lunedì 26 luglio 2021

RECENSIONE: ANDREA VAN CLEEF & DIEGO DEADMAN POTRON (Safari Station)

 

ANDREA VAN CLEEF & DIEGO DEADMAN POTRON  Safari Station (Rivertale, 2021)

next stop...

In adolescenza l'estate aveva due facce nello stesso luogo. C'era quella sudaticcia da tormentone estivo, chiassosa e disordinata, a tratti invivibile, ubicata tra un campeggio affollato, sempre sold out, e il centro città caotico al sopraggiungere della sera, poi bastava mettersi nelle sapienti mani di un Caronte dai capelli lunghi e ancora neri nonostante l'età, che di notte  faceva il pescatore, con i suoi jeans arrotolati fino al ginocchio, la camicia aperta che lasciava intravedere i peli bianchi del petto e la pelle bruciata dal sole: con il suo motoscafo ti accompagnava verso l'altra facciata. Quella dove il sole picchiava ancora più duro, ma il silenzio richiamava la libertà: di spogliarsi, mettersi a nudo senza temere i giudizi altrui, vivere il caldo del sole all'ombra e l'oscurità della notte con un fuoco a fare luce abbracciato alla sorella luna. Ecco, l'ascolto di questo disco mi ha riportato verso quella seconda facciata esotica delle mie lontane estati. Mi pare che Andrea Van Cleef e Diego Potron siano arrivati a questo disco senza rincorrere nulla se non la loro  folle voglia di fare musica in un'epoca non facile per cantare canzoni scritte di proprio pugno (avete notato quanti dischi di cover stanno uscendo?): non sono stati fermi a lucidare le loro chitarre con il block notes chiuso accanto, forse chissà, aspettando tempi migliori, mentre là fuori qualcosa si muoveva ma non ancora come ci piaceva una volta (sono solo due anni…paiono un'eternità). E inseguendo la stessa bandiera di libertà creativa, a loro volta Andrea e Diego percorrono ognuno la propria strada, simile ma diversa: quella del bresciano Andrea sembra più sperimentale, a tratti psichedelica (i blues del deserto 'Spiderweb Blues' e  'You and I Were Born For Better Things') e aperta ai suoni del mondo (la liquida 'Mozuela', la cover 'In Zaire" del cantautore britannico Johnny Wakelin, annata 1976), quella del brianzolo Diego più radicata nel folk (' 500 Miles Away') a tratti acido e straniante ('Gang Of Boyz'), esotico ('Kay Zanset')  ma è anche sua la più orecchiabile delle dieci tracce: il gospel  'Rise Above All Gods' che apre il disco catturando al primo ascolto. 

Si incontrano nel finale desertico, riverberato e sentito di  'Safari Station'. 

Un progetto che ha visto nell'instancabile e passionale Paolo Paggetti, patron della Rivertale Records, il gran cerimoniere mentre dalle mani esperte di Antonio Gramentieri (Don Antonio) è arrivata la benedizione in produzione, laggiù nascosti e isolati tra le campagne romagnole. 

Andrea e Diego suggellano un'amicizia e un percorso artistico e musicale che spesso si è incrociato come quando nell'autunno del 2020 hanno girato insieme per qualche concerto (ho assistito a quello svoltosi al Bloom, fu il mio primo dopo tanti mesi). Sembrava ci fosse la strada libera per ripartire, fu solo un abbaglio che in qualche modo continua ma che speriamo finisca presto. Intanto ora c'è un disco in più.








mercoledì 21 luglio 2021

RECENSIONE: ROBERT FINLEY (Sharecropper's Son)

ROBERT FINLEY 
 Sharecropper's Son (Easy Eye Sound, 2021) 




