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domenica 24 marzo 2024

CROWEOLOGY: un volo sopra ai dischi in studio dei Black Crowes




The BLACK CROWES -  Shake Your Money Maker (American Recordings, 1990) 

Monsters of Rock 1991: i Black Crowes salgono sul palco del festival itinerante sulle note introduttive di ‘Sex Machine’ di James Brown. Nel bill del festival c’erano AC/DC, Metallica e Queensrÿche . Sfida lanciata. Presentarono il debutto SHAKE YOUR MONEY MAKER uscito l’anno prima, un disco fuori dal tempo già dalla foto di copertina, mentre tra una data e l’altra, e con faccia tosta da vendere a livelli altissimi (chiedere agli ZZ Top e alla loro birra sponsor), stava già  nascendo l’importante seguito. Intanto, via Jeff Cease che appariva un peso morto nel contesto “non sapeva suonare…è un buon chitarrista ma non sa comporre una virgola. Ovvero non gli riusciva di farlo come volevamo noi” e dentro Marc Ford “sa suonare tanto quanto beve”. Perfetto. Anche se nel disco ci suona Chuck Leavell, poi arrivarono anche le tastiere di Eddie Harsch, pace all’anima sua "l'abbiamo ingaggiato come session man ma il suo contributo si è dimostrato così prezioso sia dal vivo per quanto riguarda i vecchi brani sia sul nuovo materiale da farci rendere conto che la tastiera è parte integrante del nostro sound". Immaginario sixties, sonorità che cercavano di unire tutte le loro influenze: la componente british era forte e scalpitante, i fratelli Robinson una coppia cantante-chitarrista alla vecchia maniera (gli Stones di Exile e i Faces in testa:’Jealous Again’, lo scatenato ‘Thick ‘n’ Thin’ è letteralmente uno schianto), la componente southern della loro Georgia a scaldare gli animi (‘Sister Luck’) ma in seguito lo farà ancor di più, la parte black che rimanda alla Motown è servita in ‘Seeing Things’, alla ballata acustica ‘She Talks To Angels’  che racconta di una ragazza eroinomane il compito di rapire i cuori più deboli e vero traino all'intero disco, più un’irresistibile ‘Hard To Handle’ di Otis Redding che sbancherà, portando il disco a stazionare per più di diciotto mesi nelle classifiche americane. Furono in tutto cinque i singoli estratti. Un debutto con il botto ma il meglio deve ancora venire." Quando abbiamo inciso  il primo disco non ci cagava nessuno ma alla gente è piaciuta la nostra musica ed è questo quello che conta. E il nostro disco ha ugualmente venduto in pochi mesi due milioni di copie, senza spinte, forte soltanto di sé stesso e di una band che lo portava in giro dal vivo nei club".  Un disco che guiderà la rinascita e l’interesse per i vecchi suoni del sud in un periodo di forti cambiamenti musicali. Il grunge era già lì dietro all’angolo con la pistola puntata. Ritornando a quel Monsters Of Rock, Chris Robinson dirà: “In  quell’occasione era particolarmente dura perché dovevamo aprire le orecchie a fan che non hanno mai sentito un gruppo di rock’n’roll su quel  palco. Siamo riusciti a suonare bene.” Modesto. Sfida vinta.


THE BLACK CROWES - The Southern Harmony And Musical Companion (American Recording/WEA, 1992) 

"Non capisco tutte le polemiche sollevate da quella razza fottuta e bastarda dei giornalisti inglesi. Siamo stati attaccati dai media inglesi sempre per il solito problema delle influenze, delle somiglianze… Cazzate". Così i Black Crowes risposero a quanti li accusarono di poca originalità dopo l'uscita del debutto Shake Your Money Maker di due anni prima. Non certo il pubblico che li premiò da subito. Ma la risposta migliore la affidarono alla musica: The Southern Harmony And Musical Companion li consacrerà a veri eredi della grande tradizione del southern rock e dell'american music in generale, scavando in profondità nella tradizione  fino a trovare le radici gospel e soul che si unirono al forte vento british che spettinava le canzoni del debutto. Certo, tra dichiarazioni al vetriolo verso giornalisti e colleghi e la (mal)sana abitudine di non voler accontentare a tutti i costi il proprio pubblico durante i concerti (quando i nuovi fan acquisiti chiedevano i successi del fortunato debutto loro partivano con nuove canzoni e improvvisazioni sconosciute ai più), i Black Crowes partirono con l'adesivo di band arrogante e poco simpatica già appiccicato addosso. Ma erano determinati e liberi.  E proprio in tour ha preso forma il secondo disco: "abbiamo iniziato a comporlo in tour, sono nate circa trenta canzoni tra cui  'Thorn On My Pride', 'Sting Me' e 'My Morning Song'" che faranno da apripista alle altre scritte e provate in quindici giorni nel garage di una casa vittoriana appena comprata da Chris Robinson, lontano da tutto in quel di Atlanta.  Poi registrate in presa diretta negli studi Southern Tracks sempre di Atlanta insieme al l'allora inseparabile George Drakoulias in produzione "ci tenevamo a rispettare fino in fondo le atmosfere  che ci apprestavamo a ricreare. Usare la tecnologia in un disco del genere sarebbe stato un delitto" con il nuovo chitarrista Marc Ford dei Burning Tree che sostituì Jeff Cease, licenziato con l'etichetta "peso morto" attaccata al collo. Sarà solo la prima sostituzione di una lunga serie di musicisti che ruoteranno intorno ai fratelli Robinson che intanto continueranno ad alimentare il loro indissolubile rapporto di sangue con continui e reiterati litigi, spesso violenti ma di breve durata. "Tra i due fratelli c'è sempre stata tensione già da prima che registrassimo il primo disco" dirà il bassista Johnny Colt. Bastarono otto giorni di registrazione per ottenere questo concentrato di ritmo ('Sting Me'), soul (il classico istantaneo 'Remedy', inno alla libertà), southern rock ('Thorn In My Pride') e funky, impreziosito dalle tastiere del nuovo acquisto, il talentuoso Ed Harsch, e dalla incredibile batteria di Steve Gorman che non spreca un colpo. Le ombre  malinconiche ricamate in 'Bad Luck Blue Eyes Goodbye', l'oscuro presagio disegnato in 'Black Moon Creeping', fanno da contrapposizione al  rock'n'roll blues di 'Hotel Illness' e 'No Speak No Slave' dove le chitarre di Rich Robinson e Marc Ford si intrecciano che è un piacere e la voce di Chris Robinson vola alta, sinuosa e graffiante. Perfino 'Time Will Tell' di Bob Marley si vestì con abiti gospel innestandosi alla perfezione, chiudendo la fila delle dieci tracce. "Quando l'abbiamo ascoltata per la prima volta mi ha fatto respirare aria di gospel music e ci ha stregato" racconterà Rich Robinson. Il disco che uscì nel Maggio del 1992, debuttando al numero uno nella classifica di Billboard, in copertina li presenta come dei guerrieri della notte degli stati del sud (richiamando the Band) immortalati dal fotografo Mark Seliger in un cimitero di automobili nella periferia di Atlanta. Posto marcio e disordinato, adatto per rappresentare tutto ciò che accadrà nella loro carriera dall'uscita del disco in avanti…


THE BLACK CROWES - Amorica (American Recordings/ Universal, 1994) 

