martedì 30 marzo 2021

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Young Shakespeare)

NEIL YOUNG   Young Shakespeare (Reprise Records, 1971/2021)



same old song (but I like it) 

I concerti al Cellar Door di Washington DC, quello al Massey Hall di Toronto e ora questo allo Shakespeare Theatre di Stratford, nel Connecticut, sono solo tre delle sei date suonate a pochi giorni l'una dall'altra tra la fine del 1970 e i primi giorni del 1971 con un Neil Young non in grandissima forma fisica che forse avrebbe voluto tenere tra le mani una chitarra elettrica e avere i Crazy Horse dietro, ma che invece si ritrova solo, seduto su una sedia al centro di piccoli palchi con una chitarra acustica e un pianoforte (durante il concerto scherzerà pure sulle sue capacità allo strumento). 

Dietro ha comunque  un anno straordinario come il 1970 che lo ha visto protagonista prima con Deja Vu insieme a Crosby, Stills e Nash, davanti un futuro che se non è ancora scritto è però già imbastito a dovere da canzoni presentate per la prima volta in pubblico. Ecco 'Old Man', 'The Needle And The Damage Done', uno stupendo medley  al pianoforte  tra 'A Man Needs A Maid' e 'Heart Of Gold' che usciranno su Harvest solo un anno dopo.

"Per i due anni seguenti l'uscita di After The Goldrush e Harvest facevo dentro e fuori dagli ospedali: ho un lato debole, la schiena e così non riuscivo a sostenere la chitarra. Questo è il motivo per il quale nel mio tour da solo stavo sempre seduto, non riuscivo a muovermi bene" dirà in una intervista a Rolling Stone. 

Sorvolando sull'aspetto prettamente speculativo di questa ennesima uscita (c'è comunque il DVD con le immagini della serata nella versione deluxe insieme al vinile), il bombardamento di uscite discografiche che sta investendo i fan di Neil Young in questo inizio 2021 è da terza guerra mondiale (parlo naturalmente della guerra che vorremmo tutti: fatta di amore, pace e tanta musica), anche Young Shakespeare pur avendo le stesse canzoni che troviamo sparse tra  Cellar Door e Massey Hall, e che abbiamo mandato a memoria (a parte una 'Sugar Mountain' nel finale durante la quale Young invita il pubblico a cantare con lui), è l'ennesimo disco dall'atmosfera raccolta e magica con un Young che sta vivendo una dei suoi massimi momenti creativi di sempre. A soli tre giorni dall'osannato concerto di  Toronto, queste dodici tracce, registrate il 22 Gennaio 1971, si differenziano per l'alto tasso di intimità che permea le esecuzioni (Young parla, scherza e introduce alcune canzoni)  lontane dall'esuberanza del pubblico amico del Massey Hall, rumoroso e presente con mani, grida e pure piedi. 

Dopo la facciata elettrica mostrata con i Crazy Horse dei primissimi anni Novanta con il live Way Down In The Dust Bucket ecco anche l'altro lato della sua musica. Per me è sempre stata dura scegliere una delle due. Ho sempre preso entrambe senza distinzioni. Prendo Neil Young tutto intero.




RECENSIONE: NEIL YOUNG With CRAZY HORSE - Way Down In The Rust Bucket (Reprise Records, 2021) 



mercoledì 24 marzo 2021

RECENSIONE: ISRAEL NASH (Topaz)

ISRAEL NASH  Topaz ( Loose Records, 2021)