l'età giusta non esiste

"Eccomi qui alla mia età, solo ora sto realizzando il mio sogno d'infanzia… non permettere mai a nessuno di dirti cosa non puoi fare". A volte abbiamo bisogno delle favole a lieto fine per andare avanti e credere ancora in qualcosa. La musica non è esente, se ben setacciata, anzi, ne è fucina inesauribile. La storia di Robert Finley non è che una delle ultime favole a lieto fine infarcita di verità e leggende, ricordando da vicino quella (vera, falsa, ricamata?) di Seasick Steve per restare ai nostri tempi: un giovane della Louisiana, che a diciannove anni nel 1974 lascia i campi di cotone a Bernice e si arruola nell’esercito americano, unico modo sicuro per poter aiutare economicamente la madre. Con l’esercito arriva in una base americana in Germania e proprio in Europa, in mezzo al dovere (chiamiamolo così) ha modo di sviluppare la sua grande passione per la musica con la band dell’esercito: cresciuto a pane, acqua e gospel (a undici anni si comprò la prima chitarra con i soldi che il padre gli diede per un nuovo paio di scarpe), scalzo e con James Brown, B.B. King e i Temptations perennemente in testa, iniziò il suo lungo cammino. Tornato in Usa dopo il duro lavoro da carpentiere capisce però che la sua vera strada è la musica, complice la cecità che avanza mandandolo in pensione prima del previsto. La strada è però ancora dura e tutta in salita. Fino al 2015 girava vie secondarie e piccoli locali mentre a 64 anni si trovò a registrare un disco insieme a Gene Chrisman ( Elvis Presley band) e a mostri sacri come Duane Eddy, Bobby Woods e la Preservation Hall. Arriva alla musica che conta con GOIN’ PLATINUM! (dopo l’esordio Age Don't Mean a Thing del 2016), il primo disco a uscire per la nuova etichetta di Dan Auberbach, Easy Eye Sound. 
Già fu proprio “prezzemolo” Auberbach a prendere questo vecchio bluesman sotto la sua ala protettrice, invitarlo nel suo mondo, lo stesso che gravitava intorno al suo ultimo album solista (le canzoni furono scritte da lui, John Prine, Nick Love, Pat McLaughlin) e a fargli fare il grande salto. “Ho capito le capacità di Robert di andare oltre le canzoni blues. È un grande chitarrista blues, ma se posa la chitarra e si mette davanti ad un'orchestra può diventare come Ray Charles.” Così lo presenta Aurbach, sottolineando anche la cecità che lo ha colpito. Black Keys meets blues singer. 
Ora a tre anni di distanza, con gli States mainstream che lo conoscono attraverso America's Got Talent, la fama raggiunta (per chi invece è curioso di musica), esce questo Sharecropper's Son (figlio di un mezzadro) che diventa la sua autobiografia in canzoni (scritte con Auerbach e Bobby Wood), un vero concept dove la dura infanzia nei campi di cotone ('Country Child'), la speranza di una vita migliore ('Starting To See'), la fede ('All My Hope'), l'amore ('Sculed Out Of You' con i fiati dietro), i sogni legati alla musica si uniscono in dieci brani che bagnano letteralmente i piedi nelle acque stantie ma sempre fresche del blues (la languida 'My Story'), nel retro soul ('My Story'), nel gospel, nel R&B notturno ('I Can Feel Your Pain'), nel country, in quelle atmosfere calde e umide del sud così potenti da annebbiare i contorni e rinforzare il cuore. 
 Condotte dalla sua voce, che passa con facilità disarmante dal falsetto alle note gutturali, da trascinanti shuffle a famigliari abbracci soul resi possibili da una formazione di musicisti incredibili tra cui spiccano le chitarre di Kenny Brown, Billy Sanford e Russ Pahl, il batterista Gene Chrisman, le percussioni di Sam Bacco e il basso di Nick Movshon
 Robert Finley è l'uomo che vorremmo dentro a ognuno di noi, anche se ora, a differenza sua, siamo costretti a scappare in campagna per ritrovarci.






sabato 17 luglio 2021

RECENSIONE: THE WALLFLOWERS (Exit Wounds)

THE WALLFLOWERS   Exit Wounds (New West Records, 2021)



ali e radici

Un peso enorme. Solo Jakob sa quanto quel cognome sia in grado di piegare una schiena e far perdere la vista dalla strada maestra. E bisogna dirla tutta: Jakob Dylan ha sempre cercato di metterci del suo per non farsi schiacciare da quel macigno di cinque lettere, carne, sangue e ossa. Si è smarcato da un'ombra che solo a pensarla può trasformare in notte anche i raggi più luminosi, fin da quella accoppiata di dischi che fecero partire la carriera dei suoi Wallflowers tra il debutto del 1992 e lo splendido Bringing Down The Horse uscito nel 1996, al tramonto del grunge ma in grado di raccogliere quel che rimaneva. 