"L' America è, spesso, un luogo di paura. Amorica invece è l'America che noi sogniamo, cioè un posto dove la gente sia libera di vivere senza paure" così Rich Robinson spiegò il titolo del terzo album dei Black Crowes, presentato da una copertina tanto acchiappa sguardi, rubata da una vecchia copertina della rivista Hustler, anno 1976, quanto ostacolo per la buona diffusione del prodotto che infatti venne censurato. Chissà se per quella bandiera americana messa lì davanti oppure per quello che c'era sotto o tutto l'insieme? A proposito Chris Robinson appena dopo l'uscita disse: "sarà raffigurata una ragazza abbigliata in classico bikini a stelle e strisce… Staremo a vedere. L'America, essendo un paese giovane, cerca di aggrapparsi a dei valori, stanno ancora cercando di capire cosa accade nel mondo e penso che la mentalità europea sia diversa". Non si sbagliava. E pensare che se possiamo accarezzare la copertina di Amorica è solo grazie a quei due fratelli serpenti che mandarono in fumo un album fatto e finito, nato sul finire del 1993 dopo i tour che seguirono The Southern Harmony and Musical Companion. Tall non vide mai la luce se non anni dopo quando uscì con l'altro album perduto Band, registrato nel 1997: raccolti sotto The Lost Crowes. Dentro Amorica ci finirono un po' di quelle canzoni perdute. "Vogliamo davvero vedere fino a che punto possiamo spingere la nostra espressione". Con queste parole Chris Robinson cercò di spiegare il balzo in avanti che la band provò a fare con Amorica, alla perenne ricerca di un suono identificativo lontano da mode e da tutto. I suoni si dilatano, c'è la voglia di lasciarsi andare, di entrare dentro a un mood senza troppi steccati a fare da argine. Cambia anche il produttore, dopo George Drakoulias arriva Jack Joseph Puig. Si intravedono tappeti, candele e incensi, piedi nudi che ci ballano intorno. Così da 'Gone' che sembra un bel invito messo in apertura ma ancora ben legato ai due precedenti dischi, passando per la liberatoria e sensuale  'A Conspiracy' e con un prezioso Eddie Harsch che sembra essersi inserito molto bene dentro alle trame della band, si passa attraverso i ritmi latini che accompagnano 'High Head Blues' con quell' invito esplicito nascosto tra le rime e piazzato alla fine:  "questa è l'erba migliore" viene ribadito  in spagnolo. E noi ci crediamo, visto che da qui in avanti tutto sembra apparire e scomparire dietro al fumo profumato.  Perché il viaggio jammato dei nuovi Black Crowes sembra non avere più ostacoli: 'Cursed Diamond' inizia lieve e introspettiva poi  si incendia sotto le chitarre di Marc Ford e Rich Robinson con Chris a cantare l'incredibile forza del perdono, 'Nonfiction' è una pausa dalle chitarre che sa di vecchia west coast anni settanta ma che poi conduce alla solarità senza confini di 'She Gave Good Sunflower', lavoro di squadra dove c'è spazio per tutti.  Una malata 'P. 25 London' che pur  sembrando un semplice divertissment blues con tanto di armonica ha il raro pregio di catturare l'attenzione con il suo groove (ecco il basso di Johnny Colt) prima di condurre il disco verso  l'accoppiata 'Ballad In Urgency' e 'Wiser Time', due viaggi accomunati dalla leggerezza, la prima si aggancia così bene ai padri Allman Brothers, la seconda è una corsa in macchina in discesa a motore spento, con il vento in faccia e il drumming percussivo di Steve Gorman che duella ad armi pari con le slide. Siamo ora on the road. Il disco nel finale si abbandona completamente, sgancia i freni, attorcigliandosi alle radici: il delta blues acustico di 'Downton Money Waster' con dobro e pianoforte e la forza evocativa e quasi gospel della finale 'Descending', con il grande lavoro al pianoforte di Harsch, sembrano riallacciare tutti i fili con la tradizione del southern rock che così bene questo disco aveva in qualche modo cercato di spezzare. "Che genere suonano i Black Crowes? Semplicemente musica, l'importante è quello che pensano gli ascoltatori", così Rich Robinson.


The BLACK CROWES - Three Snakes And One Charm (American REcordings/Universal, 1996) 

Three Snakes And One Charm ha sempre fatto poco per attirare l'attenzione su di sé: avvolto in una candida copertina poco appariscente, nessuna foto della band e nessun singolo veramente trainante se si escludono ‘Blackberry’ canzone con il groove giusto per diventarlo grazie alla sua riuscita commistione tra chitarre e black music e l'apertura ‘Under The Mountain’ che dà lo starter al disco in modo sornione per poi esplodere in tutto il suo sapore Southern. Anche la sua uscita fu tavagliata: l’estenuante tour seguente ad Amorica aveva messo tutti ko (aprirono anche per i Rolling Stones nel tour di Voodoo Lounge) e la situazione interna alla band inizia a scricchiolare, con i fratelli Robinson che comunicavano a distanza, dando inizio a quel amore odio che li seguirà per tutta la carriera: il chitarrista abitava a Los Angeles, il cantante ad Atlanta. Nonostante tutto quando si ritrovarono al Chateau de le Crowe riuscirono a mettere insieme dodici canzoni e l’anno seguente registrarono pure Band, album che non vide mai la pubblicazione  se non anni dopo insieme a Tall altro album perduto registrato prima di Amorica. A  più di venticinque anni dall'uscita, il disco dei tre serpenti si può considerare uno degli album più coraggiosi ed eclettici della loro carriera, ai tempi marchiato con troppa sufficienza con un bel “calo di ispirazione”, forse il più difficile da penetrare con facilità causa l'abbondanza di carne sul fuoco e il giro largo che fanno compiere alle canzoni rispetto ai primi tre album. Canzoni che scappano da più parti indicando le loro tante influenze: tutto l’amore per Sly Stone e il funk si manifesta in '(Only) HalfwayTo Everywhere’, i residui di R&B con tanto di fiati in ‘Let Me Share The Ride’,  i sixties e i Byrds vengono omaggiati in ‘Better When You're Not Alone’, il misterioso oriente in ‘How Much For Your Wings’ con le sue percussioni, la  psichedelia fa capolino in ‘Evil Eye’ e ‘Nebakanezer’ che presenta un riff che cattura subito, si respira aria fresca di campagna  nel country  ‘Bring On Bring On’, nell’armonica che guida ‘Good Friday’, nella pedal steel di ‘Girl From A Pawnshop’. Un anno dopo con l’uscita di Marc Ford e Johnny Colt cambieranno nuovamente le carte in tavola…mantenendo comunque intatta la libertà musicale di tutta la carriera.


THE BLACK CROWES - By Your Side (American, 1999) 

