martedì 27 dicembre 2022

RECENSIONE: STEVE RUDIVELLI (Calypso Gin)

STEVE RUDIVELLI  Calypso Gin (2022)


un cocktail a mezzanotte

È stato un anno "strano" per me questo 2022. Pieno di persone e cose che hanno sostituito persone e cose. Un gioco di scambi che non ho ancora messo bene a fuoco. Sicuramente non noioso ma...c'è sempre un ma a rompere i coglioni.

Tanti chilometri come sempre, a piedi e in auto, perché ho imparato che nessuno ti viene incontro. Devi sempre muovere il culo e l'importante è non venderlo mai.

E combinazione l'anno si chiude con questo "piccolo" disco di Steve Rudivelli. Combinazione perché Steve, "il cowboy" della Brianza è un personaggio difficile da mettere a fuoco un po' come il mio 2022. Perché per incontrarlo devi andargli tu incontro nel suo Texas brianzolo. L'ho fatto una volta ma ritornerò. Lo prometto e non è una minaccia. Sicuramente un piacere.

Quando scrivo "piccolo", invece,  è perché Steve si fa bastare ancora l'antica magia artigianale: non rompe le palle a nessuno e registra i suoi dischi con la passione di sempre. Calypso Gin è il fratello del precedente Gasoline Beauty (2021) che a sua volte era fratello del precedente Metropolitan Chewingum (2020). "Un disco alcolico" mi ha scritto Steve. Non avevo dubbi.

Tante canzoni me le ha mandate in anteprima in questi mesi e per questo lo ringrazio pubblicamente.

Io aggiungo un disco dai tratti malinconici che fa battaglia con la spiaggia di copertina. E quando il mare c'è, è quello più triste e malinconico dell'inverno. 


Un disco folk di armonica e chitarre acustiche, ad aiutare le ficcanti incursioni delle chitarre elettriche di Andy D ('Tabacco Kentucky'), che mi ha riportato in mente quelle serate invernali di provincia, proprio come quella di oggi mentre scrivo, avvolte nella nebbia trafitta dalla luce gialla proveniente dalla vetrina di un bar tabacchi (in un paese "c'e sempre un bar tabacchi" canta) aperto fino a tarda sera: c'è chi gioca a carte, chi ancora a scacchi. Chi ordina due Negroni, chi compra tabacco, ci sono bicchieri vuoti e mezzi pieni, c'è chi indossa stivali "made in Mexico" e chi un pullover. Non fatevi illusioni "esotiche": siamo a Oreno city, frazione di Vimercate. Ogni mondo è paese. E il paese è bello, tranquillo e puoi tenere in mano un bicchiere con più scioltezza.

Le atmosfere da Sergio Leone di 'Caterina Malibu', quelle esotiche di 'Bikini Pub', quelle da frontiera americana alla Tom Russell di 'Mexico Boots', le atmosfere da Nashville Skyline dylaniano che si fondono con i cantautori milanesi in 'Timo It'. Jannacci meets Dylan.

Il disco si conclude con una serenata d'amore chitarra e armonica ('Serenade Of Love') che non può che essere di buon auspicio a tutti per un sereno 2023. "...la luna è sempre stanca, la luna è sempre lì da lunedi" canta Steve. Guardo fuori dalla finestra per cercare 'sta luna: c'è solo nebbia stasera, che fregatura la vita, ma è bello ugualmente.



RECENSIONE: STEVE RUDIVELLI - Metropolitan Chewingum (2020)

domenica 25 dicembre 2022

RECENSIONE: MICAH P. HINSON (I Lie To You)

MICAH P.HINSON  I Lie To You (Ponderosa Records, 2022)


punto e a capo

Così, a conferma di quanto le classifiche di fine anno contino veramente poco se fatte già a Novembre, il nuovo disco di Micah P Hinson esce a Dicembre e pretende tutte le attenzioni possibili. Uno, perché l'autore titorna a incidere dopo una pausa di quattro anni; due, perché c'è molta Italia dentro (anche se fare i patrioti non è mai bello, figuriamoci di 'sti tempi con i politici che girano in giaccia mimetica); tre, perché è un disco da groppo in gola che rischia di mandare di traverso il gran cenone di Natale e dare un cazzotto ben calibrato a tutto il finto perbenismo di questi giorni di festa. Dopo il sei Gennaio si torna alla "finta normalità" tanto vale non perdersi in illusioni e rimanere a combattere nella dura normalità.

A proposito, da oggi in avanti 'Please Daddy, Don't Get Drunk This Christmas', la canzone natalizia anomala di John Denver avrà la sua versione firmata da Micah P. HInson.

Nato e finito nel giro di una settimana in Irpinia, questa estate quando il cantautore è stato ospite di Vinicio Capossela allo Sponz festival, Lie To You, che esce per la Ponderosa Records, è un disco confessionale pieno di passato ma anche di visioni proiettate nel presente, con la voce profonda che scava nella vita  riportando a galla attimi, rimpianti, sensazioni, fallimenti e tutti quei demoni che hanno accompagnato la sua vita, dall'adolescenza in avanti. Una voce che pressa sulla musica tirata all'osso e preparata con dovizia da Asso Stefana che oltre a metterci la sua "benedetta" chitarra, produce il tutto e chiama a raccolta musicisti come Raffaele Tisero (la sua viola d'amore è un punto cardine su tutto il disco), Zeno De Rossi (batteria), Greg Cohen (contrabbasso).

Arrangiamenti d'archi che tessono trama e ordito di melodie da cui scaturiscono candide  lenzuola, leggere e svolazzanti su cui si adagiano grevi le parole di Hinson. 

Alla cupa, ipnotica e struggente 'What Does It Matter Now', uno dei momenti più intensi di questa mezz'ora di canzoni si contrappone il banjo della folkish 'Wasted Days And Wasted Nights'.

Agli scatti elettrici di 'Find Way Out' risponde 'People', opera di David Bazan che Hinson fa sua apportando alcune modifiche.

E se nel lento valzer di 'Carelessly' trova solo ora il coraggio di esplorare una triste parentesi del suo passato (l'aborto di una sua ex ragazza), "essendo giovani umani, abbiamo preso misure che, all'epoca, capivamo poco: ha abortito. Solo nella forma di una canzone sono stato davvero in grado di esprimere le mie emozioni e i miei pensieri sull'argomento" ha raccontato recentemente, in  '500 Miles' sembra calarsi nelle American Recordings di Johnny Cash, con l'unica differenza che Cash all'epoca ultra sessantenne entrava nell'ultima fase della sua vita mentre Micah P Hinson di anni ne ha solo quarantuno e prima dei vent'anni pare abbia già vissuto quattro vite.

Un disco che chiude la parentesi dei suoi primi quarant'anni come annuncia in 'Ignore The Days', l'unica veramente proiettata nel suo nuovo futuro.

"Come puoi progredire come essere umano nel futuro se tutto ciò che stai facendo è scrivere di tutta la merda che ti incatena al passato?". Una dichiarazione che sa di nuova rinascita.

(Rimane il mistero del perché  una canzone come 'You And Me', voce e pianoforte sia reperibile solo in versione digitale).






sabato 17 dicembre 2022

RECENSIONE: CORY BRANAN (When I Go I Ghost)


CORY BRANAN   When I Go I Ghost (Blue Elan Records, 2022)



Mi è sempre piaciuto Cory Branan, uno dei migliori cantautori americani di quella generazione di quasi cinquantenni che seguendo le orme dei grandi songwriter a stelle e strisce è riuscita creare una piccola scena. Branan non è certamente tra i più prolifici: questo è solo il suo sesto album e esce a cinque anni dal precedente Adios, che non era un addio ma un arrivederci a data da destinarsi. Ci siamo.

