JONATHAN JEREMIAH We Come Alive (PIAS, 2025)
sempre impeccabile
Ok. In musica non esiste competizione ma voglio dire la mia: Jonathan Jeremiah questa volta sembra aver fatto un pochino meglio dell'ultimo Michael Kiwanuka, autore del poco brillante (per me) Small Changes. I due pur con le dovute differenze sembrano giocare quello stesso campionato che li colloca come punte di diamante di quei nuovi folk singer britannici (ha comunque 43 anni) che amoreggiano con il soul.
Entrambi credo siano arrivati ad una svolta della loro carriera: un punto che necessita di una spinta per prendere o accogliere nuove direzioni nella loro musica. I loro ultimi dischi sembrano mandare questi segnali. Il prossimo sarà importante.
A tre anni dal precedente Horsepower For The Streets il cantautore londinese di padre anglo-indiano e madre irlandese conferma di essere un fuoriclasse che forse meriterebbe più attenzione. Voce calda, avvolgente e baritonale, composizioni che avvolgono e scaldano in un abbraccio orchestrale dal piglio cinematografico con tanto di archi, ottoni e cori femminili, e tutto l'amore per le colonne sonore dei film con il quale è cresciuto esce con spietato, a tratti drammatico, vigore.
Ai tempi del suo primo album Solitary Man nel 2011 lavorava come guardia giurata alla Wembley Arena, e come raccontato da lui stesso in una intervista molte cose sono cambiate da allora ad oggi: "potevo essere visto come un uomo solitario , mentre camminavo per i corridoi. Ma la vita cambia; suoni al Carré davanti a qualche migliaio di persone, e tutta la dinamica cambia". Oggi vive di musica e fa il pendolare tra le campagne del Somerset e il sempre vivace quartiere di East ad Amsterdam, sua seconda casa, luoghi dove ha scelto di registrare il disco.
Dentro alla sua musica ci mette tutti i suoi punti di riferimento musicali (Terry Callier, Bill Whithers, Nick Drake, Scott Walker, John Martin, Burt Bacharach, Ennio Morricone, Glen Campbell) e molto della sua esistenza e delle sue radici: le influenze indiane che caratterizzano canzoni come 'Kolkata Bear' (dove viene citata la nonna) o 'There's No Stopping Me', il piacevole folk di Love(r) e quella velata malinconia, resto di un periodo poco felice segnato dalla perdita del padre.
Dice: "in realtà, ho scritto il nuovo album come un singolo brano" e nella title track posta a metà disco con i suoi sei minuti sembra toccare il culmine della sua arte musicale, a cui l'assolo del trombettista Till Brönner, registrato in una sola take, regala lo zenit del disco. Un avvicinamento a territori jazz che potrebbe essere la freccia da seguire per il prossimo futuro.


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