domenica 31 maggio 2020

RECENSIONE in pillole: JOE ELY (Love In The Midst Of Mayhem)

JOE ELY  Love In The Midst Of Mayhem  (2020)




Molti artisti nei mesi di quarantena ci hanno regalato nuove canzoni. Bob Dylan ci ha dato la sveglia per ben due volte con  nuove canzone, che finiranno nel prossimo disco di imminente uscita.
JOE ELY, venerdì 17 Aprile 2020, ci  ha regalato addirittura un disco intero di dieci canzoni: LOVE IN THE MIDST OF MAYHEM.
"Volevo che queste canzoni fossero ascoltate ora piuttosto che tra sei mesi" dice Joe Ely di questa atipico album costruito in casa con canzoni inedite e chiuse nei cassetti privati della sua vita. Li ha aperti insieme a sua moglie Sharon.
"Dormivo più del dovuto. Alla fine, mia moglie Sharon e io abbiamo deciso di concentrare la nostra energia su ciò che facciamo meglio. " Sono saltati fuori fogli, appunti, files, canzoni scritte nell'arco di tutta la sua carriera, da quelle più vecchie, datate 1973/74 come 'There' s Ever Been' e 'Soon All Your Sorrows Be Gone' a una 'Garden Of Manhattan' (2015), l'unico scatto elettrico del disco, alle recentissime 'A Man And His Dog' (2018) e il valzer 'You Can Rely On Me' (2019), passando per gli anni ottanta dell'ombrosa 'Cry' (1987), la ballata al pianoforte 'Your Eyes' (2012), l'andatura quasi clownesca di 'Glare Of Glory'.
Tutte hanno un denominatore comune: gravitano intorno all'amore. E tutte, inutile dirvelo hanno l'inconfondibile marchio del rocker senza padroni di Amarillo, Texas, fatto di ballate, border songs, fisarmoniche, spazi desertici, polvere, lentezza e dolcezza, romanticismo, libertà e tanto amore.





martedì 26 maggio 2020

RECENSIONE: STEVE FORBERT (Early Morning Rain)

STEVE FORBERT    Early Morning Rain (Blue Rose Music, 2020)





early in the morning

Questa raccolta di canzoni potrebbero essere i 45 giri (questi oggetti scomparsi!) che il giovane Steve Forbert si portò con sé dentro la valigia quando a metà anni settanta si spostò dal natio Mississippi verso New York in cerca della famosa buona stella. Che trovò con caparbietà tra i locali del Greenwich Village e le strade che portavano al CBGB.
"Undici delle mie canzoni preferite. Una sola scritta dopo il 1973". Ci tiene a precisarlo Forbert.
La valigia è pesante di storia e preziosa di ricordi. Dopo Magic Tree, uscito due anni fa raccogliendo vecchie canzoni dimenticate nel cassetto, dopo l'autobiografia che faceva il punto della situazione, passato un periodo poco felice per la sua salute, questo disco di cover sembra essere una nuova ripartenza. Ripartire dai propri punti fermi. Queste sono le canzoni che ama di più, suonate con il suo inconfondibile tocco dove melodia, folk e blues si incontrano con l'immancabile freschezza che lo ha accompagnato da sempre e una voce che non sembra aver subito troppo il trascorrere del tempo. Chiudendo gli occhi quell'uomo di 65 anni in copertina sembra sempre lo stesso ragazzo di quel debutto arrivato nel 1978. Ci mette nuovamente la faccia.
"Nel corso dei decenni ho sempre mantenuto un elenco di canzoni per le quali provavo forti sentimenti o una certa affinità. Per questo album, ho iniziato con un elenco di 130 brani e, a partire dallo scorso maggio, insieme al mio produttore Steve Greenwell, abbiamo iniziato a fare demo delle canzoni e a sfoltire la lista" ha raccontato Forbert in una recente intervista
Certo, confrontarsi con 'Suzanne' di Leonard Cohen, 'Your Song' di Elton John, 'Dignity' di Bob Dylan non è certamente facile per nessuno. Ma non è una sfida ma un atto di amore. E si sente. La sua spontaneità è l'arma vincente.
In scaletta anche: Kinks ('Supersonic Rocket Ship'), Grateful Dead ('Box Of Rain'), Richard e Linda Thompson ('Withered And Died'), Judy Collins ('Someday Soon'), Charlie Walker ('Pick Me Up On Your Way Down'), Danny O'Keefe ('Good Time Charlie's Got The Blues') e Gordon Lightfoot con 'Early Morning Rain' a regalare il titolo alla raccolta.
Che Forbert non abbia dimenticato di essere prima di tutto un grande fan della musica lo si capisce anche durante i suoi live quando pur con quarant'anni di carriera alle spalle non è raro sentirlo rendere omaggio ai suoi idoli, quelli che ancora oggi si porta dietro nella valigia della vita.
 