Nativo della terra del Misssissippi, figlio di un batterista, inizio carriera in una metal band e folgorazione cantautorale ascoltando John Prine da cui eredita quel modo di scrivere disincantato, la cinica lettura della vita con in primo piano i sentimenti compresi cuori spezzati, malesseri e storie intriganti, tanto che i Lucero lo citarono in una loro vecchia canzone 'Tears don't Matter Much' contenuta in That Much Further West(2003).

Per questo disco ha scelto undici canzoni dalle cinquanta che aveva a disposizione, lascito del tanto tempo creato dalla pandemia.

"Brani che parlano di dubbi esistenziali, della perdita di persone care, di depressione e di ansia generalizzata" dice. Per farlo mette in campo tutto il suo estro musicale che tocca sempre con disinvoltura il rock dalle influenze springsteeniane come avviene nell'apertura 'When in Rome, When in Memphis' che ospita  Jason Isbell e Brian Fallon. Per chi ama Springsteen consiglio però l'album Mutt uscito nel 2012, forse il suo migliore. Su di giri anche la tesa 'When I Leave Here'  e una 'One Happy New Year' che gravita invece dalle parti di John Mellencamp. 

Mentre in 'O Charlene' escono tutte le influenze ereditate da John Prine, 'Angels in the Details' e 'That Look I Lost' si muovono sinuose nel soul. A conferma della sua grande bontà di scrittura che ama spaziare nei generi, a una ballata notturna e malinconica come 'Pocket Of God', certamente tra le più riuscite del disco, contrappone due pezzi dal retrogusto pop come 'Waterfront', cantata insieme alla cantautrice Garrison Starr e 'Come on If You Wanna Come'.

Branan si conferma un cantautore randagio e poco omologato, libero di muoversi nello scacchiere musicale americano senza troppi obblighi di tempo e generi.




venerdì 9 dicembre 2022

VOIVOD live@Bloom, Mezzago, 6 Dicembre 2022

 

"Siete leggenda", grida uno dietro di me a fine concerto quando i canadesi a centro palco distribuiscono strette di mano e ringraziamenti a un pubblico caloroso. Sono realmente commossi per l'accoglienza e per come è andata la serata. Lo si capisce dalle loro facce.

Perché i Voivod non frequentino i grandi palazzetti del rock rimane uno dei tanti misteri della musica pesante (e non). Ci sarebbero tante risposte per capire questo mistero ma guardandoli questa sera sul palco, divertirsi come dei ragazzini alle prime armi si capisce tutto, anche che a loro, pur con una carriera lunga quarant'anni piena di attestati di stima da parte di critica e pubblico, interessa solo stare lì davanti  e suonare. La storia e i loro dischi parlano per loro. Non  c'è bisogno d'altro.

E allora mi capita di osservare spesso Michel "Away" Langevin dietro alla sua batteria essenziale e pratica, sorridere in continuazione mentre suona, si diverte ancora una cifra, potrebbe tirarsela come la più celebre delle rockstar e invece puoi incontrarlo dentro ai cessi del Bloom, timido, pacato e riservato. Denis  "Snake" Belanger potrebbe invece essere il compagno di bevute ideale, il mattacchione della compagnia, con la battuta sempre pronta, le mosse da scemo e le smorfie pure, Daniel "Chewy" Mongrain (chitarra) e Dominique "Rocky" Laroche (basso) sono gli uomini affidabili su  cui puoi contare sempre, rispettosi dei ruoli che stanno coprendo e di chi è venuto prima di loro. Denis Piggy D'Amour è stato ricordato, come sempre.


I Voivod hanno sempre avuto uno strano destino, quasi maledetto, che però è sempre stato combattuto, avendone in cambio l'assoluta certezza di essere uno dei gruppi più inimitabili della scena rock. I Voivod hanno avuto il merito artistico di elevare il metal, portarlo in un altra dimensione, a volte troppo avanti ed "intelligenti"per essere capiti ma alla fine dei conti irrangiungibili ed inimitabili.

Hanno elevato il metal, l'hanno complicato così tanto che l'unico modo per presentarlo al pubblico è quello di svestirlo di certi luoghi comuni, di abbandonare certe pose da duri e puri e giocare tutto sulla spontaneità, la generosità e l'umiltà. Ai loro concerti ci si diverte. E poco importa se suonano la vecchissima e tirata Voivod, le nuove canzoni del loro ultimo album Synchro Anarchy (tra i dischi dell'anno come ogni anno che esce un loro disco) o quelle di album epocali come Nothingface, Dimension Atross, Angel Rat o Outer Limits, la loro carriera è sempre stata livellata sull'eccellenza. Non hanno scheletri da nascondere.

Ma poi, chi altri si è impossessato di una canzone dei Pink Floyd ( Astronomy Domine) così bene da farla propria?

Setlist

Experiment

The Unknown Knows

Tribal Convictions

Synchro Anarchy

Iconspiracy

The Prow

Holographic Thinking

Overreaction

Pre-Ignition

Sleeves Off

Astronomy Domine 

Voivod

Fix My Heart




sabato 3 dicembre 2022

RECENSIONE: TOM PETTY And The HEARTBREAKERS - Live At Fillmore 1997

TOM PETTY And The HEARTBREAKERS  Live At Fillmore 1997 (Warner Records, 2022)



il concerto infinito...

Abbiamo assistito a tanti concerti nella nostra vita, così tanti da riuscire ad acquisire quella capacità che ti fa capire quando gli artisti e le band sopra al palco si divertono o stanno solamente suonando per contratto, per portare a casa l'agognata pagnotta: tanto domani siamo in un'altra città. "Un'altra città, un altro posto, un'altra ragazza, un'altra faccia" ringhiava Lemmy. "Caffè al mattino, cocaina al pomeriggio" gli fa eco Jackson Browne. È la routine che serpeggia, in qualche modo deve essere spezzata e alleviata. 


Sbirciare le scalette da già un'idea: se è sempre la stessa, sera dopo sera, la noia può far visita. Figuriamoci se la città è sempre la stessa, il palco anche e l'hotel dove si alloggia, il Miyako Hotel, pure. 

Al Fillmore di San Francisco in quelle venti date consecutive sold out comprese tra il 10 Gennaio e il 7 Febbraio del 1997 non c'era nessuno di noi (se sì fatevi avanti e raccontate per dio!) ma il divertimento è palese, si sente, ti entra sotto pelle anche solo ascoltando le canzoni senza vedere gli sguardi complici dei musicisti. E la scalette furono messe giù sul momento (per un totale di 85 canzoni eseguite), sera dopo sera, (per la felicità dell'ultimo entrato in formazione, il batterista Steve Ferrone), così piene di tanti devoti  omaggi alla musica (da Bob Dylan ai Kinks, da J.J.Cale agli Everly Brothers, da Bill Withers a Chuck Berry, dagli Stones a Booker T. & the M.G.’s), una narrazione avvincente ed esaltante di tutte le corde che può solleticare, toccare e stringere forte il rock’n’roll.

Gli Heartbreakers uniscono i puntini che separano John Lee Hooker dai Byrds ( ospiti sul palco il bluesman e Roger McGuinn) compreso tutto quello che sta in mezzo (peccato non vi sia la testimonianza dell'altro ospite Carl Perkins), agli Heartbreakers, invece, il compito di proseguire a tratteggiare la strada futura, almeno fino a quando hanno potuto, fino alla prematura morte di Petty.

Ed è stato già tanto. Ma tanto è anche quello che potevano ancora dare. 

Un gioco di squadra che non ha boss (anche nei dischi "solisti" di Petty gli Heartbreakers in qualche modo c'erano sempre). E quella solida unione la si percepisce guardando e ascoltando quella American Girl così straziante che sta girando in rete in questi giorni, eseguita da Benmont Tench e Mike Campbell, solo piano e chitarra. Tom dove sei?

E tutto sembra riportare a quel club a Gainesville in Florida quando Tom, Mike e Benmont nel 1970 erano la resident band di un locale. Iniziò tutto lì. Questa è la chiusura del cerchio o forse meglio ancora la continuità con in più l'esperienza.

