lunedì 21 giugno 2021

RECENSIONE: LUKAS NELSON & PROMISE OF THE REAL (A Few Stars Apart)

LUKAS NELSON & PROMISE OF THE REAL
 A Few Stars Apart (Fantasy, 2021) 



guarda le stelle

Come tanti altri dischi che stanno uscendo in questi mesi, A Few Stars Apart lo troveremo tra qualche anno andando a cercare nei cassetti sotto l'etichetta "pandemia". Chissà se la scritta sarà sbiadita o ancora vivace? Un ricordo o qualcosa di perpetua attualità? Un disco pensato, nato e cresciuto durante lo stop forzato in casa e per Lukas Nelson era un po' come trovarsi in una gabbia, dorata ma pur sempre una prigione per uno nato praticamente "on the road" e che ha trascorso tutta la sua esistenza tra quattro ruote, l'asfalto, la polvere, le chitarre e i fili elettrici di un palco, prima insieme all'illustre padre quando era solo un ragazzino (allora aggiungiamoci pure i benefici della marijuana) ora con la sua band, senza dimenticare la parentesi ancora aperta con Neil Young. "Non riesco a ricordare l'ultima volta che abbiamo passato così tanto tempo insieme come famiglia" racconta nel suo sito. Già perché Willie Nelson, la moglie e i due figli Lukas e Micah hanno passato insieme quei mesi, superando anche la perdita di una cara amica di famiglia che ha ispirato la title track, una ballata al pianoforte (così come la splendida chiusura 'Smile') nata aspettando una buona stella che potesse invertire questi tempi bui. Un periodo che però è servito anche per riflettere in solitaria (è a tutti gli effetti più un album cantautorale che di squadra) e guardare al passato, rendendo omaggio alla famiglia e ai luoghi che lo hanno visto crescere: le isole Hawaii ma soprattutto il Texas. Registrato in analogico con Dave Cobb al RCA Studio A di Nashville, A Few Stars Apart è un disco che sembra accoglierti in un lungo e caloroso abbraccio: intimo e avvolgente. Fatto di ballate e pochissime scosse elettriche ('Wildest Dream' gioca nel campionato degli Heartbreakers di Tom Petty). Si apre con 'We' ll Be Alright' che ci ricorda, se qualcuno non lo avesse ancora capito chi è il padre di Lukas. La voce, il temperamento, l'andatura sono quelle. E tutto scivola tra una 'Leave'em Behind', western song condotta alla maniera di zio Neil, una 'No Reason', distesa e quasi caraibica e 'Perennial Bloom (Back To You)' che profuma di vecchia west coast anni settanta. Un disco di ballate, limpide e distese a cui manca forse qualche spigolo elettrico in più ma forse per osservare le stelle doveva andare tutto così. Lukas ha dovuto scegliere undici canzoni tra le circa quaranta scritte. E poi c'è quella copertina che sembra riprendere quella di Stardust, disco inciso dal padre nel 1978: un cielo infinito costruito sulle stesse stelle.






sabato 19 giugno 2021

RECENSIONE: RYAN ADAMS (Big Colors)

RYAN ADAMS - Big Colors (PAX AM Records, 2021)



gattini, sole e pioggia

"Farò uscire tre dischi in un anno", lo aveva promesso due anni fa quasi fosse una minaccia, prima che tutto iniziasse e lo travolgesse, e non sto parlando della fottuta pandemia. Accantonato (forse) lo scandalo che lo ha coinvolto (inutile ritornarci su viste le tante parole spese, buone e cattive) Ryan Adams si appresta a mantenere la parola e guardando al suo passato sappiamo che sarà proprio così: due dischi su tre sono già usciti in questi primi sei mesi del  2021. Il terzo arriverà a fine anno. 

La cosa bella per ora è che sono tutti e due ottimi, pure diversi tra loro, anche se il  velo di malinconia che li permea è lo stesso. Wednesdays era un campionario delle sue fragilità incollato su canzoni piene di sofferenza, acustiche e scarne, dai toni grigio scuro, Big Colors invece è un'esplosione di varietà, sia nei temi che musicalmente. "La colonna sonora di un film del 1984 che esiste solo nella mia anima", così l'ha presentato Adams. Il sole della California incontra la pioggia di New York, gli eighties musicali nel basso battente di 'Do Not Disturb' spettinati dal vento new wave, il rock'n'roll psychobilly in tinte dark della graffiante 'Power', una mosca fuor d'acqua che spezza e funziona lì in mezzo, il rock della pettyana 'Middle Of The Line' e di 'I Surrender' con il suo grido esistenziale, gli archi che accompagnano 'Showtime', l'omaggio a una città come Manchester che gli ha fatto conoscere tantissima musica, la componente acustica ancora ben  presente in 'What Am I?' e 'In It For The Pleasure'. Gli ospiti Benmont Tench e John Mayer in 'Fuck The Rain'. La chitarra di Bob Mould in 'Summer Rain'. 

