domenica 27 settembre 2020

RECENSIONE: ZAKK SABBATH (Vertigo)

 

ZAKK SABBATH   Vertigo  (Magnetic Eye Records, 2020)


rileggere la storia

Sì ok: l'utilità di questo disco è pari a zero, un po' come l'utilità di tutte le cover band sparse nel pianeta d'altronde. È solo intrattenimento. Se fatto bene, piace pure. Eppure Zakk Wylde, il bassista Blasko (Ozzy Osbourne, Rob Zombie) e il batterista Joey Castillo (Danzig, Queens Of The Stone Age ) riescono in qualche modo ad omaggiare un disco con cinquanta nere candeline sul groppone a loro modo, lasciando intravedere la loro firma. Lo fanno ormai da qualche anno con spettacoli live ma l'occasione del mezzo secolo di vita di uno dei dischi seminali del rock era troppo ghiotta per non approfittarne. Zakk Wylde ci mette la sua strabordante chitarra (tanto amata quanto odiata dai chitarristi), i suoi assoli, la sua voce imbastita a whisky e Ozzy Osbourne e l'esperienza raccolta sul campo (anche con questo repertorio suonato migliaia di volte), in più la sezione ritmica non è esattamente l'ultima arrivata. In scaletta quaranta minuti con la scaletta originale USA e la licenza di uscire fuori dal seminato con due lunghe jam ('Wasp / Behind the Wall of Sleep / N.I.B'  e 'A Bit of Finger / Sleeping Village / Warning'). Il tutto registrato in analogico e suonato in presa diretta tanto per mantenere quella grezza attitudine che ben si addice all'originale registrazione, tanto da decidere di non farlo uscire in digitale ma solo in supporto fisico. Se accettiamo le centinaia di band che pur componendo brani propri pescano a piene mani dal campionario di riff seminati negli anni da Tony Iommi, non vedo perché non possa esistere questo dichiarato omaggio: potente, doom ('Black Sabbath') e  bluesy ('The Wizard'). È un venerdì 13 del 1970 che si ripete sempre volentieri.



venerdì 18 settembre 2020

RECENSIONE: NEIL YOUNG (The Times)



NEIL YOUNG 
 The Times (Reprise Records, 2020)


canti di protesta

Washington, 17 Giugno 2015, Donald Trump è candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Durante un comizio della sua campagna elettorale decide di usare 'Rockin' In The Free World' di Neil Young, canzone uscita nel 1989 nell'album Freedom, ispirata dalla protesta cinese in piazza Tiennanmen e che nel testo punzecchiava pure l'allora presidente George HW Bush. La risposta di Neil Young non tarda ad arrivare. Il canadese attraverso il suo manager  Elliot Roberts interviene prontamente e lo cazzia: "non è stata autorizzata". È l'inizio di una disputa tra Young e Trump che nel frattempo alla faccia di tutti dentro alla Casa Bianca ha trovato dimora per almeno quattro anni. 

Estate 2020, con Donald Trump ai minimi storici di consensi, l'effetto gestione Covid pesa, tanto da indurlo a ipotizzare un rinvio delle prossime elezioni presidenziali (lui ci ha provato, inutilmente) , NEIL YOUNG non si lascia sfuggire l'occasione per cantargliene ancora altre quattro. Perché del canadese possiamo dire tante cose ma è rimasto l'unico della vecchia guardia a metterci ancora la faccia, vivere nel presente, a suo modo lottare per ciò in cui crede, spesso anche a scapito del risultato, facendo uscire instant album duri e spigolosi, raffazzonati, poco curati ma marchiati con il sangue. Spesso amaro. 

Questo EP di 27 minuti intitolato THE TIMES (in copertina riprende i caratteri del New York Times) contiene una versione riuscitissima, riveduta e corretta della sua vecchia 'Looking For A Leader' (uscita nel 2006 nell'album Living With War). Nei versi cambiati YOUNG canta:" non abbiamo bisogno di un leader  che costruisce muri intorno alle nostre case, che non conosce Black Lives Matter, è ora di mandarlo a casa". Trump go home in poche parole. 