il grande volo

Qualche mese fa in pieno primo lockdown fui catturato per l'ennesima volta dalle splendide foto di Henry Diltz, scattate tra la fine degli anni sessanta e i pieni settanta tra Laurel Canyon e la California tutta. Non nascondo che se proprio volete buttarmi dentro a un periodo storico legato alla musica vorrei finire lì dentro, affacciato alla finestra della casa di Joni Mitchell, scavalcare il recinto del Broken Arrow Ranch di Neil Young come fosse la staccionata dell'olio Cuore, farmi crescere i baffoni a manubrio alla David Crosby possibilmente con quel carisma annesso. Questo per dirvi che ascoltando questo sesto album di ISRAEL NASH ho avuto lo strano stesso desiderio: voglio finire qui dentro, anche se i suoi testi, a parte alcuni pungenti riferimenti alla non felice vita politica della sua America, sembrano troppo personali e introspettivi per far posto a qualcun altro. Mi metterò in un angolo ad osservare. Ad ascoltare prima di tutto. Voglio finire qua dentro perché TOPAZ (titolo rubato al nome di un motel) è un gran bel disco, fin dalla copertina. Ecco: finalmente c'è ancora qualcuno che ci crede a queste cose, alle belle copertine dico. Un disco, inciso quasi in presa diretta nella sua casa a Austin in Texas con la produzione di Adrian Quesada (uno dei due Black Pumas), che sa  viaggiare lontano da qualunque lato si inizi l'ascolto. Siamo sullo stesso campo di gioco del primo Jonathan Wilson, di Ryley Walker. Country folk (la ballata 'Canyonheart' tra Neil Young e Dylan) imbevuto di morbidezza acida ('Dividing Lines'), squarci psichedelici sognanti e cosmici ('Southern Coasts') e scaldato a forti dosi di fuoco soul ('Stay', 'Down In The Country', 'Pressure'), cori gospel ('Closer') e fiati. Certamente un posto affascinante dove poter stare ed è bello che qualcuno continui ancora a crearli posti così, anche se solo con la mente. Io ci sarò.




giovedì 18 marzo 2021

RECENSIONE: PETER CASE (The Midnight Broadcast)

PETER CASE  The Midnight Broadcast  (Bandaloop Records, 2021)


the last dj

Ascoltando questo nuovo disco di Peter Case, le prime immagini che mi sono venute in mente sono arrivate direttamente dai  primissimi anni ottanta, quando con la macchina dello zio si vagava a tarda sera per le stradine che delimitavano i campi di frumento delle campagne di Pordenone e provincia in cerca di quei strani segni, bruciature, che i più fantasiosi attribuivano alla calata in terra di qualche navicella extraterrestre. Gli UFO erano tra di noi e sembrava che tutte le estati venissero a trovarci. Ricordo che zio era un appassionato di CB (o baracchini) e nella sua macchina era un continuo andare e venire di segnali radio, con voci, rumori e fischi che si sovrapponevano di continuo. Comunicava con tutto il mondo così. In un'era pre internet sembrava una cosa veramente magica e "spaziale" appunto. 

"Un tentativo di catturare la sensazione che ho provato in innumerevoli viaggi durante la notte americana con la radio accesa", così Peter Case descrive questo disco: una raccolta di canzoni altrui (l'unica sua è in apertura e s'intitola 'Just Hangin 'On') spesso interrotte dalle voci e dai più vari e fantasiosi discorsi di dj radiofonici che cercano di tenere sveglio l'ascoltatore solitario al volante mentre dal finestrino scorrono veloci i paesaggi dell'America più profonda. Un disco di un certo fascino. Straniante, solitario, scuro, lo-fi, fatto di folk blues minimale, chitarra e voce, a volte solo organo e voce, essenziale che va indietro a scavare e riprendere le radici della musica americana. E qui Peter Case è un vero campione. Da traditional come 'Stewball' e 'Captain Stormalong', passando per 'Farewell To The Gold'  di Paul Meters, 'When I Was A Cowboy' (conosciuta nella versione di Ledbelly), 'President Kennedy' di Sleepy John Est e arrivando a un recente Bob Dylan con 'Early Roman Kings' (da Tempest) e The Band con 'Wheels On Fire', scritta ancora da Dylan con Rick Danko. 