Al mondo esistono quelli che di Ryan Adams si prendono tutto, pacchetto completo (pure l'introvabile Orion), quelli che lo hanno abbandonato dopo i primissimi dischi ("ah quel debutto ineguagliato!"), quelli che non lo sopportano da sempre ("un personaggio spocchioso!"), quelli che non lo hanno perdonato ("l'ha fatta troppo grossa questa volta!. Basta, l'uomo arriva prima dell'artista!"). Quelli che forse lo perdoneranno o l'hanno già fatto (" in fondo la legge non lo ha condannato! "). L'unica cosa certa è che Ryan Adams con questa doppietta ci dimostra che sta vivendo un momento di alta ispirazione. Perché non goderne? 

"Big Colors vuole essere come un sogno ad occhi aperti, un disco che mi è arrivato più di quanto io l'abbia voluto". E allora è bello entrare ancora in questo sogno in sua compagnia. A parte il prezzo del disco non costa nulla.








domenica 13 giugno 2021

RECENSIONE: CEK FRANCESCHETTI (Sarneghera Stomp)

CEK FRANCESCHETTI   Sarneghera Stomp (Slang Records, 2021)


incroci sul lago

Con un po' di immaginazione lo si può vedere il piccolo e curioso Andrea Franceschetti mentre in piedi davanti alle sponde del suo lago, sotto un cielo nero, tanti anni fa, attende l'arrivo della Sarneghera, nome dato alla forte tempesta proveniente da sud che si abbatte sul lago soprattutto nelle calde giornate estive, mentre da lontano una voce famigliare gli intima di rientrare presto in casa: potrebbe essere pericoloso. Siamo a Pisogne, l'ultimo dei paesi sul lago di Iseo salendo verso la bassa Valcamonica. Come la più violenta delle tempeste, il nuovo disco del bluesman bresciano irrompe in un momento che sa di rinascita, anche se dentro si porta dietro tutte le ansie, le paure, le perdite (il disco è dedicato al padre scomparso a inizio pandemia) e poi le speranze di un anno di lockdown che lo ha comunque  visto nascere. 

"All this world have been set on fire, I'm locked down in my room, I keep on punchin' my own hangin' bag I'm Spittin' out all my blood" canta nell'apertura 'Moanin' Rain'. 

Dieci canzoni pure e genuine, violente e distese come la caduta dei chicchi di grandine sull'acqua, registrate in soli quattro giorni negli studi di registrazione dell'amico Carlo Poddighe a Brescia e masterizzato da David Farrel a New Orleans (USA), usando solo chitarra resophonica, voce e stomp. Non serve altro al Cek per farci capire con quanta naturalezza sa maneggiare il verbo del blues. Chi lo conosce lo sa bene, tutti gli altri dovrebbero cercare la data più vicina per farsene un'idea e lui è uno che non si formalizza troppo, potreste trovarlo anche sopra al tetto della casa adiacente alla vostra appena aprite la finestra al canto del gallo nelle prime ore del mattino, a qualunque ora del giorno o meglio della notte. 


Non c'è il rischio di rimanere delusi ma di innamorarsene sì. Ma è un rischio che vale la pena di affrontare. Se togliamo le presenze "pesanti" di Andy J Forest (armonica in un paio di tracce), Luca Manenti (acustica in 'Maybe Tomorrow') e Roberto Luti, chitarra ospite in tre canzoni tra cui 'I Don’t Live Today' di Jimi Hendrix (una delle due cover presenti insieme a una sorprendente 'Maybe Tomorrow' degli Stereophonics che lo stesso Cek dice essere "un blues camuffato" già nella versione originale) qui dentro c'è la sua vera essenza primordiale. E come la Sarneghera, la cui nascita è avvolta nella leggenda di due innamorati morti sui fondali del lago d'Iseo, il Cek sa essere prima seducente ('Lady Lake'), poi minaccioso ('Chicks And Wine') e infine impetuoso nel gioco di squadra di 'Horny Dog'. Canta dei suoi affetti ('Home Lake Blues'), di un amico diavolo sempre dietro l'angolo ('Breakin' Deal') conclude il disco con una bellissima e sorprendente 'Nothin 'At All', acustica con voce fantasticamente impostata. 

