sabato 28 ottobre 2023

RECENSIONE: RIVAL SONS (Lightbringer)

RIVAL SONS  Lightbringer (A Low Country Sound/Atlantic, 2023)




doppietta

Uscire con un nuovo disco lo stesso giorno dei Rolling Stones non è cosa facile per nessuno. I titoli da prima pagina saranno per la prossima volta. I RIVAL SONS, in verità, con Lightbringer, prodotto ancora una volta da Dave Cobb, vanno a completare la loro opera omnia di questo 2023 che li ha visti già protagonisti a Giugno con la prima parte Darkfighter. Complesso di canzoni nate e registrate nello stesso periodo ma divise in due, un concept sull'oscurità di questi ultimi tempi che poteva diventare un disco doppio ma si è optato per due uscite a distanza. "C'era troppa musica per un solo disco. Non appena ho presentato l’idea di dividerlo a Jay (Buchanan), gli è piaciuta moltissimo” racconta il chitarrista Scott Holiday.

Là regnava una certa rassegnazione, qui l'umore sembra più disteso e ottimista. Dove c'era il buio ora si intravede un barlume di luce. La redenzione ('Redemption').

Ormai non hanno più bisogno di troppe conferme e possono permettersi di aprire l'album con i ben nove minuti di Darkfighter, cangiante canzone che fa da ponte con il precedente album (che portava quel titolo) ne riassume le caratteristiche che esplodono nella loro parte più selvaggia e hard in altre canzoni come la tirata 'Sweet Life' e nella parte più distesa nella finale 'Mosaic'.

"Darkfighter segna una nuova era dei Rival Sons e Lightbringer è la chiara definizione di ciò che siamo ora. Con Darkfighter abbiamo aperto un varco, ma Lightbringer è un passo avanti rispetto alla nostra innovazione ed esplorazione personale. Si spinge un po’ più in là. Abbiamo davvero preso tutto nelle nostre mani e ci siamo spinti fino a dove potevamo arrivare" così parla Jay Buchanan.

La calma che tocca il folk bucolico, le esplosioni hard, gli allunghi di tastiere che fanno immaginare la lontana stagione progressive, tutto segni distintivi del loro approccio musicale mai stantio, dove il passato seventies ben si incastra con il presente ('Before The Fire').

Jay Buchanan rimane lo strepitoso cantante di sempre, graffiante ma anche pregno di calore soul, Scott Holiday un chitarrista che tra riff di elettrica, slide e arpeggi acustici sa il fatto suo. Sicuramente tra i migliori della sua generazione e da tenere in considerazione.

 A proposito di Stones, in questi giorni Mick Jagger ha dichiarato: "i Maneskin sono oggi la più grande rock band al mondo. Stupisce che sia un gruppo italiano». Beh per me una delle più grandi rock band di classic rock di oggi proviene da Long Beach, California, ha ormai una carriera lunga 14 anni sul groppone e otto dischi in bacheca. Per i miscredenti l'appuntamento è all'Alcatraz di Milano, domenica 29 Ottobre.






martedì 17 ottobre 2023

RECENSIONE: THE RECORD COMPANY (The 4th Album)

 

THE RECORD COMPANY  The 4th Album (Round Hill Records, 2023)





ritorno alla partenza


Che i Record Company avessero le strade spianate per ottenere un buon successo lo si capì fin  da subito. Nati a Los Angeles facendo bisboccia in un pub intorno a un disco epocale come Hooker 'N Heat che girava, prima ancora dell'uscita del loro esordio Give It BackTo You (2016), la loro canzone 'Off The Ground' fu scelta dalla birra Miller Lite per uno spot pubblicitario.  La fama accresce velocemente e si trovano a suonare come spalla di Buddy Guy, B.B.King, Social Distortion, Bob Seger, Blackberry Smoke. Quando esce il debutto che in copertina li ritraeva on stage, loro habitat naturale, i consensi furono unanimi e il disco finì in nomination per i Grammy . Il successore All Of This Life (2018) batte le stesse strade di quel blues che scavava nel passato ma con costanti proiezioni nel presente che ne garantivano una rara dote di freschezza. Poi con il terzo disco Play Loud (2021) fecero il classico passo più lungo della gamba: si aprirono a suoni più commerciali, patinati e moderni che snaturarono il loro sound primordiale. La loro casa discografica, la Universal, li abbandonò.

"È stato difficile da digerire, perché avevamo già deciso di scrivere il disco più essenziale e grezzo che avessimo fatto negli ultimi anni, e avevano dei demo di questa nuova musica. Combinando tutto questo con alcune nuove realtà economiche, un tour cancellato, ci siamo sentiti davvero come se tutto stesse crollando all’improvviso” racconta il bassista Alex Stiff.