Paragoni e assolutismi li lascio volentieri ad altri, perché ho hai ascoltato tutti i live della storia o si finisce per tirare in ballo i soliti cinque titoli. (A proposito: ma perché nessuno cita mai live di band hard rock e heavy?).

L'importante è che queste date abbiano smesso di circolare nel sottobosco dei fan sottoforma di bootleg ma abbiano incominciato a volare sopra alle teste di tutti, encomiabile esempio di cosa voglia dire suonare sopra a un palco. Palestra, manifesto, enciclopedia per chiunque si avvicini al rock'n'roll.

"Ho pensato che il Fillmore sarebbe stato il posto migliore per farlo, perché il pubblico qui è molto più indulgente nel permetterti di sperimentare. E si è rivelato vero. Sono semplicemente venuti con noi, al punto che ci siamo sentiti molto a nostro agio in quel lungo periodo. Penso che il lungo termine sia stata una grande idea, perché non stavamo promuovendo nulla e non avevamo motivo di farlo, a parte il fatto che volevamo farlo" disse in una vecchia intervista Petty.

E poi c'è una cosa che Tom Petty, suo malgrado mi ha insegnato: ogni lasciata è persa. Me lo persi stupidamente a Lucca nel 2012. E il finale è stato quello che è stato.

Di questo disco avevo ordinato la versione con due CD. Qualcosa mi diceva che me ne sarei pentito, nuovamente: l'ho subito cambiata con il cofanetto da quattro dischi. Al diavolo anche il vile denaro. Ogni lasciata è persa e questo è veramente imperdibile.






domenica 27 novembre 2022

CLUTCH live@Fabrique, Milano, 26 Novembre 2022



Sono arrivato a casa prima di mezzanotte da un concerto milanese con un'ora e venti minuti di strada che mi separavano da casa. Ecco uno dei motivi per cui questo concerto verrà certamente ricordato. Saliti sul palco alle 20 e 40, scesi alle 22 e 10 e due band di supporto prima (i rimarchevoli londinesi Greenlung) che hanno praticamente suonato in orario di aperitivo, ma quello che dopo ne fai subito un altro perché è troppo presto per andare a cena. Queste sono le notti milanesi. E a una certa età va benissimo così anche se trattati da bambini a cui dopocena viene concesso un bel cartone animato prima di andare a nanna.

Poi ci sono i motivi musicali ma su quelli non avevo dubbi: i Clutch sono una macchina schiacciasassi, pachidermica, che lavora ininterrottamente da trent'anni con la stessa formazione guidata da Neil Fallon, un predicatore folle che celebra i suoi sermoni con voce profonda (a volte pare Screamin' Jay Hawkins) e gesti da vero ipnotizzatore e arringa folle. Difficile scampare al suo indice quando ti punta. Indemoniato canta da dio e non sbaglia un colpo. Niente trucchi e niente inganni però, uniche concessioni extra un campanaccio, una fisarmonica e il theremin usato per 'Skeletons On Mars'. Questa sera ho scoperto pure che beve molto e che dopo quasi ogni canzone cambia chewingum. Starà dentro a quel vasetto di gomme il suo segreto? 


Intorno a lui come due solidi pilastri, fermi e inamovibili, il bassista Dan Maines che sfoggia una t shirt dei Bad Brains e Tim Sult impassibile e perennemente chino sulla chitarra a macinare riff e assoli. Dietro la batteria di Jean-Paul Gaster.

In questo tour europeo la band del Maryland presenta il nuovo album  Sunrise On Slaughter Beach uscito quest'anno.

Che i Clutch non abbiano mai seguito mode durante la loro carriera lo dimostra la scaletta (sempre diversa ogni sera!), un su e giù dove stoner, hard rock, funk, psichedelia e pesante blues si alternano nel nome di un comune denominatore chiamato groove: ecco così 'Burning Beard', le sempre coinvolgenti '50.000 Unstoppable Watts' e 'Earth Rocker', una lontanissima 'Rats', datata 1993 vicina alle nuove 'Slaughter Beach' e 'Nosferatu Madre'. 

Il crossover dei novanta non è mai stato così vicino al blues come succede durante 'D.C Sound Attack!' e 'Electric Worry' proposte nel torrido finale.

Eclettici e credibili come pochi in un mondo dove l'apparire la fa da padone, con la loro semplice basicità emergono come dei giganti e il buon Fallon, impettito e carismatico, dall'alto della sua bassa statura un gigante lo è a tutti gli effetti. 

SETLIST:

Slaughter Beach

Burning Beard

Struck Down

Rats

Sucker for the Witch

H.B. Is in Control

Nosferatu Madre

Walking in the Great Shining Path of Monster Trucks

50,000 Unstoppable Watts

In Walks Barbarella

Skeletons on Mars

Green Buckets

Earth Rocker

The Elephant Riders

Abraham Lincoln

A Shogun Named Marcus

Ghoul Wrangler

D.C. Sound Attack!

Electric Worry

Impetus




sabato 26 novembre 2022

RECENSIONE: LEE FIELDS (Sentimental Fool)

LEE FIELDS  Sentimental Fool (Daptone Records, 2022)


dammi il tuo soul

Porca miseria ragazzi: "I'm falling in love". Again. Se la musica non serve a questo a cosa serve? Vieni sempre ricambiato. Sto ascoltando questo disco a ripetizione. Al mattino quando è ancora buio mentre faccio colazione con tutta la giornata davanti, alla sera quando la giornata ha lasciato pochi segni dietro di sé. Le corte giornate autunnali sono un po' così, le ore scorrono ed è già nuovamente buio. Nell'oscurità questo disco gira alla grande.


LEE FIELDS, 72 anni,  mastica soul come fosse chewing gum zuccherato. Con quella facilità disarmante che solo chi non soffre di diabete può permettersi. Così si nasce, non lo diventi mica strada facendo. Eppure di strada ne ha macinata anche lui dal  lontano 1967, dal suo traferimento a New York proveniente dal North Carolina, giovanissimo e con tanti sogni nel cassetto e James Brown nel cuore, dal primo singolo uscito nel 1969 a una carriera lunga con alti e qualche inevitabile sbandata disco music in tempo reale (che poi anche quella è un'arte nobile) di cui però sembra non pentirsi assolutamente ("gli anni '80 mi hanno dato una prospettiva più ampia su ciò che potevo fare") tanto che quel chewing gum, ora che è rimasto ancora uno dei pochi, è diventato quasi poltiglia ma di quelle che mantengono ancora bene intatto il sapore. Una marca buona insomma. Il "piccolo James Brown", soprannome che si guadagnò quando era ancora giovanissimo ora sembra più che mai appartenergli di diritto. 

Passati a riposo gli anni ottanta, si dedicò alla lettura della Bibbia, così dice, ritornò agguerrito nei novanta. In questi ultimi anni  prolifici si è ripreso il posto che si merita di diritto o almeno per raggiunta anzianità. Anche se non dimostra la sua età.

E in giorni nei quali il soul sembra tornato sulle prime pagine portato dal battage pubblicitario, a volte insensato e diciamolo...pure esagerato, di una rockstar più che benestante, il regalo più bello sarebbe tributare il giusto omaggio anche questo ultimo vero eroe del genere che se ne esce con SENTIMENTAL FOOL, un disco di inediti per la Daptone Records di Gabriel Roth che fa suonare il soul con la giusta solennità e con ben poca pomposità. 

Canzoni senza tempo che legano in maniera indissolubile gospel (è da lì che arriva) e soul. Con qualche bella incursione r&b, jazz e funk.

A tal proposito Lee Fields ha una sua idea:"la musica soul per me viene dallo spirito. C'è una linea molto sottile tra gospel e soul. Il Vangelo parla delle meraviglie, della gloria e delle storie della Bibbia. La musica soul, con lo stesso sentimento, canta ciò che sta accadendo nelle nostre vite oggi, qui, su questo pianeta".

