JOE HENRY Reverie ( ANTI Records, 2011)
Camminando velocemente, cercando di seminare il freddo pungente di Gennaio, lasciandolo alle spalle. All'interno di quella grande gigantografia in bianco e nero appesa al muro che fotografa le vie secondarie di quella grande città: dove i tombini sbuffano e la sottile patina di ghiaccio si sta sciogliendo lentamente nelle tarde ore della mattinata. I lampioni sono ancora accesi dalla notte prima e il sole timidamente cerca di pugnalare la nebbia. Il terzo caffè, puro esercizio di riscaldamento, è andato giù veloce quando dalle finestre aperte di uno scantinato si materializza della musica. Lo scambio di parti fa fuoriuscire la musica dalla finestra, mentre i rumori della strada entrano nella stanza insonorizzata dove un piano, una chitarra, un contrabbasso e una batteria suonano coesi. Musica e rumori si uniscono, diventano una cosa sola. La curiosità di sbirciare dalla finestra è tanta, la voglia di entrare diventa ossessiva dopo aver capito che dentro quello scantinato si produce romanticismo e calore che possono cambiarti la giornata o come minimo riscaldare un'ora della fredda quotidianità. Antichi sapori che cercavi da tempo, dimenticando dove li avevi incontrati l'ultima volta.
Joe Henry ha voglia di acustico, di fermare il tempo della vita che scorre lungo 14 canzoni dal sapore di antica pellicola in bianco e nero, colorata solamente dal rosso sangue che vi scorre dentro (sue testuali parole). Lo fa, ci riesce e ci dona canzoni jazzate nello spirito dove i tasti del pianoforte rimbombano forte, i tocchi delle bacchette e le rullate di batteria di Jay Bellerose sono protagonisti (Heaven's Escape) come il respiro che ci tiene in vita. Si uniscono gli stridori delle corde di una chitarra durante Odetta, un titolo, un programma.
Un timido cane ulula in lontananza e il gospel soul di Sticks and stones è un perfetto rifugio su cui contare. Grand Street sembra giocare con un tempo di valzer e con l'improvvisazione dei musicisti coinvolti (Kefefus Ciancia al piano e David Piltch al contrabbasso) e Joe Henry intrattenere come consumato crooner, anche quando duetta con la sua pupilla Lisa Hannigan in Piano Furnace.
Un'altro ospite ha bussato alla porta: è Marc Ribot. Porta con se la chitarra. Si unisce. Dalla finestra escono fuori Dark Tears e Tomorrow is October. Il cane continua il suo stanco esercizio di insofferenza, mentre Ribot impugna l'ukulele ed esce Deathbed Versions.
Il ghiaccio è rotto e Joe Henry con la sua band corrono via lisci, tra folk ( Room at Arles) e jazz appassionati ( Eyes out for you), non importa se chi passa vicino alla finestra dello scantinato possa sentire tutto, impossessati dal fuoco della musica si continua. E' il dodicesimo album del cinquantenne cantautore/produttore, ma la voglia di mettersi alla prova è tanta, soprattutto con un prodotto che elogia l'essenzialità.
Gioca con l'acustica degli strumenti e con l'evocazione delle parole, intente a scardinare il trascorrere del tempo con dimenticata e calorosa vena romantica. Joe Henry, dall'alto dei tanti premi vinti in carriera, anche quando si affida al classico non smette di sperimentare con la musica, in totale continuità con le sue passate esperienze. Qui toglie per arricchire. Anche se è ancora presto e banale, Reverie si presta bene a chi vive ancora la nascita del Salvatore come una festa da passare nel tepore rassicurante delle mura domestiche, a patto di ricordarsi di lasciare aperta una finestra. I rumori devono entrare.
un grande. caldo e sofisticato come pochi
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