lunedì 31 ottobre 2022

RECENSIONE: JOHN NORUM (Gone To Stay)

JOHN NORUM  Gone To Stay (Gain, 2022)


c'è vita fuori dalla band

Un talento mai troppo lodato. I dischi solisti di JOHN NORUM sono un riassunto della musica con la quale è cresciuto da ragazzo: in testa certamente i Thin Lizzy (spesso si cimenta in cover del gruppo irlandese), gli UFO targati Michael Schenker, Gary Moore, Frank Marino, i Deep Purple con Glenn Hughes in formazione e non è un caso che proprio "the voice" sia il cantante su tutto l'album Face The Truth (1990), infine i Black Sabbath. Una chitarra ispirata ma sempre al servizio della canzone. Se i primi dischi viaggiavano su un hard rock/metal cromato figlio degli anni ottanta, ricordiamoci che lasciò gli Europe all'apice del successo perché quella strada non era più la sua ("dopo il successo di "The Final Countdown" mi sono sentito come se fossi con i New Kids On The Block. Ma volevo essere un musicista" raccontò in una intervista) con il passare del tempo la sua chitarra si è fatta via via più pesante (l'ottimo Optimus del 2005) e blues (Play Yard Blues del 2010) tanto efficace da ridare nuovi stimoli e aprire nuove strade agli Europe mai così prolifici, duri e puri come dopo la reunion del 2004. Peccato che pochi lo sappiano.

Ora, anticipato da tre nuove canzoni uscite nel corso dell'anno, è uscito il nuovo album Gone To Stay a dodici anni dall'ultimo.

Ancora una volta Norum si conferma autore di vecchia scuola,  basti l'uno-due iniziale per capirlo: quando il suono di un carrilion lascia spazio a 'Voices Of Silence', hard blues in stile Whitesnaske mentre la successiva 'Sail On' (con il compagno di band Mic Michaeli alle tadtiere)  mette in mostra tutte le influenze Black Sabbath nei suoni e Soundgarden nel cantato, confermate anche dalle parole dello stesso Norum.

"Ero sdraiato sul divano in studio e non avevo idea di cosa fare con la voce. Avevo già registrato la musica e all'improvviso mi ha colpito: ho un'idea. Fammi entrare.' Non ho testi o altro, quindi ho appena borbottato qualcosa, ed è quello che è venuto fuori, e poi dopo, ho detto: mi ricorda davvero Cris Cornell. Ma non era intenzionale".

Un disco intenso e solido (suonato insieme a Peer Stappe alla batteria e Frederick Bergensstrahle al basso) che si fa veloce nei riff che dominano 'What Do You Want', funky nell'andamento che accompagna il rock blues della title track e misterioso nelle chitarre che costruiscono la melodia di  'Calling'.

Anche in questo album non manca un'ospite alla voce: in tre brani c'è Age Stein Nilsen cantante dei norvegesi Wig Wam. Nilsen canta nella ballata 'One By One', il brano più accessibile e radiofonico, nel quadrato hard rock molto Ac/Dc 'Terror Over Me' (a cui si aggiungono anche lo stesso Norum e Kelly Keeling) e nella aggressiva e heavy  'Norma' arricchita dalla Stockholm Philharmonic Orchestra. 

Infine due chicche del disco: la cover di 'Lady Grinning Soul' di David Bowie, in origine su Alladin Sane del 1973, e la finale  'Face The Truth', rilettura di un suo vecchio brano che da hard (c'era la voce di Hughes) si fa jazzato.

Ancora una volta John Norum non  delude le aspettative di chi da lui si aspetta del buon hard rock heavy alla vecchia maniera. "Quello che oggi chiamano Classic Rock o Classic Hardrock è ed è sempre stato il mio genere". 