venerdì 22 maggio 2020

RECENSIONE: STEVE EARLE & THE DUKES (Ghosts Of West Virginia)

STEVE EARLE & The DUKES   Ghosts Of West Virginia (New West Records, 2020)






l'ultimo dei working class hero

Le loro storie vengono sempre a galla quando è troppo tardi. I giornali dedicano pagine intere e titoli, i loro volti, i nomi vengono sbattuti in prima pagina. I  sindacati, quando ci sono, fanno la voce grossa. Ma solo pochi giorni dopo il  ricordo si stinge, le foto sbiadiscono, i nomi vengono dimenticati, tutto vive sempre e solo nella memoria dei cari rimasti in piedi in questa superficie alla luce del sole, poco sicura anch'essa, oppure scolpito sopra a un monumento in granito che li ricorda, posizionato lungo la statale. Visibile solo quando passa la mano di un tosaerba e se freni, parcheggi  e scendi dall'auto.
Era il pomeriggio del 5 Aprile del 2010 quando un'esplosione improvvisa non lasciò scampo a 25 minatori che stavano lavorando nella miniera di Upper Big Branch nella comunità di Montcoal nel West Virginia, 1000 piedi sotto la terra. Altri quattro dispersi verranno trovati successivamente portando il conto a 29 operai deceduti. Le scarse condizioni di sicurezza della miniera furono spesso denunciate ma rimasero un grido inascoltato, pronto da tirare fuori a tragedia avvenuta. Buono e utile solo per eventuali processi. Per la cronaca: la miniera è stata chiusa, il presidente ha passato un solo anno di reclusione e ha continuato la sua vita riciclandosi in politica. Sembra un copione già scritto troppe volte: giustizia non fu fatta, naturalmente. Rimane solo il granito scolpito con i loro nomi e l'erba alta intorno.
Steve Earle quei 29 minatori li nomina tutti, quasi con rabbia, nel testo della tesa ed elettrica 'It' s About Blood' una delle dieci canzoni che compongono questo nuovo Ghosts Of West Virginia, figlio di uno spettacolo teatrale. Un progetto nel quale venne coinvolto, pensato da Jessica Blank e Eric Jensen per mantenere intatta la memoria e che sarebbe stato messo in scena nel marzo di quest'anno se il lockdown non fosse intervenuto a mettere i sigilli.
Earle nel disco riprende quella triste storia di cronaca e alcune canzoni scritte appositamente per la commedia e ce le racconta insieme ai suoi Dukes (la "rossa e indispensabile Eleanor Whitmore al violino, il marito Chris Masterson alla chitarra, Ricky Ray Jackson alla pedal steel, Brad Pemberton alla batteria e Jeff Hill-Chris Robinson Brotherhood-al basso in sostituzione di Kelley Looney, scomparso poco prima di entrare in studio), più Eleanor Masterson voce nell'arioso ma straziante folk  'If I Could See Your Face Again', interpretata con la vista spostata dalla parte di chi sta a casa ad aspettare, magari con dei figli e un mutuo da pagare.
Un disco breve (29 sono i minuti proprio come i morti), registrato in mono (per via dei problemi all'udito di Earle), diretto, accusatorio, che ha i suoi eroi e i suoi bersagli politici.
Si apre con il canto a cappella che sa di traditional 'Heaven Ain' t Goin'Nowhere', si prosegue sulle strade ben battute del bluegrass in 'Union, God And Country' (una vita già segnata da rotaie sempre uguali ma da affrontare con orgoglio) e la nera 'Black Lung' (se sopravvivi ai disastri dovrai comunque fare i conti con altre malattie), dell' honky tonk in 'John Henry Was A Steel Drivin' Man', dove la figura di John Henry viene rivista, del folk ('Time Is Never Our Side', 'The Mine'), del rockabilly in una 'Fastest Man Alive' quasi springsteeniana.
L'orgoglio e la consapevolezza degli operai già svegli di prima mattina con una preghiera stretta tra i denti a scongiurare un rischio calcolato, nell'incalzante ritmo con violino e banjo che guida 'Devil Put The Coal In The Ground', un blues primitivo, straziante, che si spezza con l'entrata della chitarra elettrica, sono forse l'apice di un disco che non fa nulla per compiacere l'ascoltatore. Qui conta solo l'empatia e con Steve Earle di mezzo si va sempre sul sicuro. Insomma: sappiamo sempre da che parte sta.
Ora, a ricordarci di quella giornata di dieci anni fa, oltre a un monumento in granito fermo su un lato di una strada trafficata, all'opera teatrale ferma invece al palo ancora prima di iniziare c'è questo disco che conferma Steve Earle come uno dei pochi veri songwriter in grado di portare in superficie storie dimenticate alla maniera dei vecchi folk singer.
Un disco che solo uno come Steve Earle può permettersi.
Corto, ruvido, sincero, poco accomodante. Di denuncia e speranza. Anche se non aggiungerà nulla alla sua carriera musicale, è un'altra tacca da scolpire sopra al monumento Earle alla voce rispetto. Adesso tagliate quell'erba!