Poi quando la luce sulla band sembrò veramente affievolirsi ci provò da solo con due dischi cantautorali, acustici, molto personali e prodotti da pezzi da novanta come Rick Rubin e T-Bone Burnett, belli, autentici ma passati un po' in sordina lungo quel suono americana che lui stesso contribuì a svecchiare. I suoi Wallflowers di fatto però non sono mai stati accantonati anche se non hanno mai più brillato così bene in popolarità come ai vecchi tempi quando il loro nome era affiancato ad altri di un certo peso. Almeno fino ad oggi, perché questo Exit Wounds seppur con al fianco nuovi compagni (tra cui Val McCallum, già chitarra di Jackson Browne), nessun componente dell'ultimo Glad All Over uscito nel 2012 è qui presente (perché poi: nessuna formazione della band ha registrato due dischi consecutivi e di fatto Dylan è i Wallflowers), Jakob Dylan si rimette in corsia e viaggia in tutta sicurezza su quelle vecchie strade battute trent'anni fa ma con tutta la consapevolezza, la maturità e il piede leggero sull'acceleratore di oggi. 

I Wallflowers non cercano i colpi ad effetto, preferendo l'andatura morbida e sicura della rock ballad costruita su buone melodie, anche pop (la doppietta in apertura formata dalla dylaniana, intesa come padre, 'Maybe Your Heart' s Not In It No More' e 'Roots And Wings' ne è un buon esempio) su cui Dylan canta di nuove speranze all'orizzonte dopo periodi bui che hanno lasciato in ricordo solo cicatrici. 

"Voglio cantare canzoni che abbiano un po' di speranza" ha lasciato detto in una recente intervista e le canzoni sono pure nate prima della pandemia, immediatamente dopo la colonna sonora per il documentario Echo in the Canyon.  

Un disco, prodotto dall'amico e collega cantautore Butch Walker, che fila splendidamente dall'inizio alla fine (con qualche buona accelerazione come il funky di  'Move The River' o il rock'n'roll di 'Who's That Man Walking' Round My Garden') dove le tastiere di Aaron Embry fanno da morbido tappeto, la slide apre ampi spazi, la seconda voce femminile della cantautrice Shelby Lynne, fortemente voluta da Dylan, è spesso presente dietro a doppiare o duettare, dove la buona stella di Tom Petty illumina sovente la strada indicando la via per scrivere buone canzoni. E queste dieci canzoni, buone lo sono veramente: 'I Hear The Ocean' con quel connubio pianoforte hammond dal forte accento springsteeniano, mentre 'The Daylight Between Us' conclude il disco alla Mark Knopfler con una patina di ricordi e malinconia che vorresti togliere con un colpo di spugna ma poi ti accorgi che sta bene proprio lì dov'è. 

Canzoni che non entreranno nella storia, intanto 'The Dive Bar In My Heart' non fa troppa fatica  ad entrare nella testa. " Un posto dove vuoi andare ed essere lasciato solo. Non puoi sfuggire ai tuoi pensieri. Saranno sempre con te alla fine, e dovrai affrontarli, ma ci sono momenti della tua giornata in cui vuoi essere lasciato solo con loro e non avere la pressione di risolverli" dice Dylan a proposito di questa canzone. In questi giorni mi sono ritagliato frequentemente un momento della giornata per questo disco. Non è una cosa così scontata e da sottovalutare di questi tempi.






giovedì 8 luglio 2021

RECENSIONE: STÖNER (Stoners Rule)

STÖNER   Stoners Rule (Heavy Psych Sounds, 2021)



un buon compito, ora fuori le palle

Bene, non benissimo. Forse benino. Non di più. Fa un caldo tropicale in questi giorni, la copertina sembra promettere la brezza dei deserti del Mojave durante il calare del sole. Macché. Quella che si percepisce durante il Live In The Mojave Desert: Vol IV uscito qualche settimana fa e che fece da presentazione a questa nuova band  dal nome non proprio originale. 