mercoledì 26 ottobre 2022

THE AFGHAN WHIGS live@Santeria, Milano, 25 Ottobre 2022


Gli Afghan Whigs di Greg Dulli sono uno di quei rari esempi di band che dopo la reunion hanno mantenuto lo stesso peso specifico degli anni d'oro. Basta scorrere la scaletta: ben quattordici brani sono estrapolati dagli ultimi tre dischi post reunion. (In Spades rimane il mio preferito). Tanti: non si vive solo aggrappati al passato, benché canzoni come la triade 'What Jail Is Like', 'Gentlemen' e 'Fountain And Fairfax' estrapolate da Gentlemen, disco prossimo ai trent'anni, stasera sono state accolte con entusiasmo. Ci mancherebbe! Che il presente sia importante lo si capisce subito dall'uno due iniziale: 'Jyja' e 'I'll Make  You See God'  (una botta stoner ) dall'ultimo e ancora fresco How Do You Burn? hanno la forza e il potere di stendere e mettere subito in chiaro le cose. Da qui in avanti sarà tutto in discesa con Greg Dulli, presenza sempre "importante", in grande forma vocale (lo disturbano solo i flash "fate tutte le foto che volete ma senza") la chitarra del "Blind Melon" Christopher Thorn sempre ficcante e ispiratissima, il rullo compressore di Patrick Keeler alla batteria, la fedele compostezza unita alla solidità di John Curley al basso e la preziosa presenza di Rick G.Nelson terza chitarra, violino e pianoforte all'occorrenza. 

Gli Afghan Whigs dal vivo non deludono mai e il concerto non ha soste e per intensità ha pochi eguali sulla piazza tra le band loro coetanee. Una botta di adrenalina che spezza la settimana e carica per ciò che resta.

Piace anche la sana voglia di giocare con la musica, calandosi nella mischia della storia da fan del rock'n'roll. Ecco così arrivare omaggi a Bo Diddley ('Who Do You Love?'), Rolling Stones ('Angie'),  una 'Heaven on Their Minds' da Jesus Christ Superstar di Andrew Lloyd Webber  e  l'ntensa e palpabile 'There Is a Light That Never Goes Out' degli Smiths degna conclusione (senza bis, uscite e rientri) di una serata  dove  il loro  'wall of sound" è stato composto e distrutto all'occorrenza seguendo intensità , luci e ombre dei testi scritti da Dulli. Dove  chitarre  ciniche e spietate hanno amoreggiato con  il calore soul. Ipnotici, compatti, cupi ed esaltanti, romantici e spietati come la migliore delle vite. Tutto in una sola serata d'amore.




setlist:

Jyja

I'll Make You See God

Matamoros

Light as a Feather

Oriole

Toy Automatic

Gentlemen

What Jail Is Like

Who Do You Love?(Bo Diddley)

Fountain and Fairfax

Angie (The Rolling Stones)

Algiers

Catch a Colt

I Am Fire

Heaven on Their Minds (Andrew Lloyd Webber)

Somethin' Hot

Please, Baby, Please

It Kills

Demon In Profile

A Line of Shots

John the Baptist

Summer's Kiss

Into the Floor

There Is a Light That Never Goes Out (The Smiths)



sabato 22 ottobre 2022

RECENSIONE: THE CULT (Under The Midnight Sun)

THE CULT   Under The Midnight Sun  (Black Hill, 2022)



visioni a mezzanotte

Ho questa scena estrapolata da A Year and a Half in the Life of Metallica, il documentario sulla realizzazione del Black Album dei Metallica: la band e il produttore Bob Rock sono in studio di registrazione quando iniziano a bersagliare con le freccette un poster dei Cult, periodo Sonic Temple, scimmiottando la voce di Ian Astbury. A parte il legame tra Bob Rock e la band britannica , non ho mai capito quello sberleffo. Sarà perché a me la voce di Astbury, quel caratteristico modo di cantare, ha sempre dato sicurezza e calore. Ancor di più oggi con un disco che sembra giocare più di sfumature che di spigolosita rock'n'roll. Under The Midnight Sun è un album che non fa dell'immediatezza la sua forza ma gioca di contrasti e esce alla distanza. No, un ascolto superficiale non basterà per farvelo piacere. Bisognerà insistere se ne avrete voglia. Anche se non garantisco il risultato. A me nella finale title track, numero acustico con crescendo d'archi che nella sua profondità può ricordare da vicino qualcosa di Mark Lanegan, ascoltata in cuffia in una nebbiosa mattinata autunnale è venuta la pelle d'oca ad esempio.

Ammaliante, visionario e pieno di ombre come solo un sole a mezzanotte nelle regioni polari. Cosa realmente vissuta dal gruppo a un festival a Provinssirock in Finlandia a metà anni ottanta, ispirazione per questi soli ma intensi 35 minuti (otto canzoni) che Astbury ha cercato di raccontare con la profondità e lo spiritualismo che lo hanno sempre contraddistinto.

"La gente è sdraiata sull'erba, pomiciando, bevendo , fumando. C'erano file di fiori nella parte anteriore del palco delle esibizioni, quella sera. È stato un momento incredibile

C'è un ritorno a certe sonorità eighties (il disco è stato registrato anche negli Rockfield Studios in Galles dove fu registrato Dreamland) con l'aiuto del produttore Tom Dalgety, con la chitarra di Billy Duffy che si inventa riff suggestivi e seducenti, assoli e riverberi certamente più vicini alla new wave dei primissimi album (Dreamtime, Love) piuttosto che all'hard rock di fine anni ottanta (Electric, Sonic Temple). 