lunedì 18 maggio 2020

RECENSIONE: THE STEEPWATER BAND (Turn Of The Wheel)

THE STEEPWATER BAND   Turn Of The Wheel (Diamond Day Records, 2020)




the song remains the same...but I like it 

Con quasi vent'anni di carriera alle spalle, torna la band di Chicago con il settimo disco, a quattro anni dall'ultima registrazione in studio. Persa solo per strada l'attitudine più free, aperta alle jam, che caratterizzava i primi lavori, rimane il suono tosto di una band ancora solida, verace e sincera come ai primi tempi dove le chitarre hanno ancora la loro fottuta importanza ('Trance'), la sezione ritmica è basilare e il groove è sempre di casa e dietro l'angolo ('The Peace You' re Looking For' che chiude il disco). Chiaro, ancora una volta, che le lancette dei loro orologi siano sempre puntate indietro ai seventies.
"La nuova musica mostra la qualità grezza dei primi sforzi della band, combinata con una fiducia che proviene solo da molti anni di registrazioni e tournée" racconta Jeff Massey, chitarra e voce della band.
Registrato ai Vigo Street Studios a Miller Beach in Indiana, nei pressi del lago Michigan con in produzione Jim Winters, fratello del batterista e già produttore del loro vecchio album Revelation Sunday uscito nel 2006, TURN OF THE WHEEL è un disco che potrà piacere agli orfani di nuove uscite da parte dei Black Crowes e figli vari, tra cui i Magpie Salute che hanno avuto la vita più breve del previsto. Certo, qui mancano i fuoriclasse da prima pagina ma si sopperisce al tutto con dedizione e  il duro lavoro come una buona squadra di provincia di metà classifica che però aspira al podio.
I punti di riferimento sono gli stessi di sempre: southern rock, l'hard blues tosto dei grandi power trio dei seventies, i Black Crowes periodo Amorica che sembrano materializzarsi in 'Turn Of The Wheel'. Non per nulla Marc Ford produsse il loro Grace And Melody del 2008, lasciando pure un buon ricordo. Grande disco fu quello (cercatelo).
La tosta 'Big Pictures' sembra invece avanzare poderosa come solo i Crazy Horse di Neil Young saprebbero fare, ed è l'unica vera concessione alle lunghe jam chitarristiche che ricordano il passato. Ci sono pure gli echi lontani di John Fogerty e i  suoi CCWR nel bel viaggio on the road di 'In The Dust Behind' e nel country di 'Abandon Ship' e poi come potrebbero mancare i vecchi zii Stones, quelli di Exile che sembrano dettare i tempi in 'Please The Believer' e 'Running From The Storm'.
La Steepwater band è formata da Jeff Massey (chitarra e voce), Joe Winters (batteria), il nuovo bassista Joe Bishop e il chitarrista Eric Saylors.
Non sono gli ultimi arrivati, non passeranno mai alla storia ma hanno imparato come suonare del buon rock'n'roll.