Malinconia, relazioni, amore anche non corrisposto, e emozioni sono le sue linee guida. E canzoni come

'Forever', 'Sentimental Fool', 'Save Your Tears For Someone New' e 'Whithout A Heart' mettono in mostra quella rara capacità di usare la voce come il più complesso degli  strumenti in mezzo a pianoforti, organi  vibrafoni e fiati.

E poi questa copertina stupenda (a mio parere), un'immagine così seventies da farmi ricordare la foto di An Anthology di Duane Allman che proprio il 20 Novembre 1946 nasceva. Intanto fuori è già buio.





sabato 19 novembre 2022

RECENSIONE: NEIL YOUNG With CRAZY HORSE (World Record)

NEIL YOUNG With CRAZY HORSE  World Record (Reprise REcords, 2022)



no more war, only love

C'è una frase estrapolata dal libro Special Deluxe con la quale Neil Young ritrae se stesso meglio di chiunque abbia cercato di farlo al suo posto. E potrebbe pure andare bene per liquidare ogni nuovo album del nostro. Leggi e avrai Neil Young sotto la lente di ingrandimento.

Dice:"a volte divento talmente ossessionato da una nuova idea che finisco per perdere la prospettiva e inizio a sognare davvero in grande. Ovviamente io sono sempre stato un passionale, il che nella mia vita è stato un bene e un male e ha portato ad alterni risultati". Ora tocca a noi. Dove si pone questo nuovo World Record? Di certo c'è la passione. Di certo non è un male ma nemmeno un gran bene. Alterno sì.

Trovare parole nuove per descrivere un nuovo disco di Neil Young è quindi diventata impresa sempre più difficile. In qualche modo abbiamo già detto tutto e sentito anche. Qualche maligno suggerisce: c'è sempre il "copia e incolla", lo usa lui nelle canzoni, perché non noi?

Lui come al solito anche quest'anno ci ha dato dentro: mettendo da parte gli archivi e i prossimi festeggiamenti per i cinquanta di  Harvest, dopo il live Noise And Flowers che testimoniata la collaborazione con i Promise Of The Real di Lukas Nelson , dopo Toast, il disco dimenticato dei primi anni duemila ecco a sorpresa, a un anno esatto dall'uscita di Barn questo ennesimo grido ecologista urlato alla veneranda età di 77 anni  a più di cinquant'anni da quando ci avvertiva di "madre terra in fuga". Un po': io vi avevo avvertito. Ve lo ripeto ancora una volta. E non credo sia demenza senile. 

Perché sì, ammettiamolo: a questa generazione di musicisti vogliamo un gran bene. Tanti ci hanno già lasciato, coccolamioci quelli rimasti. Tanto, mettiamoci il cuore in pace: in pensione non andranno mai e chi è andato dopo poco è tornato per troppa nostalgia. Ah ok, Poncho Sampedro ci saluta da una spiaggia con la chitarra appesa in soggiorno e anche questa volta nei Crazy Horse c'è Nils Lofgren, musicista dal grande talento spesso sacrificato all'ombra dei boss. Con lui gli altri cavalli pazzi quasi ottentenni Ralph Molina e Billy Talbot questa volta non si sono chiusi in un fienile ma ai Shangri-La  di Malibu di Rick Rubin. Il risultato? Lo stesso degli ultimi Colorado e Barn ma con piùvarietà. Rick  Rubin ha messo poco il becco: si sarà accarezzato la lunga barba bianca e avrà pensato "cosa posso insegnare a questi qui, io?".





Undici canzoni registrate in analogico, senza sovrastrutture che mantengono intatte purezza e immediatezza con il messaggio davanti a tutto. Messaggi che spesso arrivano con tono nostalgico rivolto a quello che avevamo, abbiamo ancora e forse non avremo più continuando di questo passo, anche se poi a prevalere è un velato ottimismo. Ah, anche lo scatto di copertina che ritrae suo padre Scott nel pieno del suo vigore sembra raccontarci tutto questo.

Insomma, il rispetto prima di tutto come predica in 'This Old Planet (Changing Days)', ballata pianoforte e fisarmonica. "Non sei solo in questo pianeta', il monito.

In 'Love Earth' che apre il disco canta: "abbiamo vissuto vicino al sole e abbiamo tutto, stavamo vivendo in un sogno, ama la Terra".È una ballata ciondolante che subito lascia spazio al corale blues 'Overhead', guidato dal pianoforte e a  'I Walk With You (Earth Ringtone)' primo vero incontro con le chitarre che diventano d'assalto nel rumoroso blues ' Break The Chain' (nel video, qualcuno alla fine dice: "anche la console sta fumando") e protagoniste assolute nei quindici minuti del "nostalgico" amore per il passato e le auto d'epoca 'Chevrolet', soprattutto antico saggio su cosa voglia dire suonare con i Crazy Horse ancora oggi. Potrebbe uscire da Re Ac Tor o da Ragged Glory, quando la band si lascia andare è questa qui. Ennesimo fumante manifesto da attaccare alla parete finché sta su.

Di contro, a testimoniare quanto World Record sia un disco disordinato e stropicciato musicalmente ecco tre ballate con l'organo a pompa protagonista: 'The Long Day Before', la sbilenca 'The Wonder Won't Wait' e il country di 'Walkin’ On The Road (To The Future)' dove a farla da padrone è un messaggio ripetuto, tanto semplice e ingenuo quanto istantaneo per raccontarci il vecchio Neil. Dice: "no more war only love". 

E cosa vuoi dirgli? Hai ragione!





venerdì 18 novembre 2022

RECENSIONE: ENUFF Z'NUFF (Finer Than Sin)

ENUFF Z'NUFF  Finer Than Sin (Frontiers Records, 2022)



in Beatles we trust

Ascoltare un nuovo album della band di Chicago guidata da Chip Z'Nuff è sempre piacevole, anche se della formazione originale è rimasto ben poco. Dopo quarant' anni dalla loro nascita e trentatre dal debutto continuano a far uscire dischi (il diciottesimo!) comunque piacevoli e devoti a quel glam rock intriso di  power pop e psichedelia che li fece risaltare ai tempi d'oro. La loro tripletta di inizio carriera (Enuff Z'Nuff del 1989, Strenght del 1991 e Animals With Human Intelligence del 1993) rimane ineguagliabile per freschezza ma bisogna dare atto che pur con tutte le sfortune e i cambiamenti in corsa, gli Enuff Z'Nuff hanno continuato la loro carriera con coerenza, costanza e senza cadute di tono.

Non fa eccezione questa nuova manciata di canzoni. Sembra che Chip entrato in studio abbia detto ai suoi ragazzi (i chitarristi Tory Stoffregen e Tony Fennell e il batterista  Benjamin Hill): "non impazziamo con le sovraincisioni'. Quello che è uscito sono quaranta minuti di piacevole e scorrevole rock’n’roll, che ha nell'iniziale e strumentsle 'Sound Check', la canzone  che serve da preparazione a quel che seguirà dopo, proprio come fosse un set live. (A proposito: ma il tour italiano di fine Ottobre che fine ha fatto?)

Ossia il mai nascosto amore per le melodie beatlesiane in tutte le sue forme (l'ultimo disco Hardrock Nite era proprio un tributo ai quattro di Liverpool) che escono prepotenti in 'Catastrophe' nella viziosa 'Steal The Light', nell'hard rock'n'roll veloce e scattante 'Lost And Out Of Control', nella sognante 'Intoxicated', nel quadrato hard rock 'Trampoline', raggiungendo l'apice nei sei minuti con arrangiamenti orchestrali di 'Hurricane', canzone che pare raccolta, fresca fresca da quel "campo di fragole" colorato degli anni sessanta.