Il resto è una piccola raccolta di sue canzoni di protesta estrapolate dalle Fireside Sessions (Porch Episode) con le quali Neil Young ha cercato di allietarci il lockdown. Tra le cose più rustiche, belle e riuscite  viste in quei mesi di reclusione forzata. Ci ha accompagnato nel suo ranch immerso nella natura, ripreso dalla telecamera della  compagna Daryl Hannah: una volta davanti a un falò in giardino o a un camino all'interno, sulle rive del lago della sua tenuta, dentro al pollaio, sotto alla neve o sotto il sole, in compagnia di una chitarra acustica, un'armonica o un pianoforte ha pescato vecchie e nuove canzoni dal suo passato. Per questo mini album ha scelto canzoni a tema:  le registrazioni pure e grezze, con sbagli e rumori di sottofondo, di 'Ohio' (scritta di getto dopo la morte di quattro giovani durante gli scontri tra manifestanti e polizia il 4 maggio 1970 a Kent, in Ohio), 'Alabama' e 'Southern Man' (atti d'accusa verso il razzismo degli stati del sud a cui i Lynyrd Skynyrd risposero con 'Sweet Home Alabama'), 'Campaigner' (uscita all'epoca su Decade e che molti lessero come parole di simpatia verso Nixon), la malinconica 'Little Wing' (sentita di recente in Homegrown) e di quella 'The Times They Are A-Changin' dell'amico Bob Dylan, che oltre a starci sempre bene sembra essere l'unico raggio di speranza sempre valido per il futuro. E per lui, cittadino americano da pochi mesi ma abbastanza per definire Trump "una disgrazia per il mio paese", e per milioni di americani il voto di Novembre potrebbe essere il vero preludio verso un altro avvenire.







sabato 12 settembre 2020

RECENSIONE: GRANT - LEE PHILLIPS (Lightning, Show Us Your Stuff)

 

GRANT - LEE PHILLIPS  Lightning, Show Us Your Stuff (Yep Roc Records, 2020)



"parlando con me stesso" 

Difficilmente Grant - Lee Phillips sbaglia un disco e questo, il decimo da solista, inizialmente potrebbe sembrare un primo passo falso. Ma è solo un grande abbaglio. Un po' come il fulmine che ha fatto pronunciare a sua figlia la frase diventata poi titolo del disco. Mostraci cosa sai fare. Forse tra le canzoni scorre meno impeto del solito ma no, è difficile poter dire che è un brutto disco, soprattutto dopo averlo ascoltato più volte. Assimilato. Grant -Lee Phillips sembra scegliere la ballata morbida, sfumata, tenue, come supporto alla sua ricerca tra le fragilità dell'esistenza. Un viaggio tra "le vite tranquille di persone che lottano per resistere, cercando di mantenere la dignità" dice. Lui è compreso lì dentro. Noi pure. Gran parte di noi. 

Canzoni riflessive che sembrano sbirciare più all'interno che all'esterno come invece faceva nel precedente Widdershins che si aggirava tra le brutture del mondo, quelle facili da indicare con il dito. Naturalmente è ancora pieno di gente che vede solo il dito. Confermano le sue parole: "se faccio un disco con un taglio più duro, la prossima volta voglio farne uno più morbido. Il disco che ho fatto prima di questo era davvero più un'espressione esteriore. Riguardava le cose che ci riguardano tutti nella piazza del paese. In questo album, sono andato dentro, ma sono disposto a portare tutti con me". Allora, solo due anni fa, sì chiedeva dove "stiamo andando?", qui sembra chiedersi "a che punto sono?".  Esclusa la battente 'Gather  Up', blues elettrico e trascinante con un crescendo nero e gospel venuta in dono pensando alla sua infanzia, tutte le canzoni viaggiano a mesta velocità seguendo i tasti di un pianoforte ('Mourning Dove', le immagini di 'Sometimes You Wake Up In Charleston' sono tra le più nitide, 'Coming To').  

Ci sono l'inconfondibile tocco di batteria di Jay Bellerose e il basso di Jennifer Condos ad accompagnare, lasciando ai fiati di Danny T. Levin il compito di soffiare ogni tanto sul fuoco (l'apertura 'Ain't Done Yet'  e l'altro up tempo ma nemmeno troppo), procedendo pigramente ('Straight To The Ground') e con la finale 'Walking In My Sleep' che si perde nell'infinità disegnata dalla pedal steel di Eric Heywood, e sembra un po'  riassumere il concetto base di un disco registrato in brevissimo tempo a Los Angeles, mantenendo tutto il calore della presa diretta con l'essenzialità della band: "parlando con me stesso, camminando nel mio sonno" canta in un'atmosfera riflessiva che si cala a perfezione in questi tempi incerti, costruiti su tante domande che attendono altrettante risposte.  

Intimo e rarefatto con il prezioso dono di creare immagini (scattate dalla sua mente) in cui identificarsi. Qui ci mette il cuore come sempre, lo si sente battere e camminare in ogni strofa, sicuro che dovunque ti porti la vita ci sarà sempre un'affetto ad accoglierti come canta in 'Leave A Light On', tra le migliori tracce del disco. La casa è un rifugio sicuro, un po' come lo sono diventati i dischi di Grant Lee Phillips.





martedì 8 settembre 2020

RECENSIONE: TENNESSEE JET (The Country)