venerdì 15 maggio 2020

RECENSIONE: WILLIE NILE (New York At Night)


WILLIE NILE   New York At Night (River House Records, 2020)




New York  State Of Mind

Mi suona il cellulare, parte 'Old Men Sleeping On The Bowery' di Willie Nile. Prima che cambiassi suoneria, Willie Nile era il mio personale squillo di tromba sul mondo: belle e cattive notizie, amori e lavoro erano anticipati da quell'inconfondibile suono di chitarra. 
Quella canzone era contenuta nel suo debutto uscito nel 1980, un disco di canzoni straordinarie, perfettamente in bilico tra il vecchio folk, sporco di polvere preziosa, tramandato dal Greenwich Village, i sixties marchiati da una Rickenbacker dei Byrds e l'assalto urbano del punk rock che visse sulla propria pelle in anni irripetibili che oggi sembrano veramente preistoria del rock. Quella da studiare a scuola.
Sono passati quarant'anni esatti, nel mezzo Nile, dopo anni di esilio forzato dalla musica, è tornato prepotentemente ad agitare le mille chitarre, scrivere canzoni, incidere dischi, girare il mondo, e camminare per le vie della sua amata  New York con lo stesso impeto e lo sguardo sempre curioso di allora, occhi penetranti che si posano su loser e marciapiedi poco frequentati. Forse non è più disincantato come allora, c'è più consapevolezza, ma la sincerità è sempre la stessa. Come l'attitudine da rocker, ribelle e romantico insieme. Di quelli che non si trovano più con tanta facilità. 
"Ho ancora molto da imparare, ma ho acquisito molte conoscenze di strada. È l'università della strada. C'è tutto lì: il ricco, il povero, e tutto quello che ci sta nel mezzo" ha raccontato in una recente intervista a Popmatters.
E proprio la città di adozione è nuovamente al centro dei suoi sguardi: lui ci arrivò da Buffalo nel 1972, 600 km percorsi in orario per vedere la fiorente scena musicale dei tempi cresciuta tra il CBGB e il Max's Kansas City, stringere amicizie, rubare consigli a Patti Smith, Ramones e Television. E con un radio sempre sintonizzata dall'altra parte dell'oceano, in UK.
E mai come oggi, la grande mela ha bisogno di nuovi inni per rialzarsi dal lockdown imposto da questa pandemia. Inutile fare l'elenco dei grandi musicisti che hanno cantato New York, Nile ci entra dentro di diritto. 
Ecco così che l'iniziale rock'n'roll di 'New York Is Rockin' fa da apripista catapultandoci  tra palazzi, strade, metropolitane e monumenti. Una corsa scandita da un pianoforte, caotica, veloce come solo quella città sa esserlo. 
Le canzoni sono state scritte prima di tutto ciò che è successo, naturalmente, ma sembrano incastrarsi perfettamente in questi due mesi e la ballata acustica 'Under The Roof' è un'ode alla famiglia, rifugio e abbraccio sempre sicuro nei momenti più disperati. 
" New York mi ha sempre ispirato. Vivo nel Greenwich Village da molti anni, e amo ancora stare lì. L'energia, la grinta e il mistero di tutto ciò riempie il mio cuore di meraviglia. La maggior parte di queste canzoni sono state scritte a New York o ne sono state ispirate in un modo o nell'altro" ha raccontato recentemente. 
Un disco costruito all'antica insieme al produttore Stewart Lerman agli Hobo Sounds di Weehawken nel New Jersey, costruito intorno a tosto rock'n'roll e ispirate ballate. 
Da una parte le chitarre infuocate del rock blues carico di speranza  'The Backstreet Slide' ("facciamo del nostro meglio per trovare la nostra strada, in tutto il mondo, ci sono canzoni da cantare"), quelle alla Rolling Stones di 'The Fool Who Drank The Ocean', scritta con l'amico Frank Lee che sanno  disegnare immagini poetiche di vita vissuta ("ho perso mille cose solo per fare un centesimo, sono il pazzo che ha bevuto l'oceano, pensando che fosse vino"). 
Se si lanciano gli occhi verso il cielo però, c'è  la stessa luna vagabonda di sempre ('Surrender The Moon'), le atmosfere tardo 50 di una 'New York At Night' che chiama per essere vissuta e spremuta fino al primo minuto del mattno ("c'è una festa in corso, puoi sentire il battito del cuore") e una 'Downtown Girl' che sarebbe piaciuta tanto ai suoi amici Ramones: tutte mantengono intatta la linea sul marciapiede su cui Nile ha camminato in questi anni. 
Willie Nile ha iniziato a suonare il pianoforte in giovanissima età e a casa di suo padre, un uomo di 103 anni che vive ancora a Buffalo, c'è il vecchio Steinway su cui imparò le prime nozioni musicali. Proprio seduto davanti a quei tasti è nato il crescendo dell'accorata 'Little Bit Of Love' e l'ispirazione per la ballata al pianoforte 'The Last Time We Made Love' che richiama il suo album uscito qualche anno fa If I Was A River, che fu pure un piccolo sogno inseguito e realizzato. Pure bello e dimenticato con troppa fretta.
C'è il battito pop e metropolitano di 'Doors Of Paradise', non così diversa dalla 'Streets Of Philadelphia' dell'amico Bruce Springsteen, c'è la coralità meticcia di 'Lost And Lonely World', c'è l'epicità con il crescendo soul della finale 'Run Free', simbolo della sua indipendenza artistica.
C'è Willie Nile fermo alla stazione metropolitana West Fourth Street a Washington Square, ha con sé la custodia della inseparabile chitarra, sta cercando la  prossima fermata: c'è ancora tanta musica da suonare in giro. 








