'Love Is Lovely' dove la voce profonda viene doppiata da una voce femminile quasi a ricreare il connubio Cash- June Carter, ma scava ancora  più in profondità serpeggiando tra i fantasmi e i simbolismi che popolano certa letteratura gotica a stelle e strisce e al fantasma più terreno di Mark Lanegan nell'iniziale e primo singolo 'A Horse Naned Cain' e in 'Arrows'. 

In mezzo due tracce più ritmate come 'Thing', doo-wop non troppo distante dell'approccio su cui Dan Auerbach ha incanalato i suoi Black Keys e 'Oh La La', l'unica cover del disco, canzone dei Faces che ai tempi perfino Rod Stewart si rifiutò di cantare, salvo poi farla sua da solista, lasciando l'incombenza a  Ron Wood che se la cavò alla grande. Andrea non solo la canta ma riesce anche a vestirla con i suoi abiti.

Se 'Fires In My Bones' è un folk con strumenti a corda e violino che conducono verso terre irlandesi, il finale del disco sembra allargare gli orizzonti sonori verso soluzioni più ardite: prima con 'Come Home' che assume quelle trame cupe e misteriose che Daniel Lanois imbastì per Oh Mercy' di Bob Dylan, poi con  'The 'Disappearing Child' che avanza in un crescendo quasi orchestrale che mi ha ricordato certe composizioni di  Glen Campbell (di rimando anche Western Stars di Bruce Springsteen) per poi concludersi con la già citata 'The Real Stranger' dove contrabbasso e percussioni preparano l'entrata in scena del sax di Colley che si prende tutta la scena. Canzone dalla grande atmosfera e degna chiusura di un disco dal fascino oscuro, misterioso, avvolgente, dai tratti filmici e dal carattere ben preciso. 

Registrato tra lo Studio Rick Del Castillo in Texas dove hanno suonato ospiti come Matthew Smith, Haydn Vitera, Jason Murdy e il Buca Recording Studio di Montichiari  con Simone Piccinelli in prima linea e una lunga schiera di musicisti bresciani: Ottavia Brown, Pietro Gozzini, Simone Grazioli, Simone Helgast, Giulia Mabellini, Matteo Rossetti.

L'altra sera ero a vedere Steve Wynn quando un amico particolarmente curioso mi ha chiesto quale fosse l'ultimo disco da me ascoltato: consigliandolo, gli ho risposto questo, in macchina, durante il tragitto verso Torino. Consiglio che allargo anche a tutti voi, naturalmente.





mercoledì 3 aprile 2024

RECENSIONE: LITTLE ALBERT (The Road Not Taken)

LITTLE ALBERT   The Road Not Taken (Virgin/Universal, 2024)



blues again

Che i Messa siano una delle rock band italiane più interessanti apparse negli ultimi anni è ormai un dato di fatto assodato: parlano chiaro i loro dischi, i loro concerti, i loro tour  negli Stati Uniti (la foto di copertina scattata in Arizona) e le presenze ai maggiori festival europei. Alberto Piccolo della band veneta è il chitarrista (qui anche voce) e per la seconda volta si concede l'uscita solistica sotto il nome, non troppo camuffato, di Little Albert. Ha firmato per la prestigiosa Virgin e fatto uscire questo The Road Not Taken riprendendo quella strada blues iniziata quattro anni fa con il precedente Swamp King ma che di fatto ha iniziato a percorrere appena ha preso una chitarra in mano quando in casa giravano i dischi dei Led Zeppelin. Qualcosa che ha dentro, si sente e lo si capisce guardandolo sopra a un palco.

Ad accompagnarlo la batteria di Diego Dal Bon e il basso di Alex Fernet, più l'aiuto nella stesura dei testi della compagna di band nei Messa Sara Bianchin. Registrato alla vecchia maniera all'Outside Inside  Studio insieme a Matteo Bordin.

Un disco blues che pare uscito tra i fine anni sessanta e i primi settanta: qui si parla la lingua dei Cream, dei Led Zeppelin, dei Ten Years After, Johnny Winter, Blue Cheer, Black Sabbath, Hendrix e Steve Ray Vaughan, più tutti i padri neri naturalmente, aggiungendo quel tocco personale derivante dai suoi studi jazz.

