sabato 12 settembre 2020

RECENSIONE: GRANT - LEE PHILLIPS (Lightning, Show Us Your Stuff)

 

GRANT - LEE PHILLIPS  Lightning, Show Us Your Stuff (Yep Roc Records, 2020)



"parlando con me stesso" 

Difficilmente Grant - Lee Phillips sbaglia un disco e questo, il decimo da solista, inizialmente potrebbe sembrare un primo passo falso. Ma è solo un grande abbaglio. Un po' come il fulmine che ha fatto pronunciare a sua figlia la frase diventata poi titolo del disco. Mostraci cosa sai fare. Forse tra le canzoni scorre meno impeto del solito ma no, è difficile poter dire che è un brutto disco, soprattutto dopo averlo ascoltato più volte. Assimilato. Grant -Lee Phillips sembra scegliere la ballata morbida, sfumata, tenue, come supporto alla sua ricerca tra le fragilità dell'esistenza. Un viaggio tra "le vite tranquille di persone che lottano per resistere, cercando di mantenere la dignità" dice. Lui è compreso lì dentro. Noi pure. Gran parte di noi. 

Canzoni riflessive che sembrano sbirciare più all'interno che all'esterno come invece faceva nel precedente Widdershins che si aggirava tra le brutture del mondo, quelle facili da indicare con il dito. Naturalmente è ancora pieno di gente che vede solo il dito. Confermano le sue parole: "se faccio un disco con un taglio più duro, la prossima volta voglio farne uno più morbido. Il disco che ho fatto prima di questo era davvero più un'espressione esteriore. Riguardava le cose che ci riguardano tutti nella piazza del paese. In questo album, sono andato dentro, ma sono disposto a portare tutti con me". Allora, solo due anni fa, sì chiedeva dove "stiamo andando?", qui sembra chiedersi "a che punto sono?".  Esclusa la battente 'Gather  Up', blues elettrico e trascinante con un crescendo nero e gospel venuta in dono pensando alla sua infanzia, tutte le canzoni viaggiano a mesta velocità seguendo i tasti di un pianoforte ('Mourning Dove', le immagini di 'Sometimes You Wake Up In Charleston' sono tra le più nitide, 'Coming To').  

Ci sono l'inconfondibile tocco di batteria di Jay Bellerose e il basso di Jennifer Condos ad accompagnare, lasciando ai fiati di Danny T. Levin il compito di soffiare ogni tanto sul fuoco (l'apertura 'Ain't Done Yet'  e l'altro up tempo ma nemmeno troppo), procedendo pigramente ('Straight To The Ground') e con la finale 'Walking In My Sleep' che si perde nell'infinità disegnata dalla pedal steel di Eric Heywood, e sembra un po'  riassumere il concetto base di un disco registrato in brevissimo tempo a Los Angeles, mantenendo tutto il calore della presa diretta con l'essenzialità della band: "parlando con me stesso, camminando nel mio sonno" canta in un'atmosfera riflessiva che si cala a perfezione in questi tempi incerti, costruiti su tante domande che attendono altrettante risposte.  

Intimo e rarefatto con il prezioso dono di creare immagini (scattate dalla sua mente) in cui identificarsi. Qui ci mette il cuore come sempre, lo si sente battere e camminare in ogni strofa, sicuro che dovunque ti porti la vita ci sarà sempre un'affetto ad accoglierti come canta in 'Leave A Light On', tra le migliori tracce del disco. La casa è un rifugio sicuro, un po' come lo sono diventati i dischi di Grant Lee Phillips.





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