Sono passati due anni  e la band di Chris Vos (voce, chitarre e armonica), Alex Stiff (basso) e Marc Cazorla (batteria) decide di tornare all'umiltà delle origini: mettono la produzione nelle mani delli stesso Stiff, cambiano casa discografica e ritornano veramente al suono semplice e primordiale del blues, senza troppe sovrastrutture: chitarre, voce, armonica, basso e batteria.Una scelta che paga sempre. 

 “Un tema comune in questo disco era mantenere il suono grezzo e un ritorno alle origini. Con Talk To Me abbiamo utilizzato la stessa batteria scadente ascoltata nelle nostre prime registrazioni".

Così tra rock blues movimentati e caricati a groove come 'I'm Working' e l'apertura 'Dance On Mondays' ("mi riprendo la mia vita e non ballerò per nessuno" è il suo significato), rock’n’roll blues guidati dall'armonica  ('I Found Heaven'), rockabilly ('Roll With It') e momenti acustici come l'inno On the road 'Highway Lady' e la finale 'You Made A Mistake', un blues che sa di antico, i Record Company dimostrano quanto la semplicità sia sempre il miglior antidoto per riprendersi in mano la carriera.





sabato 7 ottobre 2023

RECENSIONE: GRAVEYARD (6)

 

GRAVEYARD  6 (Nuclear Blast, 2023)




facciamolo diverso

Un sabato notte, siamo quasi a fine concerto dei Graveyard al Bloom di Mezzago: i quattro svedesi salutano e si dileguano nel backstage. Le luci del locale non si accendono. È chiaro: c’è tempo per altre canzoni. Saranno poi tre. Davanti al palco due fan (ma chiamiamoli pure coglioni) che durante il concerto non hanno fatto altro che farsi i cazzi loro (ma a questi individui il biglietto chi lo paga?) parlando a voce alta e facendo spola tra la sala e il bar con birre medie in mano, approfittando dell’assenza della band decidono di raccattare tutti i plettri (quattro o cinque) che il bassista Truls Mörck aveva comunemente infilato nell’asta del microfono. Quando i Graveyard rientrano per i bis, dopo due minuti di canzone, il bassista fa due passi in avanti, allunga la mano verso il microfono cercando i plettri con le dita, abbassa lo sguardo e non ne trova più nemmeno uno. Sorpreso e corrucciato, indietreggia cercandone altri sopra gli ampli. Non li troverà e finirà il concerto senza plettri. A questa scena i due coglioni (non sono dei fan ho deciso!) se la ridono con i loro miseri feticci nelle tasche, lì mischiati a chiavi, chewing gum e ai loro cervelli…

Si concluse così il concerto dei Graveyard al Bloom di Mezzago nell'ottobre del 2018, concerto che portava in giro il loro ultimo album Peace, uscito pochi mesi prima, un disco che ne sanciva il ritorno dopo pochi mesi bui, durante i quali decisero addirittura di sciogliersi. 

Sono trascorsi cinque anni da allora e gli svedesi provenienti dall'isola di Hisingen, quartiere operaio di Goteborg,  ritornano con 6 (il numero dei loro dischi naturalmente), un disco che testimonia, se ancora ce ne fosse bisogno, di come la band abbia ragione di esistere. Rispetto al precedente e ruspante Peace che guardava all'hard blues queste nuove nove tracce circondate da un progetto grafico molto vintage, portano il suono verso un'aurea intimista e psichedelica di stampo seventies, viaggiando leggere più in cielo che in terra.

Fin dall'apertura 'Godnatt', liquida e lisergica quanto basta per tarare il mood dell'intero album. A farle  compagnia le impronte desertiche lasciate su 'Breathe In Breathe Out' con i cori femminili che allungano sul gospel, la malinconia di una 'Sad Song' che nel titolo ha già tutto, la psichedelia di 'Bright Lights' fino alla lenta calata della finale 'Rampant Fields', blues notturno e fumoso.

Le chitarre di  Joakim Nilsson (anche voce) e Jonatan La Rocca Ramm giocano spesso di fino ma sanno anche ritornare all'antico dando un tiro hard zeppeliano a 'Twice', suonando  blues nel crescendo di 'No Way Out', nello sviluppo alla Doors del  rock’n’roll di 'I Follow You' incastonato tra inquietanti trame bluesy folk, nella cavalcata 'Just A Drop' che si guadagna il titolo di canzone più heavy del disco.

Un disco "diverso" che va ad arricchire la loro discografia e che li conferma come una delle migliori band europee degli ultimi anni nelle latitudini seventies che non passeranno mai si moda.