RECENSIONE: WILLIE NILE-Children Of Paradise (2018)

mercoledì 13 maggio 2020

RECENSIONE: JASON ISBELL And The 400 UNIT (Reunions)

JASON ISBELL And The 400 UNIT  Reunions (Southeastern records, 2020)




"se avessi vissuto negli anni Settanta...sarei già morto" 

Quando sette anni fa uscì Southeastern, il primo disco a suo nome senza i 400 Unit, ascoltandolo veniva spontaneo inserirlo nella categoria dei dischi di autoanalisi. Mi venne in mente una sorta di nudità dell'anima esposta senza vergogna nello stendino, a guarire sotto il caldo sole del sud ma ben in mostra, finalmente visibile a tutti. Dentro al cestello della lavatrice deve aver dimenticato dei pezzi perché con questo Reunions tira fuori ancora qualcosa di quel suo passato di cicatrici, sbagli, debolezze, arrivando a dichiarare che queste dieci canzoni le avrebbe volute scrivere quindici anni fa. Ecco cos'è quel Reunions del titolo: "una reunion con il mio io di allora".
E quel complimento di David Crosby che campeggia su tutti i siti e che recita più o meno come " Isbell è tra i migliori songwriter di questi tempi" aggiungendo "e la mia idea di songwriter davvero bravi è Paul Simon, Joni Mitchell, Bob Dylan. Il suo canto è emotivo. È onesto sta davvero cercando di raccontarti la storia" sa di importante sottolineatura di qualcosa che però abbiamo potuto toccare tutti con mano in questi anni. I suoi sono sempre buoni dischi. 
Se le liriche sono tanto profonde, intimiste, a tratti pure incisive, ironiche e ammonitrici, la musica sembra sempre volare leggera sopra al miglior canzoniere di Americana depositato nel tempo. 
I toni quasi soul di 'What' Ve I Done To Help' che apre il disco proprio con David Crosby ospite ai cori, le grandi distese verdi di vecchi ricordi estivi messi in fila come birilli in 'Dreamsicle', il folk di 'St. Peter' s Autograph', le chitarre ariose che circondano 'Overseas' (quando un amore è diviso da un oceano), la west coast gentile e soffusa che pare appartenere proprio alla penna del miglior Crosby targato seventies che affiora a galla in 'Running With Our Eyes Closed', la ballata pianoforte e violino di 'River', i tocchi più elettrici ma decisamente melodici e pop di 'Be Afraid' (j'accuse sull'apatia politica dei suoi coetanei amici musicisti) e 'It Get Easier' (canzone sulle passate e risolte dipendenze) che non nascondono un pezzo importante del suo passato con i Drive-By Truckers.
Un disco suonato e registrato bene insieme alla sua band: Sadler Vaden ex Drivin' N Cryin alle chitarre, Jim Hart al basso, Derry Deborja, ex Son Volt alle tastiere, Chad Gamble alla batteria, la moglie Amanda Shires al violino, gli interventi dell'altro ospite Jay Buchanan, talentuoso cantante dei Rival Sons e la produzione dell'ormai inseparabile Dave Cobb di casa ai RCA Studios di Nashville. Sono state delle sedute di registrazione difficili, minuziose: le cronache dallo studio raccontano anche di litigi tra Isbell e la moglie. Ma i risultati alla fine sono questi.
"Se avessi vissuto negli anni settanta, probabilmente sarei stata una stella molto più grande e avrei avuto molti più soldi. E sarei morto" ha raccontato recentemente a Rolling Stone.
Chissà quanto bucato c'è ancora dentro a quella lavatrice?