"Stavamo cercando un suono più contemporaneo, meno rock n' roll. Meno blues rock. Penso che l'abbiamo raggiunto. Direi che è più un disco dal suono europeo" ha raccontato recentemente Billy Duffy.

Trantacinque minuti da prendere in blocco, senza pause: oscuri ('Mirror'), malinconici (il singolo 'Give Me Mercy'), psichedelici (gli archi di 'Outer Heaven'), darkeggianti 'Vendetta X'. Canzoni come 'A Cut Inside' e 'Impermanence' invece racchiudono bene le due anime della band, quella degli esordi con quella più hard di metà carriera. La bossanova iniziale di 'Knife Through Butterfly Heart' che cresce fino ad esplodere all'assolo di Duffy e alla lunga coda strumentale è certamente tra i vertici del disco.

Manca forse l'inno rock, la canzone da ricordare e associare al disco, forse pure la produzione a volte grida vendetta, ma poco importa.

I Cult, completati su disco dal batterista Ian Matthews, il tastierista  Damon Fox, il bassista Charlie Jones e dallo stesso produttore Tom Dalgety anche seconda chitarra, suonano compatti e uniti.

A mio parere i Cult non hanno mai inciso dischi realmente brutti. Per anni hanno cavalcato le mode musicali mettendovi sempre la loro inconfondibile impronta. Ora che le mode musicali non esistono più possono ritornare al loro passato, saccheggiarlo e riproporcelo con tutta la maturità di quarant'anni di carriera alla spalle.






domenica 16 ottobre 2022

THE BLACK CROWES live@Alcatraz, Milano, 13 Ottobre 2002

No, Rich Robinson non sorride mai. Lo posso confermare dopo averlo visto davanti a me a pochi metri per un'ora e mezza. Qualche smorfia e qualche occhiata al tecnico del suono. Basta. Nemmeno dopo aver ricevuto i bisbigliati complimenti e una pacca sulla spalla del fratello Chris che gli ha lasciato il microfono per una versione di Oh! Sweet Nuthin dei Velvet Underground che si piazza certamente tra i vertici della serata. Niente. Imperturbabile. A mosse, passi di danza, sorrisi e ammiccamenti ci pensa quindi Chris Robinson, in buona forma e reduce da un non ancora svelato malanno che due giorni fa ha fatto saltare la data di Amburgo poche ore prima dell'evento. Mistero: attendiamo ancora il comunicato ufficiale che mai arriverà.


C'era quindi timore per la data milanese. Timore spazzato via immediatamente dall'inconfondibile schitarrata che mette a tacere James Brown (non si dovrebbe mai fare in effetti) e da inizio a Twice As Hard. 

Devo confessare che i concerti celebrativi per un album mi piacciono poco, tolgono un po' di sorpresa e phatos alla serata. Sai già quel che arriva e quando arriva. Se però quel che arriva si chiamano Seeing Things (altro punto altissimo del concerto) e Thick 'n Thin, che mettono in mostra le due anime della band, allora lo si accetta di buon grado e poi Shake Your Money Maker è un disco perfetto dall'inizio alla fine. Un debutto che pochi possono vantare. Anche se poi il meglio la band l'ha dato nei dischi successivi. Di quel che è venuto dopo però stasera c'è solo un piccolo assaggio: Thorn In My Pride e Remedy da The Southern Harmony and Musical Companion e Wiser Time da Amorica, una inaspettata e divertita Soul Singing (qui si balla come su Hard To Handle) che Chris Robinson deve aver inserito all'ultimo momento visto che prima di suonarla va a parlare in un orecchio a tutti i musicisti e una Good Morning Captain da Before The Frost...Until The Breeze posta in chiusura come bis, in verità poco generoso. Però potrebbe essere un segno di continuità per il futuro...chissà?

Una batteria troppo invadente (certo Steve Gorman manca tanto) e suoni a volumi troppo elevati, chissà forse per compiacere Isaiah Mitchell, seconda chitarra, già abituato negli Earthless, tolgono un po' di fascino alla componente soul del gruppo, rinforzata da due coriste che spesso sono inghiottite dal tutto. Un peccato.


Una parola per gli olandesi DeWolff è d'obbligo. Concerto di apertura sontuoso il loro, tanto che io sarei già andato a casa dopo i loro 45 minuti di hard blues che si fanno bastare un Hammond, una batteria e una chitarra. Da rivedere assolutamente se capiterà.