Sabato 10 Luglio 1999: una bufera di pioggia si scatena sul Monza Rock Festival. Alcuni gruppi in scaletta saltano ma vengono spostati al giorno successivo. Un po’ esulto, che diamine non può andare sempre di sfiga. Io avevo scelto quel giorno successivo! I principali sono Aerosmith e Litfiba (con l’ultimo concerto di Piero Pelù in formazione). Lo vengo a sapere il giorno dopo, appunto, sul posto e sul momento: io ero lì principalmente per i Black Crowes (e Lenny Kravitz) e il loro set sarà incastonato in mezzo tra la band di Boston e quella di Firenze. Posizione strategica. Gli Aerosmith fanno un gran concerto pescando bene nel passato, quello dei Litfiba è abbastanza penoso, mettendo in risalto una band ai ferri corti che giunge al termine dei propri impegni per contratto. E i Black Crowes? I Black Crowes si presentano sul palco esattamente come si vedono nella copertina del nuovo disco che stanno per presentare live. Un disco che già adoravo. Il pubblico sembra distratto. Gli Aerosmith hanno appagato i rocker, i fan dei Litfiba sono in spasmodica trepidazione. I Black Crowes fanno un gran concerto, certo penalizzato dai tempi ristretti, ma per quel che ricordo, alla fine, conquistano sia i rocker appagati quanto il pubblico distratto di Pelù. Per gli amanti delle statistiche ho recuperato la scaletta: ‘No Speak No Slave’, ‘Go Faster’, ‘Stare it Cold’, ‘Go tell the Congregations’, ‘Sting Me’,‘Heavy’, ‘Hard to Handle’,  ‘Kicking my Heart Around’, ‘Virtue and Vice’, ‘Jealous Again’, ‘Remedy’. BY YOUR SIDE uscì dopo un periodo poco felice: THREE SNAKES AND ONE CHARM non esaltò troppo, arrivando dopo un disco monstre come AMORICA, Marc Ford e Johnny Colt escono dal gruppo, c’è pure il cambio di etichetta discografica con il passaggio alla Sony. Tanti voltano le spalle. Eppure BY YOUR SIDE, ben prodotto da Kevin Shirley, spesso dimenticato ma presentato da una copertina mai così glam e glitterata, è un disco scalpitante, certamente il più accessibile in discografia, che si impossessa maggiormente della parte più british della loro musica: quella legata al rock blues dei Led Zeppelin , degli Stones, di Rod Stewart e i suoi Faces e la mischia con il suono nero americano. ‘Go Faster’ e ‘Kickin’ My Heart Around’ fanno muovere il culo e battere i piedi fin da subito: rock’n’roll senza freni e sezione ritmica a palla (Steve Gorman e Sven Pipen i protagonisti). ‘By Your Side’ è la canzone che Jagger e soci non fanno da trent’anni. ‘HorseHead’ ha i riff di Keith Richards benedetti sotto l’acqua santa dei cori gospel. ‘Only A Fool’ è una ballata soul condotta dai tasti del povero Eddie Harsch e dai fiati. ‘Heavy’ mischia le due anime del disco: da una parte il rock, dall’altra il R&B. ‘Welcome To The Goodtimes’ è tra gli episodi più inusuali ma riusciti del disco: Rod Stewart meets New Orleans e la voce di Chris Robinson ne esce vincitrice. Un piacere incontrarvi. Il fratello Rich Robinson rimane solo al comando delle chitarre e in ‘Then She Said My Name’ va giù duro prima di arrivare al bel finale di ‘ Virtue And Vice’ con ancora Harsch protagonista. Canzone assolutamente da riscoprire.  “Gotcha Moving, Gotcha Moving…Keep You Rolling” ancora da capo.


THE BLACK CROWES - Lions (V2, 2001) 

C'è uno sticker colorato nella custodia di Lions che annuncia cose da futuro immediato: metti il tuo CD nel computer, digita il codice che trovi all'interno e assisti a uno show del prossimo tour dei Black Crowes direttamente da casa, in streaming, sul tuo computer. Un modo per avvicinarsi alla tecnologia del prossimo futuro e ai tanti fan sparsi per il mondo.  Ma Lions è tutt'altro che un disco futuristico. Dopo il tour con Jimmy Page, o quello che doveva essere un tour visto la durata dimezzata, la band di Atlanta sembra rinvigorita nel seguire le tracce rock assaporate con l'ex chitarrista dei Led Zeppelin, registrando il tutto  in un vecchio teatro di New York sotto la produzione dell'esperto Don Was. Arrivarono all'appuntamento con alcune canzoni scritte proprio in tour, altre nacquero sul momento in studio di registrazione in un clima di rilassatezza e buona complicità. Una nuova casa discografica e la nuova fiamma di Chris Robinson avranno sicuramente influito al buon clima generale. Lo si sente subito in apertura con quelle chitarre stridenti, un lungo preludio, e la rullata di Steve Gorman, 'Midnight From The Inside Out' è puro Zeppelin sound che amoreggia volentieri con Jimi Hendrix. Anche 'Greasy Grass River' è una prova di squadra che passa l'esame con le chitarre di Rich Robinson e Audley Freed in primissimo piano. "Le date con Jimmy sono state un'enorme spinta in termini di energia" racconterà Chris Robinson.  Ma ciò che attrae di più di Lions a ventitre anni (!!!) dalla sua uscita è quel fragore ritmico imbottito di funky che accompagna gran parte delle canzoni. Il saltellante groove di 'Lickin' con il suo riff penetrante (il primo singolo), l'esortazione contagiante di 'Come On', la sensuale 'Ozone Mama' con il suadente organo di Ed Harsch e l'armonica di Chris Robinson che qui si prende pure la licenza di cantare rappando, l'incedere tribale che scandisce 'Young Man, Old Man' sono tutti schizzi che vanno a comporre una tela bianca senza cornici che ne limitano l'orizzonte. Ci sono poi almeno tre o quattro colpi da fuoriclasse: il crescendo di 'Losing My Mind', la ballata acustica 'Miracle To Me' anticipata dal pianoforte, la schizzata 'Cosmic Friend' che come una mosca vola sopra alla musica dimostrando a tutti la licenza della più totale libertà di espressione che si sono presi, la conclusiva 'Lay It All On Me' che pare un ibrido ben riuscito tra i Beatles del White Album e  l'Elton John più ispirato. Poi c'è quella 'Soul Singing' che rimarrà l'unica vera canzone ricordata di questo album, un gospel dai sentori  hippy, danza sfrenata di libertà e emancipazione in mezzo a colline verdi, prati fioriti, cieli azzurri e un bel sole al tramonto (sì proprio come nel video). "È stato un processo di registrazione davvero spontaneo. Abbiamo preso molta energia dalla libertà nella quale ci siamo trovati, anche con la casa discografica."dirà Chris Robinson riferendosi anche al nuovo contratto discografico con la V2. All'uscita Lions fu bersagliato dalla critica. Un po' come quando Neil Young fu accusato di "non fare Neil Young", qui i Black Crowes sfornano un album con talmente tanti spunti e tanta varietà che dopo più di vent'anni si riesce a trovare ancora qualcosa di nuovo.


THE BLACK CROWES - Warpaint (Silver Arrow Records, 2008) 

Ma quanto è bello Warpaint? Il disco del (primo) ritorno, ma spesso dimenticato, dopo il breve scioglimento avvenuto nel 2002 e durato tre anni. I fratelli Rich e Chris Robinson ritornarono con tante novità ma con un sound che guardava fortemente al passato, cancellando in un solo colpo i segni lasciati dal poco capito Lions, uscito ben sette anni prima, sicuramente da riscoprire. Due nuove facce: la chitarra di Luther Dickinson (North Mississippi Allstar) e le tastiere di Adam MacDougall che si uniscono alla confermata sezione ritmica formata da Steve Gorman (vorrei vedere) e Sven Pipien."Abbiamo registrato Warpaint in uno studio chiamato Allaire. È in cima a una montagna nello stato di New York. È stato uno dei posti più belli in cui sia mai stato. L'atmosfera era incredibile - a parte il fatto che ero stressato per ottenere la musica giusta... " racconterà il tastierista nuovo entrato. Una nuova etichetta discografica di loro proprietà (Silver Arrow) che possa permettere di muoversi con più agilità sul mercato ma soprattutto canzoni che lasciano il segno, riunendo insieme tutte le migliori influenze della carriera, da quelle britanniche (Stones e Faces) a quelle americane (Little Feat, Allman e Lynyrd Skynyrd). L’iniziale chiamata alle armi di ‘Goodbye Daughters Of The Revolution’ è già un piccolo classico, i blues neri e sporchi di ‘Walk Believer Walk’ e della trascinante ‘God’s Got It’ rubata al repertorio del reverendo Charlie Jackson legano in maniera sanguigna con le radici ("non facciamo una cover per un disco da un po 'e mi è sempre piaciuta questa canzone. Credo che la metà dei ragazzi della band non l'avesse mai ascoltata. L'ho suonata per tutti e tutti si sono alzati in piedi e hanno iniziato a farla. Era anche un altro modo per entrare nelle nostre radici " dirà Chris Robinson), il southern vecchia scuola di ‘Evergreen’ e quattro ballate una diversa dall’altra fanno il resto: ‘Oh Josephine’ ("una delle cose migliori che io e Rich abbiamo mai scritto" dirà Chris Robinson), ‘Locust Street’, ‘There’s Gold In Them Hills’ e la finale e sorprendente ‘Whoa Mule’ tanto etnica quanto legata ai maestri della Band. L'anno dopo uscirà Warpaint Live a confermare il buon momento.