domenica 10 maggio 2020

RECENSIONE: MARK LANEGAN (Straight Songs Of Sorrow)

MARK LANEGAN  Straight Songs Of Sorrow (Heavenly Records, 2020)




 come to me 

"Tutto quel che mi ha lasciato in mano era un vaso di Pandora pieno di dolore e di miseria. Ma subito dopo ho cominciato a scrivere queste canzoni ed è stato un sollievo: mi sono reso conto che quello era il vero dono che avevo ricevuto dalla mia autobiografia". Sono le parole di Mark Lanegan che spiegano come sia passato dall'autobiografia Sing Backwards And Weep a questo disco senza posare mai la penna, un modo antico per trovare nuova pace dentro se stesso. Ci prova da una vita, è l'unico modo che conosce. Fin troppo bene.
Straight Songs Of Sorrow è una raccolta di canzoni che viaggia a braccetto con l'autobiografia appena uscita in America che già ha sollevato un vespaio di polemiche. Perché in mezzo alla sua difficile vita di ragazzo cresciuto a Ellensburg, Washington, in compagnia di droghe, amici sbagliati, morte e la musica dei novanta, salvifica e tentatrice allo stesso tempo, non tralascia piccanti particolari sulle sue relazioni d'amicizia con i vecchi compagni di band Screaming Trees e anche qualche altro personaggio a cui dedica capitoli interi. Pure con molta fierezza. Ad esempio la lite a distanza tra Lanegan e Liam Gallagher sembra si sia riaccesa come un tizzone ardente lasciato riposare per anni tra le pagine dei ricordi. A noi capire quanto possa essere interessante o meno sapere questi fatti. Ho letto solo alcuni spezzoni dell'autobiografia, quindi mi fermo qui e passo alla musica.
Non ci sono più pause nella carriera di Lanegan, nonostante gli siano state consigliate più volte, non esistono periodi sabbatici ma solo un lungo tempo di bulimica voglia di comporre musica, un infinito tuffo nella sua ispirazione che, diciamolo, non sempre è volata alta negli ultimi anni, anche se sempre accattivante e soprattutto sincera. Quello sì. Vi piace? Bene. Non vi piace? Meglio ancora, borbottò qualche tempo fa.
Purtroppo il problema è ancora tutto qui. La fortuna vuole però che dentro alla quantità salti fuori spesso qualcosa di buono. Ecco così che questa raccolta di quindici canzoni diventa un viaggio tra peccato e redenzione, tra i più profondi e dolenti della sua carriera. Fosse uscito vent'anni fa sarebbe un capolavoro. Rimane invece un diario tanto sincero quanto a tratti zoppicante ma sicuramente qui dentro ci sono le sue migliori cose degli ultimi anni. Certamente ci sono tutti gli ingredienti su cui ha basato il cocktail maledetto della sua carriera: amicizie, sangue, cenere, whiskey, blues, peccati, sesso, droga, amore.