Peter Case si conferma come uno dei più straordinari studiosi delle radici musicali americane e questo album possiede un fascino quasi sinistro e inquietante in grado di trasportare l'ascoltatore indietro quando le foto erano ancora in bianco e nero e la radio un lusso per pochi. E se non riuscite a immaginare quelle strade cantate da Case (e registrate nel 2019 alla Old Whaling Church) certamente vi verrà in mente un vostro ricordo legato all'asfalto, a quattro ruote che vi girano sopra veloci , un volante e quella radio tenuta accesa a far compagnia durante le ore più buie di una qualunque  giornata di tanti anni fa.






giovedì 11 marzo 2021

RECENSIONE: THOM CHACON (Marigolds And Ghosts)

 

THOM CHACON  Marigolds And Ghosts (Pie Records, 2021)



le cose semplici

Sangue metà libanese, metà messicano, nato a Sacramento ma proveniente da Durango, un vecchio cugino pugile, Bobby Chacon, avversario di quel Ray “Boom Boom” Mancini cantato da Warren Zevon e un nonno sceriffo nel New Mexico ai tempi di Billy The Kid. Basterebbero tutte queste coordinate per capire quanto per  Thom Chacon i confini non siano alti muri invalicabili ma  semplici linee da attraversare con curiosità e speranza in cerca di buone opportunità di vita, proprio come canta in 'Borderland' dove denuncia le condizioni dei bambini sul confine tra USA e Messico o la terra promessa  sognata dagli immigrati raccontata in 'A Better Life'. 

Marigolds And Ghosts è il suo terzo disco dopo il debutto  del 2013, ancora il mio preferito con quel suono che mi ricordava tanto John Wesley Harding, e di Blood In The USA di tre anni fa. Tom Cachon non è un rivoluzionario, non lo diventerà mai, credo, ma un onesto operaio che sa raccontare storie di pancia e cuore, sangue e lacrime, speranza e disillusione. Per farlo non si complica la vita, usa sempre il modo più semplice possibile: strumentazione basilare da country folker (la sua chitarra acustica e l' armonica, il contrabbasso suonato da Tony Garnier, vecchia conoscenza per chi segue Bob Dylan), e una voce calda, roca e profonda (proprio come Ryan Bingham) che si fa per forza ascoltare mentre canta sì di disperazione ma anche di cose più intime e private: la storia di un amico che ha passato cinque anni tra le sbarre ('Marigolds And Ghosts'), la vita che scorre tra paesaggi americani che catturano gli occhi e i pensieri ('Mansoon Rain'), I ricordi legati alla nonna materna ('Florence John' con la dobro di Tyler Nuffer), la sua infanzia senza i genitori ('Kenneth Avenue'), la fede ('Sorrow', 'Church Of The Great Outdoors') o più semplicemente l'infatuazione verso personaggi da film Western come Lee Van Cleef ('Angel Eyes'). 

Questa volta sembra ancora tutto più semplice, tutto ridotto all'osso perché insieme al produttore Perry A. Margouleff ha deciso di registrare queste nove canzoni live su nastro analogico, mettendo in risalto il più possibile le storie, esaltando il messaggio ben  amplificato dalla sua voce certamente d'impatto, graffiante e riconoscibile.






sabato 6 marzo 2021

RECENSIONE: ANDERS OSBORNE (Orpheus And The Mermaids)

ANDERS OSBORNE   Orpheus And The Mermaids (5th Ward Ent, 2021)



folk solitario

Cosa gli sia rimasto di svedese, ora che anche i capelli e barba sono bianchi come un vecchio bluesman della Lousiana, lo custodisce lui nel suo profondo. Trent'anni di New Orleans come minimo vuol dire averci messo tante radici da sembrare il perfetto padrone di casa di quelle terre americane dove decise di fermarsi poco più che ventenne. Ha vangato quella terra, ha respirato la musicalità presente nell'aria di quei luoghi. Ha messo tutto in musica. Ha cesellato dischi straordinari come Which Way To Here (1995) e  Living Room (1999), canzoni più cupe e scure come quelle contenute in American Patchwork (2010) e Black Eye Galaxy (2012) e cose più bizzarre e giocose come quelle di Peace (2013), sfrontato fin dalla copertina. 