Metto su il CD comprato sulla fiducia: 2/4 dei vecchi KYUSS vorranno pur dire qualcosa. Lo ascolto, con gli occhi che sbirciano un campo da calcio sfocato in TV. Fuori non vola una mosca, come da tradizione estiva quando ci sono partite di calcio, il basso di Nick Oliveri fa tremare le persiane aperte, la chitarra di Brant Bjork non si inventa nulla di troppo originale dentro a giri blues pesanti e circolari ('Own Yer Blues'), la sua voce ha poche sfumature come già la conosciamo, la batteria di Ryan Gut  accompagna ma non fa certo la differenza in un suono dalla produzione volutamente lo fi, monocorde e non esaltante. 

Solo 'Evel Never Dies' cantata da Oliveri che si getta a capofitto sul punk affondato sulla sabbia, una 'Stand Down' bella dinamica, psichedelica e carica di feedback (la track  migliore per me) e i tredici minuti della finale 'Tribe/Fly Girl' con la sua lunga coda jammata sembrano dare qualche scossa a un disco di fin troppo mestiere di un gruppo che sceglie di chiamarsi come il genere musicale suonato ma che in qualche modo hanno contribuito a inventare, trent'anni fa però. Infatti, quando 'The Older Kids', 'Nothin', e 'Rad Stays Rad'  partono ti aspetti l'entrata fumosa dei fuoriclasse che  non arriva quasi mai. 

Un disco carico di aspettative che manca però di quel dinamismo, quel tocco groove, dei riff e di fantasia che  solo un Josh Homme o un John Garcia dei vecchi tempi (ma anche di oggi) potevano regalare. 

Quest'anno Blues For The Red Sun compie esattamente 29 anni. L'ho ascoltato subito dopo. Voi non fatelo se volete godervi un po' questo disco.






giovedì 1 luglio 2021

RECENSIONE: GUY DAVIS (Be Ready When I Call You)

GUY DAVIS
  Be Ready When I Call You (M.C. Records, 2021) 



blues dentro
Guy Davis è uno dei migliori bluesman contemporanei e con questo album lo conferma in pieno: sa scrivere canzoni, sa raccontare storie, inserendosi nella tradizione ma rimanendo sempre al passo con i tempi nei suoi testi dove gli immigrati della zingaresca 'I've Looked Around' e i disoccupati del blues 'I Got A Job In The City' sono figli della stessa madre. E lui, invece, è un figlio d'arte che ha saputo mettere da parte, al sicuro, tutti gli insegnamenti dei genitori per crearsi una propria via tra recitazione e musica. E quando decide di salire sul palco con la chitarra ha pochi rivali. In queste tredici canzoni, tutte scritte di suo pugno, tranne 'Spoonful' di Willie Dixon naturalmente, unisce tutto partendo da lontano, dal "fatidico incontro" di Robert Johnson, riletto alla sua maniera in 'Be Ready When I Call You' fino ad arrivare ai giorni nostri con la finale 'Welcome To My World', legata agli ultimi anni politici del suo paese, in un pezzo dal cantato quasi hip hop, ma è veramente l'unica deviazione dal folk blues su cui ruota tutto l'album, in una continua e vincente alternanza che non stanca mai e conquista fin dal primo ascolto. Ci sono canzoni acustiche e canzoni a tutta band con l'Hammond di Professor Louie che fa una gran figura lì dietro. In mezzo tra la sbuffante locomotiva blues di 'Badonkadonk Train' che apre e i folk dylaniani di '200 Days' e di 'Got Your Letter In My Pocket', dove canta del triste massacro nel quartiere Greenwood a Tulsa avvenuto nel 1921, quando la comunità bianca attaccò la comunità afroamericana lasciando dietro di sé morti e feriti, ci mette l'acqua avvelenata che scorre tra gli abitanti di Flint, nel Michigan, nel ritmato e trascinante blues 'Flint River Blues' e il sempre attuale conflitto tra israeliani e palestinesi nel grido triste, antico e folkie di 'Palestine, Oh Palestine', sicuramente tra le più toccanti e significative. Nel retro copertina a confermare quanto sia radicato nel presente, nonostante tutto, impugna un cellulare, lo porta all'orecchio e ascolta se il diavolo che canta con voce da orco domiciliato a New Orleans in 'I Thought I Heard The Devil Call My Name' lo stia veramente chiamando. "Pronto alla chiamata" sembra la risposta. È già tra le mie uscite preferite di quest'anno: a volte basta avere radici profonde per fare bella figura in superficie. Davis possiede radici, canzoni, personalità e carisma.