Rimane il tempo per una super abusata cover di 'God Save The Queen' che Chip spiega così:  "i Sex Pistols sono stati una delle nostre grandi influenze, quindi è bello poter finalmente chiudere quel capitolo e mettere "God Save the Queen" su uno dei miei dischi" e il finale di disco 'Reprise' che riprende l'iniziale 'Sound Check', praticamente un minuto e mezzo di assoli di chitarra.

Gli Enuff Z'nuff ancora oggi possono vantarsi di essere stati uno dei gruppi più originali, personali, coraggiosi e allo stesso tempo sfortunati di una scena che oggi più che mai sembra vivere di ricordi e passato. Loro, tra alterne fortune, sono ancora qui a buttare fuori dischi originali e girare il mondo con il loro consueto mix di colori, pace, amore, pop e rock'n'roll.





venerdì 11 novembre 2022

RECENSIONE: THE PROCLAIMERS (Dentures Out)

THE PROCLAIMERS   Dentures Out (Cooking Vinyl, 2022)

guardare avanti

Alzi la mano chi di voi segue ancora le vicende dei gemelli Craig e Charlie  Reid? Vedo poche mani. Sarò mica rimasto l'unico che continua a seguire le vicissitudini musicali di questi scozzesi che non le hanno mai mandate a dire (da sempre in lotta per l'indipendenza scozzese), con il loro accento infondondibile, usando un linguaggio musicale dove pop, folk, vecchio skiffle e rock'n'roll la fanno da padrone?

Dentures Out è il loro dodicesimo disco e se i fasti degli esordi segnati da album come This Is The Story (1987) e Sunshine On Leith (1988) sembrano ormai un lontano ricordo almeno fuori dalla Scozia, dove invece rimangono personaggi da prima pagina e serata, l'ironia, il sarcasmo e l'impegno rimangono quelli di sempre. Non fa eccezione Dentures Out, anzi qui alzano notevolmente l'asticella, registrato nei mitici Rockfield Studios in Galles nella primavera del 2022 ma uscito , invece, in un momento di profondi cambiamenti per il Regno Unito: la morte della Regina, il recentissimo avvicendamento al governo.

"Il tema dell'album sono le persone che sognano un'Inghilterra che se n'è andata o forse non è mai esistita". Così spiegano il tema portante che lega nel bene e nel male tutte le canzoni.

Nella title track che apre il disco e che vede la partecipazione di James Dean Bradfield dei Manic Street Preachers alla chitarra sembra tutto molto chiaro:"la Gran Bretagna è vecchia e piuttosto magra, l'ho vista con la dentiera fuori, se l'è messa, poi ha borbottato qualcosa di indistinto che potrebbe essere stato, 'Nostalgia ti amo'.” 

Ancora di più nel rock spigoloso di 'The World That Was', esplicita fin dal titolo: non cerchiamo i fasti del passato, guardiamo avanti sembra il monito.

Tra scatti di rock’n’roll ('Praise'), ballate con pianoforte e  arrangiamenti d'archi ('Feast Your Eyes', 'Things As They Are' che si scaglia contro la stampa corrotta), country a ritmo di valzer ('Play The Man'), il paragone tra le domeniche proibizioniste del puritanesimo calvinista e il lockdown imposto dalla pandemia ('Sundays By John Calvin') e qualche quadretto di positiva speranza ('Signs Of Love') i soli 35 minuti di durata, nonostante il peso dei temi trattati, scorrono via come un fresco bicchiere d'acqua. Naturalmente non quello in copertina, lì riposa la vecchia, malconcia e nostalgica Inghilterra.




mercoledì 2 novembre 2022

PM WARSON live@Blah Blah, Torino, 1 Novembre 2022

Ne ero certo: solo la musica poteva raddrizzare una giornata di festa grigia, oziosa, fredda il giusto e sostanzialmente inutile. Le strade d'asfalto questa sera sono deserte, la nebbia ha coperto tutto quello che poteva avvolgere ai lati per cercare di far apparire i contorni il più possibile uguali a quelli britannici. Mentre la Mole illuminata si staglia tra la nebbia e i portici di via Po quasi deserti, quando entro al Blah Blah, piccolo e intimo, percepisco già dall'atmosfera, dai 45 giri old school messi dal dj, che sarà una serata calda, avvolgente, intima, per me e per tutti quelli che hanno volutamente barattato ciabatte e divano per un paio di comode scarpe che li ha portati fino a qui. Manca solo il fumo delle sigarette come una volta ma di quello se ne fa volentieri a meno. 
PM Warson è un giovane londinese armato di Fender, aspetto da universitario che ne sa, la gavetta dietro e le idee ben chiare su quello che vuole fare: il suo è un r&b, soul che affonda le radici negli anni 50 e 60, che guarda ai grandi classici ma con la testa ben salda nel presente suonando con piglio, raffinatezza e pulizia. Non disdegnando trame blues, rock'n'roll, swing, jazz e surf. Un esordio, True Story (2021) che oltremanica ha fatto gridare al miracolo tutti gli appassionati di northern soul e poi Dig Deep Repeat un seguito che non ha atteso troppo per uscire in questi mesi. La fama poi è accresciuta quando un noto brand d'abbigliamento ha scelto '(Don't) Hold Me Down' per uno spot pubblicitario. Niente di cui montarsi la testa ma si sa le voci girano veloci e tutto fa brodo per far girare il nome. 

La band che lo segue in questa ultima data italiana delle sei fissate, è composta da basso (Pete Thomas), batteria, tastiere (Jack McGaughey), il sax di Meridyth Dickson e la seconda, spesso prima voce femminile della brava Denver Cuss. Viaggiano spediti, precisi, puliti, senza disdegnare del sano divertimento quando si lasciano andare in accelerazioni, in brevi botta e risposta strumentali e accenni free. È in questi momenti che si percepisce il vero divertimento dalle loro espressioni. Tutti bravi, tutti giovanissimi. In mezzo ai pezzi dei due album tra cui spiccano 'Leaving Here', 'Matter Of Time' e 'Nowhere To Go', 'Dig Deep', 'Out Of Mind', ecco anche le cover 'To Be Alone With You' di Bob Dylan, da Nashville Skyline, e 'I Don't Need No Doctor', un classico del R&B portato al successo da Ray Charles, ma io ricordo pure la versione heavy degli WASP. 
Si balla volentieri, si applaude e si vorrebbe che il concerto, delizioso, andasse avanti ancora un po', notte e giorno proprio come 'Every Day (Every Night)', l' ultimo singolo, e canzone che conclude il set e ci congeda nelle mani della nebbia che nel frattempo, là fuori, si è fatta ancora più fitta.






lunedì 31 ottobre 2022

RECENSIONE: JOHN NORUM (Gone To Stay)

JOHN NORUM  Gone To Stay (Gain, 2022)


c'è vita fuori dalla band

Un talento mai troppo lodato. I dischi solisti di JOHN NORUM sono un riassunto della musica con la quale è cresciuto da ragazzo: in testa certamente i Thin Lizzy (spesso si cimenta in cover del gruppo irlandese), gli UFO targati Michael Schenker, Gary Moore, Frank Marino, i Deep Purple con Glenn Hughes in formazione e non è un caso che proprio "the voice" sia il cantante su tutto l'album Face The Truth (1990), infine i Black Sabbath. Una chitarra ispirata ma sempre al servizio della canzone. Se i primi dischi viaggiavano su un hard rock/metal cromato figlio degli anni ottanta, ricordiamoci che lasciò gli Europe all'apice del successo perché quella strada non era più la sua ("dopo il successo di "The Final Countdown" mi sono sentito come se fossi con i New Kids On The Block. Ma volevo essere un musicista" raccontò in una intervista) con il passare del tempo la sua chitarra si è fatta via via più pesante (l'ottimo Optimus del 2005) e blues (Play Yard Blues del 2010) tanto efficace da ridare nuovi stimoli e aprire nuove strade agli Europe mai così prolifici, duri e puri come dopo la reunion del 2004. Peccato che pochi lo sappiano.