E io partirei dal raggio di speranza della finale 'Eden Lost And Found' cantata insieme a Simon Bonney (Crime & The City Solution), che Lanegan indica come il suo cantante preferito, e che dipinge l'uomo Lanegan di oggi, lucido, pulito, per molti tratti perfino nella voce. Ritratto di un uomo che ha cercato di raccogliere le tappe della sua travagliata vita stendendola su un tappeto imbastito di trame acustiche (chitarre e pianoforte) e qualche ordito d'elettronica, esperimenti di new wave comunque notevolmente inferiori rispetto alle ultime uscite Gargoyle (2017) e Somebody's Knocking (2019), e rintracciabili però fin dall'iniziale 'Wouldn't Want To Say' ("quella canzone incapsula l'intera esperienza, libro e disco: per quello ho voluto metterla all'inizio" racconta), 'Internal Hourglass Discussion' e in 'Bleed All Over', il pezzo musicalmente più leggero e con più dosi di new wave iniettato nelle vene.
Già, le vene. Autostrade sempre troppo trafficate in quegli anni "ho pagato per questo dolore che ho messo nel mio sangue" canta in 'Stockholm City Blues' che viaggiando in coppia con la natura morta da pellicola cinematografica di 'Daylight In Nocturnal House' si aggiudicano la palma di canzoni più profonde, malinconiche e toccanti, anche se la compagnia è davvero agguerrita. Il dolente arpeggio di 'Apples From A Tree' (con la chitarra fingerpicking di Mark Morton dei Lamb Of God), la leggera nenia al synth di 'This Game Of Love' cantata con la moglie Shelley Brien, l'oscurità al pianoforte di 'Churchbells, Ghosts', la droga di 'Ketamine'.
Si circonda pure di tanti amici, passati e presenti, vivi e morti. Al caro Dylan Carlson (Earth), vecchio compagno di risate e sventure, dedica l'acustica 'Hanging On (For DRC)', altri partecipano attivamente al disco come Jack Bates (Smashing Pumpkins, figlio di Peter Hook), Adrian Utley (Portishead).
E poi ancora John Paul Jones al mellotron nella più rumorosa 'Ballad Of A Dying Rover', un blues per il 2020 e il "gemello" Greg Dulli voce in 'At Zero Below' insieme al violino di Warren Ellis in una delle migliori canzoni del disco.
Il picco autoconfessionale lo tocca nei sette minuti di 'Skeleton Key' quando ripercorrendo la strada al contrario ritrova troppi cadaveri di amici che non ce l'hanno fatta e quel "è il mio destino essere l'ultimo in piedi" non si sa se è una domanda o un'affermazione. Ma cambierebbe poco dentro al tendone di questo triste circo messo in piedi tra dolore, peccato, miseria e redenzione da un sopravvissuto a cui vogliamo sempre un gran bene.







mercoledì 6 maggio 2020

RECENSIONE: RUBEN LEVI RHODES (Abbeville)

RUBEN LEVI RHODES   Abbeville (2020)