THE BLACK CROWES - Before the Frost...Until the Freeze (Silver Arrow Records, 2009) 

C'è un'immagine tra le foto promozionali di questo che a oggi rimane l'ultimo lavoro di inediti della band di Atlanta (l'anno dopo uscirà ancora la singolare raccolta Croweology, l'anno scorso è uscito 1972, album di cover) che rappresenta e presenta benissimo il disco. I Black Crowes sono stati fotografati sopra una scalinata con le loro barbe, i lunghi capelli e i vestiti marcati seventies all'entrata di un'enorme edificio in legno con pile di legna pronta da ardere ai due lati. Probabilmente si tratta dello studio di registrazione situato a Woodstock di proprietà del povero Levon Helm (che all'epoca uscì con lo splendido ELECTRIC DIRT) dove i nostri hanno registrato in presa diretta, davanti ad uno sparuto numero di spettatori, i 20 brani che compongono quest'album  che profuma veramente d'altri tempi. Quella legna da ardere sembra essere lì per testimoniare il calore che l'ascolto emana, in netta contrapposizione con l' algida copertina e il titolo dell'opera. Un disco buono per ogni occasione. Per come è nato (si provava fino alla riuscita, il pubblico applaude), e con il passare degli anni questo disco ha assunto il ruolo di perfetto mix tra i BASEMENT TAPES di Dylan/The Band e EXILE ON MAIN STREET degli Stones. Con le dovute proporzioni naturalmente. "Siamo partiti con l'idea iniziale che saremmo andati in uno studio normale e avremmo avuto una dozzina di fan lì dentro a guardarci, la cosa si è poi trasformata in una valanga quando siamo andati nel fienile e nello studio di Levon Helm a Woodstock con  200 persone a guardare" raccontò il batterista Steve Gormam. Tutte composizioni originali, escludendo la cover di Stephen Stills 'So Many Times'. Canzoni che dimostrano quanto la band sia maturata negli ultimi anni di attività. Già il precedente WARPAINT (2007) si era fatto apprezzare per la ritrovata vena compositiva dei fratelli Robinson, ma questo lo supera. Calore, introspezione, feeling, spontaneità, coesione sono aggettivi che ben si adoperano per descrivere lo status della band, che sembrò rinascere dopo l'entrata di Luther Dickinson (North Mississippi AllStars) alla chitarra. Il legame con i grandi degli anni settanta non è mai stato così marcato: facile trovare tracce di Rolling Stones, Faces, primo Rod Stewart (soprattutto nella splendida voce di Chris Robinson) o gli echi sudisti di Allman Brothers Band e il calore delle composizioni di The Band e Little Feat. I Black Crowes hanno perso per strada l'irruenza e l'urgenza degli esordi per avvicinarsi sempre più al crocevia che porta nella direzione delle radici americane e a The Band in particolar modo. Il primo disco BEFORE THE FROST…si apre con una formidabile 'Good Morning Captain', che parte da dove era finito il precedente WARPAINT. Canzone che possiede tutti i crismi di un loro classico. Da notare il prezioso lavoro al piano e tastiere di Adam MacDouglas. Accanto ad episodi di rock blues ruspante come 'Kept My Soul' o la lunga 'Been A Long Time (Waiting On Love)'con la sua jam finale troviamo episodi che rotolano spesso come palle di fieno sospinte dal vento nel country: la bellissima 'Appaloosa' che sembra uscire direttamente all'agreste HARVEST di Young o l'acustica 'What Is Home?' così vicina ai primi CSN. C'è pure spazio per un brano divertente e spiazzante come quelli che amavano fare gli Stones di fine anni settanta: 'I Ain't Hiding' è uno scherzo e così va preso. Ritmiche disco-funk che tanto piacerebbero alla boccaccia di Mick Jagger. La seconda parte del lavoro …UNTIL THE FREEZE la si poteva ottenere scaricandola dal sito grazie al codice presente nella confezione del cd oppure optando per il vinile: c'è tutto in due dischi e forse sarebbe la soluzione giusta visto i suoni così vintage. 'Aimless Peacock' lascia intravedere l'anima di questa seconda parte del lavoro, più cerebrale e psichedelica. Violini, sitar ci immergono in atmosfere care al George Harrison di fine anni sessanta. Mentre 'Garden Gate' è un divertente walzer country sorretto dal violino così come nei verdi campi del country viaggiano 'Shine Along' e 'Roll Old Jeremiah'. Venti canzoni che attraversano l'America a passo d'uomo, lasciando il giusto tempo di ammirare i paesaggi, sostare e ripartire. Tanto anacronistiche quanto utili di questi tempi. E sono ancora qui a chiedermi come sia stato possibile fermarsi dopo tanta prolificità, la stessa che ora è dispersa in altri mille progetti e in una (strana) reunion che per ora odora solo di verdi banconote. Uno dei loro dischi migliori, anche se pochi lo dicono.


THE BLACK CROWES  - Happiness Bastards (Silver Arrow, 2024) 

"Ma poi le cose accadono...nella vita, le cose accadono. E nel mio caso, incontrare l'amore della mia vita dopo tutti questi anni e avere un partner che possa davvero farmi vedere le cose per quello che sono, essere in grado di guarire il mio rapporto con Rich - e lui direbbe la stessa cosa, penso - avere il team di persone che abbiamo intorno...". Così Chris Robinson ha raccontato quanto la compagna Camille Johnson (anche autrice dell'artwork) sia stata determinante per ricucire i rapporti con il fratello Rich, invertendo per una volta quella legge non scritta del rock'n'roll che vuole mogli e compagne come le cause di tutti i mali all'interno di una band. Riavvicinamento che portò a una reunion e al conseguente tour celebrativo di Shake Your Money Maker che passò pure all'Alcatraz di Milano ma che, a dirla tutta, a distanza di un paio di anni non mi sembrò così entusiasmante, finendo nelle retrovie dei loro concerti visti da me. Mi sembrò un compitino contornato di belle canzoni e suoni pessimi. Divertente e senza pretese fu anche 1972, l'EP che raccoglieva sei cover pescate in quell'anno di meraviglie. Ma forse proprio da lì si può partire per capire lo spirito che ha animato le dieci composizioni di questo ritorno. Basti l'ascolto di 'Bleed It Dry', uno shuffle blues con l'armonica di Chris Robinson che pare arrivare diretto diretto da Exile On Main Street. Torrido e sporco il giusto.Happiness Bastards è il disco più semplice e diretto della loro discografia, un concentrato di rock'n'roll blues che lo pone a metà strada tra il debutto e il sempre dimenticato By Your Side senza avere le canzoni di peso né dell'uno né dell'altro ma forse per trarre queste conclusioni è ancora presto. Insomma siamo distanti anni luce dall'ultimo e sorprende album Before The Frost...Until The Freeze del 2009 che li vedeva calati in vesti bucoliche dentro al fienile di Levon Helm e all'immaginario Americana disegnato da The Band anni prima. Un grande disco di sfumature che meritava maggiori attenzioni. Lo racconta bene Chris Robinson: "è un disco rock 'n' roll. Focalizzato, orientato al riff. Prima di invecchiare e non poterlo più fare". Anche se il recente album dei Rolling Stones ci racconta che si può arrivare anche agli ottant'anni a macinare riff su riff. Lo conferma il produttore Jay Joyce (presente anche con chittara e tastiere), raccontando come sono andate le cose in studio di registrazione:"era vecchia scuola: tutti nella stessa stanza, nessuna traccia di clic, niente stronzate". I Black Crowes di oggi sono Chris e Rich Robinson. Sven Pipien è l'unico sopravvissuto della vecchia guardia. E la strada che prende il disco la si capisce appena parte la prima traccia 'Bedside Manners' (invettiva contro qualche ex amante dove Chris canta:" se non vuoi i miei diamanti / non scuotere il mio albero”), up tempo e una slide sferragliante, un pianoforte battente (suonato da Erik Deutsch) sono un benvenuto e il mood di quasi tutto l'intero disco che ha nelle ballate 'Wilted Rose', insieme alla cantantautrice country Lainey Wilson, canzone che però ha una sua esposione e la finale 'Kindred Friend', con il suo placido e disteso andamento tra country, gospel e pop ( ai cori Vicky Hampton, Joanna Cotton e Robert Kearns), gli unici momenti in cui si tira il fiato. 'Rats And Clowns' ha un riff sonesiano incalzante (alla batteria Brian Griffin) e Chris Robinson canta in maniera avvolgente inseguendo le chitarre fino al chorus e all'assolo di Rich che in tutto il disco è aiutato dalla chitarra di Nico Bereciartua. Un disco dove che chitarre contano. L'arpeggio iniziale di 'Cross Your Fingers' inganna e porta verso l'immaginario roots ma poi la canzone si dipana in un saltellante funky con Chris che si trasforma in un delle sue migliori trasformazioni da soul singer, certamente la traccia più anomala e sperimentale del disco. 'Wanting And Waiting' la conosciamo già a memoria con il suo forte rimando alla vecchia 'Jealous Again'. Puro distillato Black Crowes che fa il paio con l'accusatoria 'Follow The Moon' quasi zeppeliniana. 'Dirty Cold Sun' è la più black del lotto, coriste e ancora tanto soul nel cantato. 'Flash Wound' è un trascinante mix tra la velocità del vecchio punk e le atmosfere festose da marching band con un breve break centrale. I tre minuti più spassosi di un disco che in 38 minuti ci presenta una band che vuole lanciare un messaggio forte e chiaro:" aprite le vostre orecchie, sappiamo ancora suonare rock'n'roll!". Tutte le altre sfumature che ci hanno fatto conoscere durante l'intera carriera sono state messe da parte per un approccio duro, fresco, vivace e diretto. Che piace e li tiene in vita con onestà e mestiere. Per ora cosa chiedere di più dopo quindici anni di silenzio discografico?


