lunedì 10 ottobre 2011

RECENSIONE: JOHNNY WINTER (Roots)

JOHHNY WINTER Roots (Megaforce/Sony, 2011)

Non fosse per le rughe che segnano il percorso della sua vita, poche cose sono cambiate nell'aspetto fisico di Johnny Winter, dal 1969, anno del suo basilare debutto omonimo ad oggi( magie o scherzi dell'albinismo?). Il fisico è sempre asciutto, pelle bianchissima macchiata come pelo di leopardo dai suoi tatuaggi, ossa sporgenti, lunghi e fini capelli lisci che fuoriescono dal capellaccio calato in testa e chitarra in mano mimetizzata come un prolungamento del suo esile corpo. Vincitore di tante battaglie importanti nella vita che comunque ne hanno influenzato la salute, a 67 anni continua a prodigarsi nell' insegnare il verbo del blues bianco.
Mancava su disco dal 2004, anno di "I'm A Bluesman" (negli ultimi anni presente sul mercato solamente con numerosi live) e questo suo ritorno, sulla spinta ed incoraggiamento conto terzi, è una celebrazione totale del genere che lui stesso contribuì a svecchiare, tanto da convincere, nel 1977, un padre putativo come Muddy Waters ad incidere con lui. Lo produsse e contribuirono insieme a rilucidare il blues con l'album Hard Again. La carriera di Waters, in netto calo negli anni settanta, riprese a correre e finirono per influenzare più di un chitarrista a venire.
Blues e chitarre , questi gli ingredienti di sempre che Winter ha scelto per questo ritorno: grandi canzoni della gioventù che lo hanno fatto crescere, ascoltate alla radio quando era un dodicenne, ed importanti ospiti ad aiutarlo. Poche celebrazioni come nel suo stile e tanta musica. Da una parte la sua voce, la sua chitarra e la sua band: Paul Nelson (anche produttore del lavoro) alla chitarra, Scott Spray al basso e Vito Liuzzi alla batteria, dall'altra parte undici classici senza tempo ed una schiera di ospiti di tutto rispetto.
Mi piace partire dalla strumentale Honk Tonk, un classico suonato con il fratello Edgar al sax: immaginarli ancora ragazzi, sopra ad un palco nei clubs texani, mentre riscaldano il pubblico con i sogni già proiettati nel futuro.I due fratelli rifanno un pezzo che li ha visti crescere insieme, sugellando l'infinito amore verso la musica e quel sogno che si è avverato.
Cosa dire quando la coppia dell'anno Tedeschi/Trucks si separa momentaneamente: la slide di Dereck Trucks (Allman Brothers Band) che si unisce a Winter in una infuocata versione di Dust my broom-quando tutto ebbe un inizio con Robert Johnson ed un proseguo con Elmore James-e la voce di Susan Tedeschi si affianca a quella di Winter in Bright lights big city di Jimmy Reed. Due matrimoni pienamente riusciti.
Quando il blues inventa il rock'n'roll : Maybelline di Chuck Berry suonata insieme al tocco country di Vince Gill.
La continuità della tradizione di Elmore James in Done Somebody Wrong suonata con Warren Haynes (Allman Brothers Band, Gov't Mule), il discepolo che più di ogni altro ha regnato nell'ultimo decennio.
T-Bone Shuffle di T-Bone walker con Sonny Landreth apre il disco con canonico fervore accendendo la fiamma che scalderà tutto il disco e vedrà ancora Jimmy Vivino, John Popper (Blues Traveler) e il tastierista jazz John Medesky unirsi a Winter che anche da solo, senza ospiti, con Got my Mojo workin' del vecchio amico Muddy Waters fa saltare e tenere il tempo mentre le sacre fiamme si propagano.
Un disco che non è la solita (auto)celebrazione di routine ma un vibrante, sentito e fresco omaggio di un vero bluesman, con tante chitarre riunite in una sola passione. Eroi omaggiati da un eroe. Poco altro da chiedere.

3 commenti:

  1. Salve!
    Ho gradito molto la sua recensione che girerò molto presto su un forum di cui si dibatte di musica. Vero, fino a quando ci saranno gli uomini giusti a suonare ancora il vero BLUES questa musica non scomparirà mai!

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  2. stupisce non veder menzionata la migliore track del disco, che vede uno dei migliori a-solo di armonica degli ultimi anni. John Popper. Ricordiamo questo nome.

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  3. ops...è la 5: Last Night. Play loud.

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