Passata la bufera, ritorna la calma. Ma attenzione tutto si ripete ciclicamente e quando meno te lo aspetti. Un occhio al cielo, uno alle acque del lago…e uno ai tetti se potete.





lunedì 7 giugno 2021

RECENSIONE: BILLY GIBBONS (Hardware)

BILLY GIBBONS  Hardware (Concord REcords, 2021)



Un, dos, tres 

Dopo la sbornia cubana di Perfectamundo, l'omaggio al blues di The Big Bad Blues, il terzo album solista di BILLY  GIBBONS pare quello uscito meglio, sicuramente il più vario e divertente. C'è tutto il suo universo lungo più di cinquant'anni di onorata presenza lungo l'autostrada della musica. Modellato su blues polverosi in pieno ZZ Top style (lo shuffle di 'Shuffle, Stop & Slide' è esplicito all'inverosimile), possenti rock ('My Lucky Card' e 'S-G-L-M-B-B-R'), tuffi nei sixties in salsa surfer ('West Coast Junkie') che farebbero innamorare Quentin Tarantino, dove  auto lucidate a nuovo  e donne da amare e conquistare (il rock stonesiano 'She' s On Fire', 'More More More' con il suo riff in piena regola industrial anni novanta) viaggiano spesso  insieme come avviene nella zztopiana 'I Was The Highway' dove si consuma pure un delitto, mentre la lenta e riflessiva 'Vagabond Man' si carica sul portapacchi migliaia di chilometri on the road, consumati di città in città, di tour in tour. 

L' immagine dei deserti è predominante come ama ripetere nelle interviste: il disco è stato registrato a Palm Springs e nel misterioso spoken 'Desert High' compaiono pure i fantasmi di Gram Parsons e Jim Morrison, due le cui impronte nella sabbia paiono ancora visibili. Mentre nella straniante e psichedelica 'Spanish Fly' è inevitabile volare sulle ali delle sostanze stupefacenti. 

C'è la sua inconfondibile chitarra che sparge assoli, la voce roca e consumata, una band formata da Matt Sorum (batteria) e Austin Hanks (chitarre) ormai super oliata che partecipa attivamente alla stesura dei brani (a parte la cover della latineggiante 'Hey Baby, Que Paso') e le giovani amiche Larkin Poe che rendono più sbarazzino e leggero il tosto blues 'Stackin' Bones'. 

Potrebbe già essere il disco dell'estate con qualche settimana in anticipo. La temperatura è sicuramente quella giusta.







mercoledì 2 giugno 2021

RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE (You Hear Georgia)

BLACKBERRY SMOKE  You Hear Georgia (Thirty Tigers Records, 2021)


greetings from Georgia

Pur reggendosi sulla leadership del cantante e chitarrista Charlie Starr, chi ha visto almeno una volta dal vivo la band sa quanto il lavoro di squadra sia il loro vero punto di forza. I loro concerti non deludono. Questo nuovo album, registrato in soli dieci giorni e già pronto da circa un anno ("ci siamo chiesti se era il caso di farlo uscire senza presentarlo dal vivo" dice Starr, la risposta è ora nelle nostre orecchie) sembra enfatizzare la loro forza da live band, anche grazie al lavoro in produzione, alla vecchia maniera analogica, dell'esperto Dave Cobb dentro agli storici RCA Studios A di Nashville. Al passato guarda anche il disegno di copertina, una cartolina dalla loro Georgia, terra di grandi band (dai Black Crowes andando indietro) ma anche di ingombranti luoghi comuni che proprio la title track vuole sfatare e portare a galla. Dentro a queste dieci canzoni c'è tutto ciò che è necessario per confermare quanto Gregg Allman lasciò detto qualche anno fa prima di morire, predicendo un roseo futuro, una cosa tipo "riporteranno il southern rock sulla giusta strada" che suonava un po' come una benedizione o un battesimo dentro alle acque del fiume Chattahoochee. 

Una strada fatta di canzoni rock, solide, epiche e pesanti ('Morninside'), funky ('Live It Down'), tirate come 'All Rise Again' con la chitarra e la voce ospite di Warren Haynes, prima di una serie di pezzi che Haynes e Starr sembra abbiano scritto insieme. Ma anche di limpide e ariose camminate West Coast come 'Ain' t the Shame' anche se nel testo si narra dei problemi di un veterano di guerra, saltellanti funky colorati di nero che chiamano in causa i Little Feat ('Hey Delilah'), boogie da asfalto e polvere come 'All Over The Road' che ha  il primigenio tiro dei concittadini Black Crowes, poi la loro immancabile country side che esce prepotente nell'acustica pennellata old style di 'Old Enough To Know' che guarda a Willie Nelson e in  'Lonesome For a Livin' un lento walzer insieme a Jamey Johnson, un omaggio a George Jones, leggenda della country music, scomparso nel 2013. 'Old Scarecrow' chiude con le chitarre di Starr e Paul Jackson in bella evidenza in una canzone caratterizzata da continue esplosioni elettriche. 

Fa un po' sorridere leggere ancora in giro che i Blackberry Smoke siano considerati il futuro del southern rock vista l'ormai ventennale carriera, certamente rappresentano bene il presente di un genere che periodicamente, tra iella, disgrazie e grandi perdite, sa comunque come rigenerarsi. E nel genere, guardare al passato è fondamentale.