                                                                                       BONUS

THE BLACK CROWES - Band (1997) 

Avete mai pensato a come la storia e la carriera di alcuni artisti sarebbero potute cambiare se certi album incisi e lasciati poi ammuffire nei cassetti fossero invece usciti nei tempi giusti? La storia del rock è piena di lost album. Band dei Black Crowes registrato nel 1997 vide la luce solamente nel 2006  quando uscì insieme alle session Tall che qualche anno prima diedero  il giusto carburante ad Amorica. Band invece  fu il passo successivo a Three Snakes And One Charm un disco che Chris Robinson non lesinò a considerare "il mio album favorito" e fece da anticamera a di By Your Side (che invece è uno dei miei favoriti) a cui regalerà comunque  la title track qui ancora in una versione embrionale e intitolata 'If It ever Stops Raining' diversa da quella sottoposta al lavoro di Kevin Shirley che uscirà solo due anni dopo. Dieci canzoni scritte immediatamente dopo il lungo tour del disco precedente da Chris e Rich Robinson una sola settimana prima di chiamare a rapporto il resto della band, chiudersi nel piccolo studio Purple Dragon Recording di Atlanta e registrarle in sole tre giornate di lavoro. "Mi piaceva l'idea che ci fossero degli errori" raccontò Chris Robinson. Lo scopo era registrare e mantenere un approccio live e grezzo, cosa che riuscì loro perfettamente e le voci che si sentono all'inizio o alla fine di alcuni brani testimoniano. Insieme ai fratelli Robinson: Steve Gorman e Eddie Harsch, e poi della partita ci sono ancora Marc Ford e Johnny Colt, alle loro ultime registrazioni in studio con la band. Ford navigava in brutte acque poco digerite dal gruppo, fu licenziato poco dopo nel corso del 1997, Colt lo seguì quasi immediatamente. Il rock di 'Paint An 8' e 'Never Forget This Song', la jam senza troppe regole di 'Another Road Side Tragedy', il rock’n’roll stonesiano di 'Predictable', il mandolino di 'Lifevest', le tastiere della più solare e sbarazzina 'Grinnin', le ballate 'Wyoming & Me' e  'My Heart 's Killing Me'  con il violino di Donny Herron e la finale e superba 'Peace Anyway',  formano uno dei più ispirati e coesi album della band anche se nessuno lo saprà per almeno dieci anni. In rassegna le loro radici southern e soul, le influenze british, la loro anima più cerebrale e alcune anticipazioni sulle colline del country che troveranno strada qualche anno dopo. La American Recording di Rick Rubin non ne volle sapere nulla, considerando l'album poco competitivo sul mercato. Tutto venne accantonato e i  Black Crowes con la nuova etichetta Columbia e il nuovo innesto Sven Pipien  scomparirà per due anni per rifarsi viva con il più diretto e rock’n’roll By Your Side ma sarà un'altra incredibile storia.


THE BLACK CROWES Croweology (Silver Arrow Records, 2010) 

Ci fu poco tempo per apprezzarne il ritorno in quel 2010, i due album WARPAINT (2008) e BEFORE THE FROST...UNTIL THE FREEZE (2009) uscirono a ben sette anni di distanza dall'ultimo LIONS (2001), che i Black Crowes decisero di salutarci nuovamente. Per un po'? Per sempre? Per dieci anni. Ora lo sappiamo. CROWEOLOGY è un doppio album unplugged registrato in cinque giorni in presa diretta nel 2009 e uscì per festeggiare i 20 anni trascorsi dal loro debutto discografico SHAKE YOUR MONEY MAKER. Fino a quest'anno l'ultima uscita discografica della band di Atlanta, tornata nel 2022 con il.disco di cover 1972. L'album ripercorre l'intera carriera dei fratelli Robinson, mostrando il lato puramente roots, rustico ed acustico che già predominava in Until The Breeze, la seconda parte della precedente uscita discografica. Mandolini, lap steel, pedal steel e violini rivestono di nuovi abiti "made in americana" le grandi canzoni del loro repertorio, partendo da una 'She Talks To Angels' raccontata cosi da Rich Robinson:" per me, la canzone è semplicemente fantastica. Musicalmente, non mi annoio mai a suonarla, e penso che la melodia e il testo di Chris siano semplicemente fantastici. Per questo disco, è stato solo un gioco da ragazzi per tutti noi. Luther (Dickinson) è eccezionale in questo. Ha le orecchie sempre aperte e ascolta ciò che fanno tutti e aggiunge ciò che deve essere aggiunto". Ci sono poi 'Remedy', 'Soul Singing', 'Sister Luck', per un totale di venti canzoni tra cui la cover di 'She' di Gram Parsons e Chris Ethridge. Registrato al Sunset Sound di Los Angeles ci mostra comunque una band mai così unita e soprattutto alla continua ricerca di semplicità come testimoniarono le loro ultime uscite discografiche, suonate e registrate dal vivo lontane da qualsiasi sovraincisione da studio. Before The Frost...fu registrato nello studio/fienile del compianto Levon Helm davanti a pochi spettatori per essere riversato poi su disco così com'era. Per noi ci fu ancora la possibilità di vederli live nel 2011 e nel 2013 all'Alcatraz di Milano per quello che rimarrà il loro ultimo concerto in Italia per un po' di anni. E poi...? E poi ci si è messo di mezzo il Covid ad annullare la data autunnale della "strana e monca" reunion dei fratelli Robinson, nel 20024 giunta a compimento. 

mercoledì 17 gennaio 2024

Accadde oggi. 17 Gennaio 1974: BOB DYLAN- Planet Waves

BOB DYLAN - Planet Waves (Asylum, 1974)



riparto da qui

Recentemente, ascoltando Southern Blood, disco epitaffio di Gregg Allman,  mi sono imbattuto ancora una volta in ‘Going Going Gone’, stupenda, oscura e sempre sottovalutata canzone di un album dalla copertina enigmatica quasi alla Picasso, dominata da tre misteriose figure in bianco e nero, due simboli ben chiari e quelle due scritte a margine “Moonglow” e “Cast-iron songs & torch ballads” che creano confusione sulla vera identità del titolo e che vorrebbero fare da introduzione a un disco che indicò, ancora timidamente ma più marcatamente rispetto al precedente NEW MORNING, la strada musicale del nuovo decennio.