L'ultimo Buddha And The Blues (2019) era il suo disco dalle atmosfere solari e californiane, west coast, e questo nuovo sembra proseguire nella stessa direzione anche se in modo diverso. Solitario e senza compagnia si tuffa completamente nel folk con qualche  puntata nel blues (la ritmica 'Welcome To Earth'). Semplice e diretto. Solare ('Light Up The Sun'). Nove canzoni incredibilmente riuscite, come sempre, ispirate, costruite con sola voce, chitarra acustica e qualche armonica (l'apertura da viaggio on the road 'Jacksonville To Wichita', la riuscita e dylaniana 'Last Day In The Keys', 'Dreamin'), cantate divinamente e con la solita chitarra ispirata a ricamare (la slide di 'Pass On By'). Elettrico o acustico poco importa, Osborne sa scrivere canzoni quindi difficilmente sbaglia un disco. Eccone un altro da mettere in fila. Rimane solo il mistero della reperibilità fisica di questo disco. Al momento si può trovare solo il vinile con allegato merchandise, ordinabile dal suo sito. Aspettiamo...




lunedì 1 marzo 2021

RECENSIONE: NEIL YOUNG With CRAZY HORSE (Way Down In The Rust Bucket)

NEIL YOUNG With CRAZY HORSE 
Way Down In The Rust Bucket (Reprise Records, 2021) 


un altro anno del cavallo

Ragged Glory fu la sublimazione del suono dei CRAZY HORSE in studio ma anche l'entrata trionfale di NEIL YOUNG negli anni novanta. Talmente trionfale che dietro di sé si trovò una schiera di giovani musicisti pronti a seguirlo, ergendosi a totem di un'intera scena. "Finito l’album andammo in tour con i Sonic Youth e i Social Distortion. Era un gran cartellone, la gente vedeva un vero spettacolo. Era potente”. Ma prima del grande tour (uscirà il più granitico Weld a testimonianza) il 13 Novembre del 1990, Neil Young, Poncho Sampedro, Billy Talbot e Ralph Molina salirono sul palco del Catalyst a Santa Cruz per provare in anteprima quello spettacolo davanti a dei fan. Il locale ha una capienza da 800 posti, un posto piccolo e raccolto rispetto alle grandi arene del tour che seguirà. Forse la location perfetta per chi la perfezione non l'ha mai cercata. E la scaletta è completamente differente da quella di Weld, quasi fossero un pre e dopo guerra in Iraq, lì in mezzo pronta a scoppiare. L'inserimento di 'Blowin'in The Wind' sarà la testimonianza di tutto ciò. 
Una scaletta di tre ore che presenta in anteprima tutte le canzoni di Ragged Glory (ecco i nove minuti di 'Country Home' a fare da ariete), e pesca qualcosa dal passato tra cui due canzoni dal dimenticato Re-ac-tor ('Surfer Joe and Moe the Sleaze', il treno in corsa non sense di 'T-Bone'), una sempre ruspante 'Bite The Bullet' da American Stars 'N Bars , la vecchia 'Cinnamon Girl' (manca 'Cowgirl in the Sand' ma pare che le registrazioni non fossero il massimo, comunque presente nella versione con DVD), la sbilenca 'Roll Another Number (For the Road)' da Tonight's The Night, gli assalti frontali di 'Sedan Delivery' e 'F*! #in' Up' e la prima comparsa live della sempre amara 'Danger Bird', una delle sue grandi canzoni, sempre troppo intima e personale per essere data in pasto al pubblico. 
Inutile dire che i Crazy Horse si confermarono tanto sgraziati e sgangherati, in senso positivo, in questa occasione anche rilassati, quanto tra le più potenti e inossidabili garage band di sempre. "Suonano davvero aggressivi" dirà Young. 
Le canzoni si allungano a dismisura, si caricano di elettricità e feedback: "volevo di proposito suonare lunghi pezzi strumentali perché non sento più, negli altri dischi, l'improvvisazione. Non c'è più niente di spontaneo nei dischi che si fanno oggi…" lascerà detto Neil Young in una intervista a Rolling Stone all'epoca per l'uscita di Ragged Glory. 
E il trittico finale da 37 minuti formato da 'Like a Hurricane', 'Love and Only Love' e 'Cortez the Killer' è lì a testimoniare il tutto.