Ora, anticipato da tre nuove canzoni uscite nel corso dell'anno, è uscito il nuovo album Gone To Stay a dodici anni dall'ultimo.

Ancora una volta Norum si conferma autore di vecchia scuola,  basti l'uno-due iniziale per capirlo: quando il suono di un carrilion lascia spazio a 'Voices Of Silence', hard blues in stile Whitesnaske mentre la successiva 'Sail On' (con il compagno di band Mic Michaeli alle tadtiere)  mette in mostra tutte le influenze Black Sabbath nei suoni e Soundgarden nel cantato, confermate anche dalle parole dello stesso Norum.

"Ero sdraiato sul divano in studio e non avevo idea di cosa fare con la voce. Avevo già registrato la musica e all'improvviso mi ha colpito: ho un'idea. Fammi entrare.' Non ho testi o altro, quindi ho appena borbottato qualcosa, ed è quello che è venuto fuori, e poi dopo, ho detto: mi ricorda davvero Cris Cornell. Ma non era intenzionale".

Un disco intenso e solido (suonato insieme a Peer Stappe alla batteria e Frederick Bergensstrahle al basso) che si fa veloce nei riff che dominano 'What Do You Want', funky nell'andamento che accompagna il rock blues della title track e misterioso nelle chitarre che costruiscono la melodia di  'Calling'.

Anche in questo album non manca un'ospite alla voce: in tre brani c'è Age Stein Nilsen cantante dei norvegesi Wig Wam. Nilsen canta nella ballata 'One By One', il brano più accessibile e radiofonico, nel quadrato hard rock molto Ac/Dc 'Terror Over Me' (a cui si aggiungono anche lo stesso Norum e Kelly Keeling) e nella aggressiva e heavy  'Norma' arricchita dalla Stockholm Philharmonic Orchestra. 

Infine due chicche del disco: la cover di 'Lady Grinning Soul' di David Bowie, in origine su Alladin Sane del 1973, e la finale  'Face The Truth', rilettura di un suo vecchio brano che da hard (c'era la voce di Hughes) si fa jazzato.

Ancora una volta John Norum non  delude le aspettative di chi da lui si aspetta del buon hard rock heavy alla vecchia maniera. "Quello che oggi chiamano Classic Rock o Classic Hardrock è ed è sempre stato il mio genere". 





mercoledì 26 ottobre 2022

THE AFGHAN WHIGS live@Santeria, Milano, 25 Ottobre 2022


Gli Afghan Whigs di Greg Dulli sono uno di quei rari esempi di band che dopo la reunion hanno mantenuto lo stesso peso specifico degli anni d'oro. Basta scorrere la scaletta: ben quattordici brani sono estrapolati dagli ultimi tre dischi post reunion. (In Spades rimane il mio preferito). Tanti: non si vive solo aggrappati al passato, benché canzoni come la triade 'What Jail Is Like', 'Gentlemen' e 'Fountain And Fairfax' estrapolate da Gentlemen, disco prossimo ai trent'anni, stasera sono state accolte con entusiasmo. Ci mancherebbe! Che il presente sia importante lo si capisce subito dall'uno due iniziale: 'Jyja' e 'I'll Make  You See God'  (una botta stoner ) dall'ultimo e ancora fresco How Do You Burn? hanno la forza e il potere di stendere e mettere subito in chiaro le cose. Da qui in avanti sarà tutto in discesa con Greg Dulli, presenza sempre "importante", in grande forma vocale (lo disturbano solo i flash "fate tutte le foto che volete ma senza") la chitarra del "Blind Melon" Christopher Thorn sempre ficcante e ispiratissima, il rullo compressore di Patrick Keeler alla batteria, la fedele compostezza unita alla solidità di John Curley al basso e la preziosa presenza di Rick G.Nelson terza chitarra, violino e pianoforte all'occorrenza. 

Gli Afghan Whigs dal vivo non deludono mai e il concerto non ha soste e per intensità ha pochi eguali sulla piazza tra le band loro coetanee. Una botta di adrenalina che spezza la settimana e carica per ciò che resta.

Piace anche la sana voglia di giocare con la musica, calandosi nella mischia della storia da fan del rock'n'roll. Ecco così arrivare omaggi a Bo Diddley ('Who Do You Love?'), Rolling Stones ('Angie'),  una 'Heaven on Their Minds' da Jesus Christ Superstar di Andrew Lloyd Webber  e  l'ntensa e palpabile 'There Is a Light That Never Goes Out' degli Smiths degna conclusione (senza bis, uscite e rientri) di una serata  dove  il loro  'wall of sound" è stato composto e distrutto all'occorrenza seguendo intensità , luci e ombre dei testi scritti da Dulli. Dove  chitarre  ciniche e spietate hanno amoreggiato con  il calore soul. Ipnotici, compatti, cupi ed esaltanti, romantici e spietati come la migliore delle vite. Tutto in una sola serata d'amore.




setlist:

Jyja

I'll Make You See God

Matamoros

Light as a Feather

Oriole

Toy Automatic

Gentlemen

What Jail Is Like

Who Do You Love?(Bo Diddley)

Fountain and Fairfax

Angie (The Rolling Stones)

Algiers

Catch a Colt

I Am Fire

Heaven on Their Minds (Andrew Lloyd Webber)

Somethin' Hot

Please, Baby, Please

It Kills

Demon In Profile

A Line of Shots

John the Baptist

Summer's Kiss

Into the Floor

There Is a Light That Never Goes Out (The Smiths)



sabato 22 ottobre 2022

RECENSIONE: THE CULT (Under The Midnight Sun)

THE CULT   Under The Midnight Sun  (Black Hill, 2022)



visioni a mezzanotte

Ho questa scena estrapolata da A Year and a Half in the Life of Metallica, il documentario sulla realizzazione del Black Album dei Metallica: la band e il produttore Bob Rock sono in studio di registrazione quando iniziano a bersagliare con le freccette un poster dei Cult, periodo Sonic Temple, scimmiottando la voce di Ian Astbury. A parte il legame tra Bob Rock e la band britannica , non ho mai capito quello sberleffo. Sarà perché a me la voce di Astbury, quel caratteristico modo di cantare, ha sempre dato sicurezza e calore. Ancor di più oggi con un disco che sembra giocare più di sfumature che di spigolosita rock'n'roll. Under The Midnight Sun è un album che non fa dell'immediatezza la sua forza ma gioca di contrasti e esce alla distanza. No, un ascolto superficiale non basterà per farvelo piacere. Bisognerà insistere se ne avrete voglia. Anche se non garantisco il risultato. A me nella finale title track, numero acustico con crescendo d'archi che nella sua profondità può ricordare da vicino qualcosa di Mark Lanegan, ascoltata in cuffia in una nebbiosa mattinata autunnale è venuta la pelle d'oca ad esempio.

Ammaliante, visionario e pieno di ombre come solo un sole a mezzanotte nelle regioni polari. Cosa realmente vissuta dal gruppo a un festival a Provinssirock in Finlandia a metà anni ottanta, ispirazione per questi soli ma intensi 35 minuti (otto canzoni) che Astbury ha cercato di raccontare con la profondità e lo spiritualismo che lo hanno sempre contraddistinto.

"La gente è sdraiata sull'erba, pomiciando, bevendo , fumando. C'erano file di fiori nella parte anteriore del palco delle esibizioni, quella sera. È stato un momento incredibile

C'è un ritorno a certe sonorità eighties (il disco è stato registrato anche negli Rockfield Studios in Galles dove fu registrato Dreamland) con l'aiuto del produttore Tom Dalgety, con la chitarra di Billy Duffy che si inventa riff suggestivi e seducenti, assoli e riverberi certamente più vicini alla new wave dei primissimi album (Dreamtime, Love) piuttosto che all'hard rock di fine anni ottanta (Electric, Sonic Temple). 