 PLANET WAVES è il disco delle prime volte e dei grandi ritorni: il primo e unico disco ufficiale lavorato e registrato interamente insieme a The Band in studio di registrazione, il primo e unico disco che non uscì per la Columbia (l’etichetta si vendicò stampando gli scarti del periodo), il primo disco di Dylan a finire al primo posto in classifica dove rimase per quattro settimane trainato anche dalla pubblicità della nuova etichetta Asylum di David Geffen, anche se alla fine tutto durò poco e non in modo così entusiasmante come sperato in partenza. Fu anche il primo disco registrato in un luogo che non fu New York né Nashville (a parte la soundtrack di Pat Garrett & Billy The Kid) fu il disco che riportò Dylan in tour, il tour che Geffen vendette come “il più grande evento nella storia dello show business” (40 date in 25 città) cosa che non succedeva dal lontano 1966 e il tutto verrà impresso nell’album live BEFORE THE FLOOD. Il primo album live ufficiale di Dylan. Un tour che, conti alla mano, fece più successo del disco in promozione, che ironia della sorte finì pure per uscire a tour già iniziato. Robbie Robertson: “Quando suonavamo dal vivo, la musica diventava dinamica, violenta ed esplosiva. Quando suonavamo in studio invece…

Fu il disco che per molti sancì il vero ritorno di Dylan. Registrato in poco più di una settimana e in tre sedute di registrazione nel Novembre del 1973, PLANET WEAVES prese forma a Los Angeles anche se molte canzoni vennero scritte a New York. L’idea originale racconta di un primo abbozzo di album che sarebbe dovuto uscire con il titolo Ceremonies Of The Horsemen.

Era impressionante produrre qualcosa di così potente in così poco tempo” disse il co produttore e ingegnere del suono Rob Fraboni.

Nato dalla scintilla che scaturì tra Robbie Robertson e Bob Dylan che si ritrovarono quasi per caso a oziare a Malibu (ci fu lo zampino del furbo Geffen), a risentirne o beneficiarne (punti di vista) è l’umore generale che veleggia sulle canzoni: un senso di rilassatezza che fa convivere la semplice quotidianità che caratterizzò il periodo post incidente a Nashville (l’apertura ‘On A Night Like This’) con l’oscurità e il presagio di qualcosa che non stava andando per il verso giusto; ecco l’amore vissuto in modo contrastante  (il folk di ‘Weeding Song’ dedicata indubbiamente a Sara scritta da Dylan in un batter d’occhio e che andò a sostituire la già pronta 'Nobody 'Cept You' poi comparsa sulle Bootleg series) con l’autobiografica, amara e dura analisi di se stesso: ‘Dirge’, voce e pianoforte è forse il capolavoro nascosto, una canzone dura, cruda e cinica come solo può essere una canzone che attacca con la frase “mi odio perché ti ho amato e per la debolezza dimostrata” e “sono felice che il sipario sia calato”, “ma sopravvivrò ” è il finale. E non sai mai quando inizia l’amore e quando il rimpianto: in ‘Something There Is About You’ si parla di amore, di morte e della sua vecchia Duluth. Non tutto è ancora bene a fuoco e la travagliata vita di un brano come  ‘Forever Young’, il più famoso del disco che diventerà un classico del suo repertorio, quasi inno (suo malgrado), canzone che Dylan scrisse a Tucson e che dedicò a uno dei suoi figli (Jakob?), è l’esempio più significativo: gli girava in testa da cinque anni e dopo aver addirittura pensato di escluderla una volta scritta, sotto l’insistenza del co produttore Rob Fraboni ne inserirà addirittura due versioni, una per lato. Una annulla l’altra o inspessiamo il concetto? Una terza, in solitaria, si materializzerà su Biograph. Un disco nato in fretta che rincorre il poco tempo. Per questo rimane sempre affascinante, e nonostante sia stato registrato in California, nella mia testa è sempre stato avvolto in una strana foschia novembrina che galleggia intorno a foglie secche, fuochi accesi e il rassicurante, caldo suono della Band che accompagna lì dietro. Se non è autunno questo? Fra poco sarà nuovamente primavera!





mercoledì 3 febbraio 2021

è uscito il mio libro METTI IL DISCO CHE STO ARRIVANDO! - Una Vita Di Dischi Aperitivo

è uscito il mio libro METTI IL DISCO CHE STO ARRIVANDO! - Una Vita Di Dischi Aperitivo

qualche anno fa all'orario giusto, iniziai a pubblicare "il disco aperitivo" nella mia bacheca Facebook. La cosa mi è un po' sfuggita di mano. 

Ha una memoria infinita, dicono sia democratico e a portata di tutti ma io del web non mi sono mai fidato troppo. Forse perché sono ancora uno di quelli all’antica che vuole metterci il naso dentro. Per questo ho raccolto su carta anni di scritti sparsi su blog e social: li voglio vedere, toccare e annusare proprio come faccio con la musica e i suoi ormai obsoleti supporti fisici che piacciono a noi “pochi”. Una raccolta di dischi che in qualche modo hanno segnato la mia vita (tanti ho dovuto escluderli, forse troveranno il loro spazio in futuro), di alcuni troverete storie più dettagliate, altri si limiteranno a incrociare il mio percorso, i miei sogni, i miei passi, per alcuni sono bastati solo pochi pensieri. Ci sono anche dieci anni di quei “dischi aperitivo” che mi hanno fatto compagnia nei social (Facebook), giorno dopo giorno, all’orario giusto. Un libro che serve a me per fare ordine ma spero giunga anche a voi con lo stesso spirito con il quale è stato concepito: nella più totale libertà di parlare di musica intrecciando ricordi personali, sensazioni e passione. 

Da oggi è disponibile il mio libro che raccoglie 150 di quei dischi. 


Le prime copie sono disponibili chiedendole direttamente a me. Potete contattarmi su Facebook o Messenger.
250 pagine. 
16 euro (spese di spedizione comprese) 
Pagamento PayPal. 
Per gli amici di Biella, ricordo che potrete trovarlo anche da Paper Moon Dischi, Cigna Dischi e Libreria Feltrinelli. Naturalmente è severamente vietato uscire dai negozi di dischi senza un disco.
Il libro è  anche ordinabile on line su molte piattaforme: Feltrinelli, Mondadori, IBS, Il Libraccio, Amazon, Hoepli...