Se l'iniziale 'Still Alive' tradisce l'amore per l'hard blues hendrixiano e lo stoner, proseguendo le cose si fanno via via sempre più interessanti e complicate. 'Demon Woman' batte territori da "dirigibile" inseguendo Jimmy Page (tornato in auge sulla bocca di tutti, se mai qualcuno l'abbia  dimenticato, dopo il film al cinema dei Led Zeppelin dove pare un extraterrestre non replicabile), 'See My Love Coming Home' è lenta come il più nero sabbath con il bel solo finale, ' Hiding All My Love Away' e 'Magic  Carpet Ride' volano alte di psichedelia e prog, 'Blue And Lonesome' di Little Walter è l'unica cover,  fino ad arrivare a 'This House Ain't No Home', la mia preferita, dinamica, prova di squadra per power trio, con i suoi cambi di tempo, soffusa pronta ad esplodere con la lunga jam finale che passa dal jazz, altro suo grande amore. Alberto è uno dei migliori chitarristi italiani degli ultimi dieci anni: tecnico ma anche pieno di passione, non aggiunge mai troppo,  fa il giusto, lasciando spazio alla composizione. Trentasei minuti che volano, con la non scontata bravura di lasciare il suo personale tocco in un genere destinato all'eternità.





martedì 2 aprile 2024

TYGERS OF PAN TANG live@Legend Club, Milano, 30 Marzo 2024



Diciamolo: alcuni grandi gruppi della NWOBHM a distanza di più di quarant'anni dalla loro apparizione sono ancora in splendida forma, pur con l'età che avanza, con le immancabili defezioni che la vita porta in conto e con l'inevitabile innesto di nuovi componenti a portare forze nuove. Qualcuno che storce il naso, comunque, c'è sempre: Jacopo Meille prima del concerto mi ha raccontato di quanti non riescano ancora ad accettare che i Tygers Of Pan Tang girino il mondo con questo nome perché è rimasto un solo componente originale."Quanti gruppi possono vantare tutti gli originali in formazione? Forse solo gli U2". 

L'esempio degli ultimi album di Judas Priest e Saxon freschi di pubblicazione le  cantano chiaro alle nuove generazioni, il DNA non mente (il prossimo weekend insieme live a Milano per chi ci sarà), i Tygers Of Pan Tang guidati dal veterano chitarrista Robb Weir, uno che ci crede ancora, si accodano  e confermano il tutto su disco con lo strepitoso Bloodlines uscito l'anno scorso (sapete quei dischi perfetti dove forza e melodia sono incastrate in modo  spettacolare e le canzoni ci sono e funzionano? Eccolo!) e live dove passato e presente si rincorrono senza prevalere l'uno sull'altro.  Jacopo Meille con la sua presenza bluesy, "toscana" e "Plantiana" è in formazione da vent'anni, il terremotante batterista Craig Ellis pure (più Tygers Of Pan Tang di così), i più recenti innesti di Francesco Marras che ha portato il suo funambolico e fresco chitarrismo donando pure un altro pezzetto d'italia alla band britannica (siamo a 2/5) e del basso di Huw Holding, sinonimo di mestiere e solidità d'altri tempi, hanno donato ulteriore vivacità a canzoni entrate di diritto nella storia del metal britannico.

Album come Wild Cat (Euthanasia, Slave To Freedom, Suzie Smiled), Crazy Nights (Do It Good, Love Don't Stay, Running Out Of Time), Spellbound (Gangland, Hellbound) non fanno ombra alle canzoni degli ultimi vent'anni (Destiny, Keeping Me Alive) e dell'ultimo uscito Bloodlines (A New Heartbeat, Fire On The Horizon, Back For Good, Edge Of The World) così come i ricordi del passato non sembrano mettere in ombra una formazione vitale e scalpitante che ha ancora qualcosa da dire. Non c'è traccia di tempi passati, revival e nostalgia ma solo di presente e futuro. Buona cosa per una band nata nel 1978.

Di imminente uscita un nuovo live album ma il consiglio è di passare a vederli per togliersi ogni dubbio.