"Stavamo cercando un suono più contemporaneo, meno rock n' roll. Meno blues rock. Penso che l'abbiamo raggiunto. Direi che è più un disco dal suono europeo" ha raccontato recentemente Billy Duffy.

Trantacinque minuti da prendere in blocco, senza pause: oscuri ('Mirror'), malinconici (il singolo 'Give Me Mercy'), psichedelici (gli archi di 'Outer Heaven'), darkeggianti 'Vendetta X'. Canzoni come 'A Cut Inside' e 'Impermanence' invece racchiudono bene le due anime della band, quella degli esordi con quella più hard di metà carriera. La bossanova iniziale di 'Knife Through Butterfly Heart' che cresce fino ad esplodere all'assolo di Duffy e alla lunga coda strumentale è certamente tra i vertici del disco.

Manca forse l'inno rock, la canzone da ricordare e associare al disco, forse pure la produzione a volte grida vendetta, ma poco importa.

I Cult, completati su disco dal batterista Ian Matthews, il tastierista  Damon Fox, il bassista Charlie Jones e dallo stesso produttore Tom Dalgety anche seconda chitarra, suonano compatti e uniti.

A mio parere i Cult non hanno mai inciso dischi realmente brutti. Per anni hanno cavalcato le mode musicali mettendovi sempre la loro inconfondibile impronta. Ora che le mode musicali non esistono più possono ritornare al loro passato, saccheggiarlo e riproporcelo con tutta la maturità di quarant'anni di carriera alla spalle.






domenica 16 ottobre 2022

THE BLACK CROWES live@Alcatraz, Milano, 13 Ottobre 2002

No, Rich Robinson non sorride mai. Lo posso confermare dopo averlo visto davanti a me a pochi metri per un'ora e mezza. Qualche smorfia e qualche occhiata al tecnico del suono. Basta. Nemmeno dopo aver ricevuto i bisbigliati complimenti e una pacca sulla spalla del fratello Chris che gli ha lasciato il microfono per una versione di Oh! Sweet Nuthin dei Velvet Underground che si piazza certamente tra i vertici della serata. Niente. Imperturbabile. A mosse, passi di danza, sorrisi e ammiccamenti ci pensa quindi Chris Robinson, in buona forma e reduce da un non ancora svelato malanno che due giorni fa ha fatto saltare la data di Amburgo poche ore prima dell'evento. Mistero: attendiamo ancora il comunicato ufficiale che mai arriverà.


C'era quindi timore per la data milanese. Timore spazzato via immediatamente dall'inconfondibile schitarrata che mette a tacere James Brown (non si dovrebbe mai fare in effetti) e da inizio a Twice As Hard. 

Devo confessare che i concerti celebrativi per un album mi piacciono poco, tolgono un po' di sorpresa e phatos alla serata. Sai già quel che arriva e quando arriva. Se però quel che arriva si chiamano Seeing Things (altro punto altissimo del concerto) e Thick 'n Thin, che mettono in mostra le due anime della band, allora lo si accetta di buon grado e poi Shake Your Money Maker è un disco perfetto dall'inizio alla fine. Un debutto che pochi possono vantare. Anche se poi il meglio la band l'ha dato nei dischi successivi. Di quel che è venuto dopo però stasera c'è solo un piccolo assaggio: Thorn In My Pride e Remedy da The Southern Harmony and Musical Companion e Wiser Time da Amorica, una inaspettata e divertita Soul Singing (qui si balla come su Hard To Handle) che Chris Robinson deve aver inserito all'ultimo momento visto che prima di suonarla va a parlare in un orecchio a tutti i musicisti e una Good Morning Captain da Before The Frost...Until The Breeze posta in chiusura come bis, in verità poco generoso. Però potrebbe essere un segno di continuità per il futuro...chissà?

Una batteria troppo invadente (certo Steve Gorman manca tanto) e suoni a volumi troppo elevati, chissà forse per compiacere Isaiah Mitchell, seconda chitarra, già abituato negli Earthless, tolgono un po' di fascino alla componente soul del gruppo, rinforzata da due coriste che spesso sono inghiottite dal tutto. Un peccato.


Una parola per gli olandesi DeWolff è d'obbligo. Concerto di apertura sontuoso il loro, tanto che io sarei già andato a casa dopo i loro 45 minuti di hard blues che si fanno bastare un Hammond, una batteria e una chitarra. Da rivedere assolutamente se capiterà.

Sì, l'unica nota negativa se la becca autostrade italiane che mi chiude tutte uscite verso casa: a Milano trovare l'imbocco per Torino è impossibile (di notte c'è chi lavora) e io insieme a tanti giriamo in una gimcana per una buona mezz'ora. In A4 anche la chiusura dell'uscita Carisio mi costringe ad attraversare le risaie vercellesi nel buio più pesto. Solo l'adrenalina post concerto mi è stata d'aiuto. Potere salvifico della musica.



setlist

Twice As Hard

Jealous Again                                             

Sister Luck

Could I've Been So Blind

Seeing Things

Hard To Handle

Thick 'n Thin

She Talks To Angels

Struttin Blues

Stare It Cold

Soul Singing

Oh! Sweet Nothin'

Wiser Time

Thorn In My Pride

Remedy

Good Morning Captain





venerdì 7 ottobre 2022

RECENSIONE: BUDDY GUY (The Blues Don't Lie)

BUDDY GUY - The Blues Don't Lie (2022)



last (blues)man standing

Quando le leggende decidono di scendere in campo, bisogna togliersi di mezzo e lasciar loro spazio. Il blues è vivo e in buona forma, ce lo diceva solo quattro anni fa dopo l'uscita di The Blues Is Alive And Well.

Oggi gli anni sono 86 e Buddy Guy, una delle ultime leggende del blues di Chicago (l'ultima?) è ancora in forma smagliante: le date fissate dei suoi tour, la sua musica, la sua voce, il suo bel faccione sorridente in copertina, la sua chitarra a pois parlano chiaro. Chiarissimo: il blues non mente. Fedele a una promessa fatta a sé stesso e ai tanti amici già persi per strada "lo prometto fino al giorno della mia morte, terrò in vita il blues" e questo nuovo album è l'ennesima autobiografia di un uomo che 60 anni fa lasciò i campi della Louisiana per cercare il suo sogno in città. Lo ha acciuffato quel sogno e che lo stia ancora vivendo in pieno lo si capisce appena parte 'I Let My Guitar Do The Talking' che  attacca al muro qualunque aspirante bluesman che tenti di scalzarlo dal trono. Sontuoso. 

In mezzo a blues più malinconici con la chitarra che piange alla ricerca disperata d'amore ('The World Needs Love', 'Sweet Thing') o il pianoforte della jazzata 'Rabbit Blood', c'è ancora molto  fuoco che arde ('Well Enough Alone', 'Back Door Scratchin').

E poi ecco apparire alcuni ospiti di spicco come la tradizione degli ultimi dischi, prodotti dal fedelissimo Tom Hambridge, vuole: una meravigliosa Mavis Staples che duetta tornando indietro ai sixties in 'We Go Back', Elvis Costello che ringhia nella minacciosa 'Symptoms Of Love', James Taylor in 'Follow The Money', Jason Isbell nel soul 'Gunsmoke Blues', una presa di posizione convinta contro le armi da fuoco, l'ottantottenne Bobby Rush nel funky 'What's Wrong With That', la cantante Wendy Moten nel classico blues di 'House Party'.

Un disco come sempre per nulla nostalgico o fermo al passato come natura di Buddy Guy.

"Ne parlavamo con Muddy Waters, Howlin' Wolf, Little Walter e tutti quei ragazzi. Allora erano ancora in salute, e parlavamo di questo giorno, 'chi sarebbe rimasto... per favore, non lasci che il blues muoia".