lunedì 6 agosto 2018

BRUCE SPRINGSTEEN and the E STREET BAND Wembley Arena June 5, 1981

BRUCE SPRINGSTEEN and the E STREET BAND    Wembley Arena June 5, 1981





Il 7 Aprile del 1981 da Amburgo prende il via il primo vero tour europeo di Bruce Springsteen, dopo aver riprogrammato le date che inizialmente prevedevano i concerti inglesi in cima a tutti gli altri. Springsteen era spossato e reduce da 150 date americane e visto che davanti al pubblico anglosassone, l’unico che lo aveva già incontrato dal vivo nel 75, intendeva fare una buona impressione, spostò tutte le date in coda al tour, venendo forse a meno a una regola che si è sempre autoimposto: tutti gli spettacoli hanno la stessa importanza. Forse non sempre è così. Vengono toccate tante nazioni e tante città in quel tour (21 città e 33 concerti) ma manca l’Italia e per vederlo gli italiani si devono traferire in massa nella vicina Zurigo. Uno dei culmini del tour viene quindi toccato quasi alla fine con le sei date sold out alla Wembley Arena di Londra (il tutto si concluderà con la due giorni di Birmingham), concerti che molti grandi nomi del rock non si lasciarono sfuggire. In quei giorni furono avvistati: Mick Jagger e Keith Richards, Joe Jackson, Paul Cook, Pete Townshend, Elvis Costello e un giovanissimo Bono “Qualche sera dopo il concerto di Brighton andai con Pete Townshend in un club londinese a vedere un giovane gruppo che aveva appena pubblicato il primo album. Erano forti e avevano un nome strano, U2…meglio non riposare sugli allori”. Bruce Springsteen

“L’Europa ci aveva trasformato in una band più determinata e sicura di sé. Persino dall’imperturbabile Gran Bretagna ci aspettavamo grandi cose. Calcare un palco inglese per la prima volta dopo la grande messa in scena del ’75 fu un’esperienza snervante ma gratificante. Forti di due album nuovi, cinque anni di battaglie personali e tour interminabili, non eravamo più gli ingenui fannulloni sbarcati dal 747 della British Airways cinque anni prima. Sapevo di avere una band pazzesca: chi poteva farcela se non noi?” racconta Bruce Springsteen nella sua autobiografia.

Esce ora a 37 anni di distanza la testimonianza ufficiale di uno di quei sei concerti londinesi: l’ultimo, quello del 5 giugno, con 31 canzoni in scaletta tra cui ‘Jolè Blon’ che fece il suo debutto, un vecchio brano con cui Springsteen e Gary U.S. Bond aprivano l'album Dedication (1981) di quest'ultimo, ‘I Wanna Marry You’ suonata per la prima volta in quel tour europeo, e con gli ultimi 95 secondi del ‘Detroit Medley’ che conclude il concerto che sono stati recuperati da una registrazione di un fan, visto che l’originale andò perso. Le tre bombe iniziali 'Born To Run', 'Prove It All Night', 'Out In The Street' hanno il compito di stendere in anticipo la platea che ritorna a respirare con 'Follow That Dream', poi è tutto un lungo viaggio sulle quattro corsie del rock: le scosse elettriche di 'Candy' s Room', le luci nella notte di 'Pont Blank', l'epicità nei quindici minuti di 'Rosalita', la consapevolezza folk di 'This Land Is Your Land' e 'The River'.
“Ci eravamo detti: andiamo in Europa a spaccare e ce l’avevamo fatta. Fu un trionfo che ci lasciò stupefatti. Ci erano voluti quindici anni, sapete” Steve Van Zandt.
"Ricordo che quando tornammo a casa, alla fine, tutti avevamo la sensazione di aver vissuto una delle più belle esperienze della nostra vita". Bruce Springsteen

TRACKLIST: Born To Run, Prove It All Night, Out In The Street, Follow That Dream, Darkness On The Edge Of Town, Independence Day, Johnny Bye-Bye, Two Hearts, Who’ll Stop The Rain?, The Promised Land, This Land Is Your Land, The River, I Fought The Law, Badlands, Thunder Road, Hungry Heart, You Can Look (But You Better Not Touch), Cadillac Ranch, Sherry Darling, Jole Blon, Fire, Because The Night, I Wanna Marry You, Point Blank, Candy’s Room, Ramrod, Rosalita (Come Out Tonight), I’m A Rocker, Jungleland, Can’t Help Falling In Love, Detroit Medley.


lunedì 7 maggio 2018

It's Just Another Town Along The Road, tappa 7: FRANK GET (Gray Wolf)





FRANK GET-Gray Wolf (IRD, 2017)


Frank Get, un rocker con la R maiuscola, come ci sta dimostrando da anni, prima con il southern rock blues dei Tex Mex, poi con i Ressel Brothers, naturale prosecuzione di quel progetto, e proprio da TO MILK A DUCK, ultimo disco di questi ultimi, uscito nel 2014, è partito il suo progetto solista che lo ha portato alla registrazione del nuovo album  GRAY WOLF. Se nel precedente ROUGH MAN aveva fatto tutto da solo, questa volta siamo difronte a un lavoro corale, ricco di calde sfumature anche se l'approccio è quello viscerale e sanguigno che ha attraversato i suoi trent'anni e più di carriera. Rimane anche quella innata capacità da songwriter, mai banale ma ricercata e attenta che mi aveva fatto apprezzare il precedente disco con il recupero di vecchie storie e personaggi legati alla sua terra e alla sua famiglia. La stessa cosa succede in queste dodici canzoni: vecchi banditi gravitanti intorno al primo conflitto mondiale, sacerdoti dal grilletto facile vissuti in quella fascinosa e ricca terra di confine (Trieste, l'Istria) fino ad arrivare ai marciapiedi delle nostre città odierne, sempre uno spunto per buone riflessioni.
Musicalmente si spazia dall'assalto southern rock di 'Gray Wolf' con i fiati a sbuffare polvere al boogie contagioso di 'Colarich The Bandit', dalle ballate ('Identity' e 'Homeless' con dobro in evidenza) ai torridi blues  come 'The Outlaw Priest'. Tanta carne al fuoco ma soprattutto tanta strada percorsa e da percorrere ancora, senza barriere e ostacoli: dagli Stati Uniti (dove hanno preso forma un paio di canzoni) all'Europa dove spesso suona, fino alla sua Trieste, città del suo cuore che pompa continuamente sangue ricco e incontaminato di vero blues.






In viaggio con Frank Get

1)I km nel tuo disco. Il viaggio ha influenzato le tue canzoni?
Tanti, anzi tantissimi, alcuni dei pezzi (Homeless ed Identity) che troviamo in questo album li ho scritti durante il tour negli States, e cmq anche gli altri son stati concepiti durante il tour del disco precedente “Rough man”.

2)Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove torni spesso e volentieri?
A dire il vero l’Italia è l’unico paese in cui faccio difficoltà a far serate,…nei posti dove abbiamo suonato ci tornerei più che volentieri, ma come dicevo, la maggioranza dei concerti li faccio all’estero, quindi dal punto di vista del viaggiare assolutamente non è un problema anzi è uno stimolo! Speriamo di invertire un po’ il trend e riuscire a far qualcosa di più anche in Italia, e magari dalle tue parti!

3)Radici o vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita?
Ho sempre mantenuto il contatto con la mia città natale, infatti nei miei ultimi tre lavori ho raccontato di avvenimenti e personaggi della terra da cui provengo, che è ricchissima di storie, purtroppo a volte dimenticati. Ad ogni modo le più grosse soddisfazioni le ho ottenute suonando e lavorando in giro,negli ultimi 10 anni ho suonato quasi esclusivamente all’estero tra l’Austria, Slovenia, Croazia,Germania,Serbia, Francia, Olanda…e da giovane, negli anni in cui ho fatto anche il tecnico del suono, il girovagare è stato prevalente

 4)Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni?
… ce ne sarebbero tanti di tours a cui avrei voluto fare l’open act, se devo scegliere uno direi Bob Seger il tour in cui registrò “Live Bullet”…. Hahahah tra vent’anni, salute permettendo, mi vedo ancora sul palco,se oggi lo fanno i settantenni, viste le migliori aspettative di vita e soprattutto la legge fornero come minimo dovrò attrezzarmi per suonare fino ad ottant’anni….hahahaha

5)La canzone da viaggio che non manca mai durante i tuoi spostamenti.
Non ho una canzone fissa vado a periodi, posso dire che alcuni artisti son più ricorrenti….direi Allman Brothers,Southside Johnny, Steve Earle, Rolling Stones.