TENNESSEE JET  
The Country (Thirty Tigers, 2020)
 



one man band in cerca di compagnia 

L'adolescenza di Tennessee Jet potrebbe essere uguale a quella di tanti altri ragazzini americani che grazie al lavoro dei genitori hanno potuto girare in lungo e in largo gli Stati Uniti. Sua madre e suo padre bazzicavano per rodei con un pick up Ford e i cavalli al seguito mentre ad accompagnare il susseguirsi dei paesaggi c'era sempre una radio accesa che passava Bob Dylan, Willie Nelson, Waylon Jennings e se si cambiava canale uscivano pure le chitarre '90 del grunge. Ecco che quegli ascolti hanno lasciato un segno indelebile venuto utile quando il giovane ha iniziato a imbracciare una chitarra seguendo le orme di quelli che nel frattempo erano diventati per lui importanti quanto e più dei cavalli dei rodei. 
"Una volta che ho iniziato a fare la mia musica, ho capito che anche se avessi imparato quei suoni, avrei comunque emulato qualcun altro. Ho dovuto fare musica tutta mia. Per sapere cosa puoi apportare a un genere, a volte è bene fare l'opposto di quel genere, così puoi provare quei vestiti e vedere come ti stanno. Le cose che sono autentiche per te, le conservi. Le cose che non vanno, le scarti. " racconta. 
THE COUNTRY è il suo terzo disco, il più completo musicalmente, il più country certamente. Se i primi due erano scarni e con frequenti puntate rock (TJ McFarland, ecco il suo vero nome, si esibisce come one man band dove Steve Earle sembra amoreggiare con i Black Keys), questa volta sembra guardare maggiormente al lato bucolico della sua arte, a quegli ascolti adolescenziali che lo hanno accompagnato per tanti chilometri, anche se non mancano alcune scosse elettriche: nel grunge alla Nirvana, pure un po' troppo, di 'Johnny', dedicata alla leggenda country degli anni 50 Johnny Horton, scomparso nel 1960 in un incidente stradale, investito da un ubriaco, e in 'Hands On You', tra Tom Petty e Bruce Springsteen, soprattutto. Tolte le due cover 'Pancho & Lefty', un classico di Townes Van Zandt che abbiamo sentito rifatto mille e una volta, qui con gli ospiti Elizabeth Cook, Cody Jinks e Paul Cauthen alle voci e la tromba di Brian Newman e una 'She Talks To Angels' dei Black Crowes in una versione totalmente bluegrass, altrove troviamo una buona gamma di tracce country rock. Rotolanti come l'autobiografico honky tonk d'apertura 'Stray Dogs', che sembra nascere là dove finiva 'I Want You" di Bob Dylan o ballate dall' umore nostalgico guidate da pedal steel ('Sparklin Burnin Fuse' 'The Raven & The Dove', 'Someone To You') e violini ('The Country', 'la sitaria' Off To War') accompagnate dalla stessa band che accompagna Dwight Yoakam in tour. 
Non sono sicuro che Tennessee Jet sia riuscito a dare nuova linfa al country rock come lui stesso sostiene, sicuramente il disco gira bene e senza cali di tensione. Fresco. Al giorno d'oggi sembra già una buona vittoria per non affogare dentro a cliché triti e ritriti.





venerdì 4 settembre 2020

RECENSIONE: ROSE CITY BAND (Summerlong)

ROSE CITY BAND
  Summerlong (Thrill Jockey, 2020) 





l'estate sta finendo
I Rose City Band nascono come puro divertimento, senza pretese, per riempire le pigre, a tratti noiose, serate infrasettimanali giù al locale sottocasa, ma con questa seconda uscita dal titolo Summerlong (ecco il disco colonna sonora per questa strana e folle estate) il progetto di Ripley Johnson, conosciuto per i suoi Moon Duo e i Wooden Shjips, rischia di diventare una cosa seria e compiuta, andando a tappare la fame di tutti gli orfani della scena country rock psichedelica che ha colorato la seconda metà degli anni sessanta. "Musica della mia giovinezza che è sempre stata con me e ha avuto un'enorme influenza su di me, su come penso alla musica" dice Johnson. 
Possiamo ascoltare gli originali, oppure mettere su questo sunto dei nostri giorni che sa di devoto omaggio ma che riesce a ritagliarsi anche un buon spazio di originalità, cosa rara quando si è di fronte a un periodo musicale irripetibile e non replicabile come quello. Echi di Grateful Dead (periodo American Beauty), Quicksilver Messenger, Byrds, Velvet Underground, CCR, The Band continuano a benedire queste otto canzoni per un viaggio della giusta durata di quaranta minuti che sa di gioiosa libertà creativa, dove il country imbastito di lap steel si espande nell'infinito cosmo di trame chitarristiche e linee melodiche tessute dalla fantasia compositiva di Johnson. Bastano pochi minuti per ritrovarsi a guidare nel paesaggio di copertina illuminati dalla 'Morning Light' e con una montagna davanti che ci pare la più dolce e sinuosa delle colline da accarezzare...Sveglia! Il lavoro vi aspetta!