Ancora una volta la promessa è mantenuta.





sabato 1 ottobre 2022

RECENSIONE: SUPERDOWNHOME (Blues Pyromaniacs)

 

SUPERDOWNHOME   Blues Pyromaniacs (Dixiefrog, 2022)


Quante band italiane oggi possono vantare collaborazioni con gente come Popa Chubby, Charlie Musselwhite, i Nine Below Zero, e poi ancora Mike Zito, Bombino, Andy J. Forrest e Anders Osborne come avviene in questo ultimo disco? Io posso considerarmi  pure un privilegiato per aver assistito da vicino alla crescita esponenziale del duo bresciano formato da Enrico Sauda (voce e chitarre) e Beppe Facchetti (batteria), partito veramente dal basso per trovarsi oggi a guidare la fila del rock blues moderno europeo. 

Dai piccoli circoli che i due però continuano a frequentare assiduamente, tenendo saldamento unito il legame con il passato, ai grandi club e festival europei il passo è stato relativamente breve ma cercato con convinzione e dedizione. Un successo meritato e perseguito con ammirevole devozione, le conoscenze giuste, anche un po' di fortuna chissà (ma si sa, bisogna far combaciare tutto per bene per arrivare al top) tanto più che  non  parliamo di ventenni in erba ma di musicisti con già una certa esperienza alle spalle.

E questo Blues Pyromaniacs  assume un significato importante per come è nato, è stato registrato e come è progredito nel lungo tempo di gestazione. Tutte cose che loro  raccontano bene nei dodici minuti del video documentario che si può trovare in rete. Sì insomma, un disco registrato negli States con Anders Osborne (un fuoriclasse visto recentemente in Italia al Buscadero Day) in cabina di regia e un'esperienza  che loro stessi denominano "magnifico disastro, disastrosa meraviglia" per via delle tante vicissitudini che hanno dovuto attraversare per vedere l'album fatto e finito oggi. 

Tutto nasce nel Gennaio del 2020 quando il duo, forte di tre album in progressiva crescita artistica (e un paio di raccolte tattiche), parte per Memphis per presenziare all'IBC (International Blues Challenge). Durante il viaggio si presentano occasioni ghiotte per aumentare esperienza, auto stima e programmare il futuro. Prima il Cigar Box  Festival a New Orleans messo in piedi da Samantha Fish e poi l'ncontro con Anders Osborne a New Orleans grazie all'intercedere del manager Giancarlo Trenti. Al musicista svedese da anni di casa negli States gli si chiede l'impossibile: lui accetta di produrre il disco. Prende forma qui Blues Pyromaniacs, tra gli Esplanade Studio e lo Studio mobile a casa di Osborne. In pochi giorni vengono affinate nuove canzoni, aggiunte parti e strumenti. Il disco viene pure missato ai Dockside Studio in Lousiana. 

Sembrava veramente tutto bello, tutto troppo perfetto. Tutto facile. Un american dream concretizzato in poco tempo. Arriva l'imprevisto. Un grande imprevisto, totalmente inaspettato. È la pandemia a bloccare sogni e più o meno tutto il mondo. Ma anche il "tempo perso" del lockdown viene sfruttato per rimettere mano alle canzoni e cercare nuovi contatti. Arriviamo ai giorni nostri con in mano un prestigioso contratto con l'etichetta francese Dixiefrog e ben due versioni dello stesso disco. Quello americano "nudo e crudo" con il trattamento di Osborne che uscirà più avanti (fine Ottobre) in formato vinile e questo, forte di nuovi mix, nuovi ospiti, nuove canzoni aggiunte e la presenza di Brian Lucey (già al lavoro con i Black Keys) al missaggio.

È un disco che alza notevolmente l'asticella della loro musica: rimane la loro idea di rural blues 2.0 tutto batteria e chitarre (le tante rudimentali e artigianali suonate da Sauda) ma che spesso si indirizza verso nuove strade, meno grezze e impervie, a volte molto più melodiche. Nuovi orizzonti sonori si aprono immediatamente dopo la sventagliata blues dell'iniziale 'Utter Daze': dall'inaspettato soul gospel di 'Living Disgrace', al fascino tutto americano e da radio FM di 'Motorway Son', arricchita dai fiati e dall'ospite Mike Zito (presente anche nella distorta e già conosciuta 'I'm Broke'). Dalle atmosfere desertiche e polverose portate in dote dalla chitarra "sahariana" di  Bombino in 'Like A Rag In The Sea' alle atmosfere lente e stonate della narcotica 'A Wandering Wino', che a me pare la loro 'Planet Caravan' di sabbathiana memoria. Ma si muove spesso anche il culo seguenfo il groove grazie agli  up-tempo 'Nobody's Twist', il blues rockabilly di 'Ambition Craze' dai sentori vagamente psichedelici, con il boogie 'Disaster Noon' e con il twist bluesy 'My Girl C'Est Bon'.

Più due cover suonate alla loro maniera: 'New York City' di John Lennon e 'Don't Bring Me Down' degli Electric Light Orchestra.

Un disco che visti i personaggi coinvolti per qualcuno potrebbe essere un traguardo ma sono certo che per Beppe Facchetti e Henry Sauda sarà un nuovo stimolo in futuro per alzare di un'altra tacca l'asticella della loro musica e fare ancora meglio. Nuovamente.




RECENSIONE: SUPERDOWNHOME - Twenty Four Days (2017)

RECENSIONE: SUPERDOWNHOME - Get My Demons Straight (2019)


martedì 27 settembre 2022

RECENSIONE: JONATHAN JEREMIAH (Horsepower For The Streets)

JONATHAN JEREMIAH   Horsepower For The Streets (PIAS, 2022)



heart and soul

L'arrivo dell'autunno chiama calore domestico, abbracci e protezione. Un riparo sicuro. Tutte cose che si possono trovare anche in musica. Lasciando da parte i grandi classici, bello è cercare qualcuno che sappia donare tutte queste cose tra le nuove uscite. Perché buoni dischi continuano ad uscire eh, lo dico per chi è  fermo al 1979 e non ne vuole sapere per troppa pigrizia. Da alcuni giorni sono in botta con questo quinto album del cantautore Jonathan Jeremiah, londinese di padre anglo-indiano e madre irlandese. A una domanda per descrivere la sua musica, lui stesso risponde: "troppo soul per il folk, troppo folk per il pop e troppo pop per il soul". Tutto chiaro? Forse non tanto. Meglio sarebbe passare all'ascolto. Il disco, scritto in buona parte in Francia, nelle campagne intorno a Bordeaux, durante uno dei suoi tour e registrato a Bethlehemkerk, una chiesa ristrutturata a nord di Amsterdam, mette bene in mostra la cifra stilistica di Jeremiah, dall'inizio alla fine: voce brumosa e baritonale che si staglia spesso su arrangiamenti d'archi sontuosi ('Horsepower For The Streets'), cinematografici ('Cut A Black Diamonds'), è stata pure impiegata un'orchestra di venti elementi (la Amsterdam Sinfonietta), dove il soul, con cori femminili presenti, regna sovrano ('Small Mercies', 'Youngblood', 'Restless Heart') ma ben si amalgama con il folk britannico ('The Rope'). Proprio come dice lui. Pur avendo come punti di riferimento Terry Callier, Bill Whithers, Nick Drake, Scott  Walker, John Martin, Burt Bacharach, Ennio Morricone, Glen Campbell, l'ultimo Michael Kiwanuka per rimanere a un suo contemporaneo, Jonathan Jeremiah riesce a dare un'impronta personale alle sue composizioni, inseguendo il  pensiero di libertà, cercando la positività nella difficile quotidianità e nelle pieghe dei sentimenti e dei rapporti umani (il crescendo piano, voce di 'Early Warning Sign'). E l'isolamento di questi due ultimi anni influisce tantissimo nella sua scrittura ('You Make Me Feel This Way').

Un disco che ha negli anni sessanta e settanta la propria culla ideale, del presente ha le parole, nel "senza tempo" ci troviamo la melodia e il calore. Benvenuto autunno.