Sì, l'unica nota negativa se la becca autostrade italiane che mi chiude tutte uscite verso casa: a Milano trovare l'imbocco per Torino è impossibile (di notte c'è chi lavora) e io insieme a tanti giriamo in una gimcana per una buona mezz'ora. In A4 anche la chiusura dell'uscita Carisio mi costringe ad attraversare le risaie vercellesi nel buio più pesto. Solo l'adrenalina post concerto mi è stata d'aiuto. Potere salvifico della musica.



setlist

Twice As Hard

Jealous Again                                             

Sister Luck

Could I've Been So Blind

Seeing Things

Hard To Handle

Thick 'n Thin

She Talks To Angels

Struttin Blues

Stare It Cold

Soul Singing

Oh! Sweet Nothin'

Wiser Time

Thorn In My Pride

Remedy

Good Morning Captain





venerdì 7 ottobre 2022

RECENSIONE: BUDDY GUY (The Blues Don't Lie)

BUDDY GUY - The Blues Don't Lie (2022)



last (blues)man standing

Quando le leggende decidono di scendere in campo, bisogna togliersi di mezzo e lasciar loro spazio. Il blues è vivo e in buona forma, ce lo diceva solo quattro anni fa dopo l'uscita di The Blues Is Alive And Well.

Oggi gli anni sono 86 e Buddy Guy, una delle ultime leggende del blues di Chicago (l'ultima?) è ancora in forma smagliante: le date fissate dei suoi tour, la sua musica, la sua voce, il suo bel faccione sorridente in copertina, la sua chitarra a pois parlano chiaro. Chiarissimo: il blues non mente. Fedele a una promessa fatta a sé stesso e ai tanti amici già persi per strada "lo prometto fino al giorno della mia morte, terrò in vita il blues" e questo nuovo album è l'ennesima autobiografia di un uomo che 60 anni fa lasciò i campi della Louisiana per cercare il suo sogno in città. Lo ha acciuffato quel sogno e che lo stia ancora vivendo in pieno lo si capisce appena parte 'I Let My Guitar Do The Talking' che  attacca al muro qualunque aspirante bluesman che tenti di scalzarlo dal trono. Sontuoso. 

In mezzo a blues più malinconici con la chitarra che piange alla ricerca disperata d'amore ('The World Needs Love', 'Sweet Thing') o il pianoforte della jazzata 'Rabbit Blood', c'è ancora molto  fuoco che arde ('Well Enough Alone', 'Back Door Scratchin').

E poi ecco apparire alcuni ospiti di spicco come la tradizione degli ultimi dischi, prodotti dal fedelissimo Tom Hambridge, vuole: una meravigliosa Mavis Staples che duetta tornando indietro ai sixties in 'We Go Back', Elvis Costello che ringhia nella minacciosa 'Symptoms Of Love', James Taylor in 'Follow The Money', Jason Isbell nel soul 'Gunsmoke Blues', una presa di posizione convinta contro le armi da fuoco, l'ottantottenne Bobby Rush nel funky 'What's Wrong With That', la cantante Wendy Moten nel classico blues di 'House Party'.

Un disco come sempre per nulla nostalgico o fermo al passato come natura di Buddy Guy.

"Ne parlavamo con Muddy Waters, Howlin' Wolf, Little Walter e tutti quei ragazzi. Allora erano ancora in salute, e parlavamo di questo giorno, 'chi sarebbe rimasto... per favore, non lasci che il blues muoia".

Ancora una volta la promessa è mantenuta.





sabato 1 ottobre 2022

RECENSIONE: SUPERDOWNHOME (Blues Pyromaniacs)

 

SUPERDOWNHOME   Blues Pyromaniacs (Dixiefrog, 2022)


Quante band italiane oggi possono vantare collaborazioni con gente come Popa Chubby, Charlie Musselwhite, i Nine Below Zero, e poi ancora Mike Zito, Bombino, Andy J. Forrest e Anders Osborne come avviene in questo ultimo disco? Io posso considerarmi  pure un privilegiato per aver assistito da vicino alla crescita esponenziale del duo bresciano formato da Enrico Sauda (voce e chitarre) e Beppe Facchetti (batteria), partito veramente dal basso per trovarsi oggi a guidare la fila del rock blues moderno europeo. 