non è mai troppo tardi

Ruben Rivera si presenta al suo debutto discografico sotto il nome Ruben Levi Rhodes e se pensate che nel 2020 sia impossibile fare musica senza avere in rete un sito, una pagina Facebook, uno straccio di biografia eccovi accontentati. C'è solo il canale Spotify dove potrete ascoltare il disco. Per ora ho scoperto solo che è originario della California del sud. E allora si naviga a vista, nel vero senso della parola. Per esempio, guardandolo in foto non sembra più giovanissimo. Un buon indizio. Ascoltando le sue canzoni però si percepisce che storie da raccontare, raccolte nell'America del suo quotidiano, ne ha e ce le racconta alla vecchia maniera, seguendo canovacci ormai lisi ma sempre affascinanti come fa nell'apertura 'Sunday Song' un country rock alla John Prine che in questi giorni sanno quasi di omaggio o nella seguente 'White Line Flyin', un honky tonk country in stile Waylon Jennings.
Un inizio in cui non cerca certo di stupirci con i trend musicali del momento. Quali sono poi? Da 'Lonesome Is Never Alone' e 'Me And Maria' con la sua fisarmonica, affiorano sapori Tex mex cari a personaggi come Joe Ely e Tom Russell, 'Avery' è country alla Willie Nelson, 'California' è pura brezza da viaggio on the road con tanto di lap steel così come 'Ford Truck' ma dal piglio più malinconico, sembra più adatta a un viaggio di ritorno. Mentre con 'Jack Of Diamonds', chitarra e armonica e il passo lento da border song, con una 'Talkin Cannonball Blues' che richiama Bob Dylan, con la ballata al pianoforte e hammond 'Waiting On A Train' e con una 'Iron Wings' che sa dello Springsteen acustico scopre il suo lato più nascosto e intimista.
Pura americana che sa di tradizione e antico. Canzoni che non cambieranno di certo il mondo con l'unica pretesa di mantenere in piedi la tradizione dell'American Music. Naturalmente il primo consiglio per il buon Ruben è quello di essere più presente nei social. Anche se poi a pensarci bene, forse ha ragione lui.
Bravo Ruben.









domenica 3 maggio 2020

RECENSIONE: DANZIG ( Danzig Sings Elvis)


DANZIG  Danzig Sings Elvis (Cleopatra Records, 2020)



con il calar delle tenebre arriva Danzig The Pelvis
Era lì pronto nel cassetto da tempo, vicino a t- shirt nere e olio scalda muscoli . Danzig lo aveva promesso dopo il disco di cover Skeletons uscito nel 2015, quello che riproduceva Pin Ups di David Bowie in copertina, e già conteneva 'Let Yourself Go' del re insieme a una variegata cesta di canzoni che passavano a fare un giro nel garage rock, nelle colonne sonore di road movie e poi ancora ZZ Top, Black Sabbath e Everly Brothers.
Che Danzig sia un amante della prima scena rock'n'roll legata alla Sun records lo si era già capito da tempo. Dopo la cover di 'Trouble' di Elvis presente su Thrall: Demonsweatlive uscito nel 1993 e dopo aver regalato canzoni a Johnny Cash ('Thirteen') e Roy Orbison ('Life Fades Away') arriva a coronare il suo sogno: un disco intero di canzoni che pescano nel repertorio di Elvis Presley, colpevole di averlo fulminato in giovane età dopo la visione di Jailhouse Rock.
"Ogni volta che qualcuno menziona il mio nome e il nome di Elvis nella stessa frase, è fantastico. Non c'è di meglio" ha recentemente dichiarato a Rolling Stone.
Aiutato dall'ormai fido Tommy Victor (Prong) alle chitarre e Joey Castillo (batteria) Danzig si perde in quattordici canzoni non così usuali del repertorio di Elvis ('One Night', 'Fever', Pocket Full Of Rainbows', 'Like A Baby', Loving Arms'), scansando i grandi successi (l'unico è 'Always On My Mind') per immergersi completamente nel ruolo con devozione, senza stravolgere gli originali e aiutato da una voce adatta, a volte fin troppo enfatizzata, tenendo quasi fede a quel vecchio soprannome "Evil Elvis" che gli fu affibbiato in tempi non sospetti.
Dal rockabilly di 'Baby Let' s Play House' alla scura profondità di 'Love Me' passando dal blues di 'When It Rains It Really Pours' Danzig convince nella parte del fan devoto, muovendosi in versioni grezze, minimali (a volte con il solo pianoforte) e ridotte il più possibile all'osso.
"Non ho quella voce stridula e high metal, quindi ho gravitato di più su quel tipo di stile vocale, come le cose più bluesy come Elvis o Howlin 'Wolf, Muddy Waters, Willie Dixon, cose del genere. Sì, la voce più profonda ha sempre funzionato meglio per me".
Inutile come tanti altri dischi di cover ma d'atmosfera, un po' più nera del solito ma alla fine anche divertente. Perché no? Nulla di più.