Dai piccoli circoli che i due però continuano a frequentare assiduamente, tenendo saldamento unito il legame con il passato, ai grandi club e festival europei il passo è stato relativamente breve ma cercato con convinzione e dedizione. Un successo meritato e perseguito con ammirevole devozione, le conoscenze giuste, anche un po' di fortuna chissà (ma si sa, bisogna far combaciare tutto per bene per arrivare al top) tanto più che  non  parliamo di ventenni in erba ma di musicisti con già una certa esperienza alle spalle.

E questo Blues Pyromaniacs  assume un significato importante per come è nato, è stato registrato e come è progredito nel lungo tempo di gestazione. Tutte cose che loro  raccontano bene nei dodici minuti del video documentario che si può trovare in rete. Sì insomma, un disco registrato negli States con Anders Osborne (un fuoriclasse visto recentemente in Italia al Buscadero Day) in cabina di regia e un'esperienza  che loro stessi denominano "magnifico disastro, disastrosa meraviglia" per via delle tante vicissitudini che hanno dovuto attraversare per vedere l'album fatto e finito oggi. 

Tutto nasce nel Gennaio del 2020 quando il duo, forte di tre album in progressiva crescita artistica (e un paio di raccolte tattiche), parte per Memphis per presenziare all'IBC (International Blues Challenge). Durante il viaggio si presentano occasioni ghiotte per aumentare esperienza, auto stima e programmare il futuro. Prima il Cigar Box  Festival a New Orleans messo in piedi da Samantha Fish e poi l'ncontro con Anders Osborne a New Orleans grazie all'intercedere del manager Giancarlo Trenti. Al musicista svedese da anni di casa negli States gli si chiede l'impossibile: lui accetta di produrre il disco. Prende forma qui Blues Pyromaniacs, tra gli Esplanade Studio e lo Studio mobile a casa di Osborne. In pochi giorni vengono affinate nuove canzoni, aggiunte parti e strumenti. Il disco viene pure missato ai Dockside Studio in Lousiana. 

Sembrava veramente tutto bello, tutto troppo perfetto. Tutto facile. Un american dream concretizzato in poco tempo. Arriva l'imprevisto. Un grande imprevisto, totalmente inaspettato. È la pandemia a bloccare sogni e più o meno tutto il mondo. Ma anche il "tempo perso" del lockdown viene sfruttato per rimettere mano alle canzoni e cercare nuovi contatti. Arriviamo ai giorni nostri con in mano un prestigioso contratto con l'etichetta francese Dixiefrog e ben due versioni dello stesso disco. Quello americano "nudo e crudo" con il trattamento di Osborne che uscirà più avanti (fine Ottobre) in formato vinile e questo, forte di nuovi mix, nuovi ospiti, nuove canzoni aggiunte e la presenza di Brian Lucey (già al lavoro con i Black Keys) al missaggio.

È un disco che alza notevolmente l'asticella della loro musica: rimane la loro idea di rural blues 2.0 tutto batteria e chitarre (le tante rudimentali e artigianali suonate da Sauda) ma che spesso si indirizza verso nuove strade, meno grezze e impervie, a volte molto più melodiche. Nuovi orizzonti sonori si aprono immediatamente dopo la sventagliata blues dell'iniziale 'Utter Daze': dall'inaspettato soul gospel di 'Living Disgrace', al fascino tutto americano e da radio FM di 'Motorway Son', arricchita dai fiati e dall'ospite Mike Zito (presente anche nella distorta e già conosciuta 'I'm Broke'). Dalle atmosfere desertiche e polverose portate in dote dalla chitarra "sahariana" di  Bombino in 'Like A Rag In The Sea' alle atmosfere lente e stonate della narcotica 'A Wandering Wino', che a me pare la loro 'Planet Caravan' di sabbathiana memoria. Ma si muove spesso anche il culo seguenfo il groove grazie agli  up-tempo 'Nobody's Twist', il blues rockabilly di 'Ambition Craze' dai sentori vagamente psichedelici, con il boogie 'Disaster Noon' e con il twist bluesy 'My Girl C'Est Bon'.

Più due cover suonate alla loro maniera: 'New York City' di John Lennon e 'Don't Bring Me Down' degli Electric Light Orchestra.

Un disco che visti i personaggi coinvolti per qualcuno potrebbe essere un traguardo ma sono certo che per Beppe Facchetti e Henry Sauda sarà un nuovo stimolo in futuro per alzare di un'altra tacca l'asticella della loro musica e fare ancora meglio. Nuovamente.




RECENSIONE: SUPERDOWNHOME - Twenty Four Days (2017)

RECENSIONE: SUPERDOWNHOME - Get My Demons Straight (2019)