It's Just Another Town Along The Roadtappa 1: GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS/HERNANDEZ & SAMPEDRO
tappa 2: LUCA MILANI
tappa 3: PAOLO AMBROSIONI & THE BI-FOLKERS
tappa 4: MATT WALDON

tappa 5: LUCA ROVINI
tappa 6: GUY LITTELL




venerdì 1 dicembre 2017

THE FOUR HORSEMEN ( cantavano: "Rockin' is my business - business is good", mica vero. Una storia molto rock'n'roll)

THE FOUR HORSEMEN ( cantavano: "Rockin' is my business - business is good", mica vero. Una storia molto rock'n'roll)




1986: Stephen “Haggis” Harris (o Kid Chaos, scegliete voi) sta suonando il basso nel tour dei The Cult, dopo aver militato in svariate formazioni tra cui quella di Zodiac Mindwarp. La band di Ian Astbury e Billy Duffy è al top della fama, è appena uscito ELECTRIC, nel 1989 pubblicherà SONIC TEMPLE. Solo un pazzo lascerebbe una band del genere in quel momento. Ecco, quel fuori di testa è proprio Haggis. Al gallese emigrato a Los Angeles in cerca di fortuna, il ruolo di semplice comprimario va stretto, vuole una band tutta sua. "Senza di me stanno sicuramente meglio, almeno dal punto di vista finanziario, visto che non c'è più nessuno che sfascia lo stage ad ogni spettacolo" dirà della sua fuoriuscita dai The Cult. In soccorso arriva Rick Rubin, il re mida dei produttori, (produttore di Electric) che gli presenta un poco raccomandabile cantante italo americano, il suo nome è Frank C. Starr, il suo idolo è Bon Scott e ha la fama di attaccabrighe. Si narra che al primo incontro Starr si presentò con le mani sporche di sangue: si azzuffò fuori dallo studio di registrazione per trovare parcheggio (altre leggende dicono che pure Axl Rose uscì malconcio da una scazzottata con lui).
A completare la formazione: un tal Ken Montgomery, sopranominato “Dimwit” e fratello di Chuck Biscuits, batterista di Danzig ("aveva capelli unti, pochi denti e un osceno tattoo dei Black Sabbath su un braccio. Gli ho chiesto 'suoni?' e lui ha risposto: 'Sì, le pentole’” racconta Haggis in una vecchia intervista); alla seconda chitarra Dave Lizmi, fino ad allora conosciuto più alle famiglie a cui consegnava le pizze a domicilio; al basso Ben Pape ex Scream, band da cui uscì Dave Grohl prima di entrare nei Nirvana.
THE FOUR HORSEMEN è anche il titolo del primo EP, formato da sole quattro canzoni: ‘Welfare Boogie’, ‘Shelly’, ‘Highschool Rock n Roller’, Hard Lovin’ Man’. Nulla di originale, tanto che gli stessi membri del gruppo non nascosero le varie influenze, i ganci e i rimandi presenti (AC/DC e Status Quo su tutti). Ma se nel rock conta anche l’attitudine, i THE FOUR HORSEMEN ne avevano da vendere: il loro sporco southern rock sposava i riff hard blues degli AC/DC (“eravamo dei grossi fan degli AC/DC”), si invaghiva del polveroso boogie alla ZZ Top e flirtava appassionatamente con lo stile di vita “sex, drugs and rock’n’roll”. Insomma ce la mettevano tutta per essere irriverenti, sfrontati ma fottutamente veri, e la cosa riusciva loro molto bene.
"Siamo punk nello spirito, non nel tipo di musica. Gli anni settanta sono stati veramente grandi, mi piace sperare che possano tornare" Haggis. Una carriera che sembra prendere il volo con la registrazione del primo album NOBODY SAID IT WAS EASY (1991) trainato ironicamente dal manifesto ‘Rockin’ Is Ma’ Business’ (che poi il business andasse bene era tutta un’altra storia, ma poco importa), ‘Tired Wings’, ‘Wanted Man’(una sorta di autobiografia del cantante Frank Starr) e l’atipica ‘Moonshine’ con la voce di Starr registrata via telefono.
“La mie giornate sono intense (riparo auto, corro sui dragster, giro in moto e gioco a biliardo) e mi rifiuto di pianificarle attorno alla registrazione di un album. Mi avevano detto che avevo finito e io me ne sono tornato a casa. La canzone gliel’ho cantata al telefono.” Un album registrato in due settimane con Rick Rubin come produttore anche se “Rick non ha avuto alcun input nel disco, ci abbiamo messo talmente poco che non gli sarebbe stato possibile”. In mezzo ci sono importanti tour insieme a leggende come i Lynyrd Skynyrd e gli allora ancora poco conosciuti Black Crowes. “Non abbiamo smesso un momento dall’agosto 1991. 8 settimane con i Black Crowes, 7 con i Lynyrd Skynyrd, 4 con Joan Jett e 6 da soli. Lavoriamo sempre. Con i Lynyrd Skynyrd ci siamo veramente divertiti e, pare che l’apprezzamento sia stato reciproco”.
Oltre ad avere attitudine da vendere, i The Four Horsemen vendettero anche l’anima al diavolo. Dopo il primo disco, nel 1994, il batterista Dimwit morì per overdose, mentre il cantante Starr lasciò questa terra dopo un incidente motociclistico con i conseguenti anni di coma (tanti) nel 1999. La classica (anti) rockstar vittima dei suoi eccessi.
Intanto, tra una uscita di galera e l’altra di Starr, nel 1996 era uscito il secondo disco GETTIN’ PRETTY GOOD AT BARELY GETTIN’ BY (1996) dagli umori sudisti più marcati che aveva nella cover ‘Still Alive And Well’ di Rick Derringer e Johnny Winter il punto di forza. In mezzo: DAYLIGHT AGAIN, disco perduto con i soli Haggis e Lizmi al timone, registrato nel 1994 e rimesso in commercio solo nel 2009. Tutto molto rock’n’roll! Tutto troppo breve...








martedì 13 giugno 2017

It's Just Another Town Along The Road, tappa 5: LUCA ROVINI (Figure Senza Età)


LUCA ROVINI- Figure Senza Età (autoproduzione/IRD, 2017)




Avevo già scritto la recensione di FIGURE SENZA ETÀ da qualche settimana, ero in attesa di pubblicarla quando pochi giorni, fra le tante parole che viaggiano confuse nel social network, lo stesso che mi ha fatto conoscere il simpatico Luca Rovini, ho trovato un buono spunto per descrivere e presentarvi in primis la sua attitudine, il che, molte volte, è più esplicativa di una noiosissima recensione track by track. Per la musica, comunque, vi rimando anche alle recensioni dei due dischi precedenti che troverete nei link sotto.

Pochi giorni fa Rovini ha pubblicato sulla sua bacheca Facebook, con giusto orgoglio, il ritaglio di una recensione molto positiva uscita nel più venduto mensile italiano che tratta musica americana. Naturalmente sono fioccate le congratulazioni degli amici, tranne la voce fuori dal coro di un noto ex direttore di riviste musicali che scriveva, con fare abbastanza provocatorio, visto il passato e le sue relazioni con la rivista: "ti cambierà la vita?".
Luca non ha aspettato molto nel dare la sua risposta: "ma nemmeno te hai mai cambiato la vita a qualcuno. E poi io sto bene nella mia vita. È solo una bella soddisfazione" . Ecco, in queste parole di risposta c'è tutto lo spirito del cantautore pisano. A voi le conclusioni.
Non nascondo nemmeno che una tra le  principali ispirazioni per questa piccola rubrica dedicata alla musica italiana e la sua strada (chilometri, locali, viaggi nel tempo e nel futuro), mi è arrivata da Luca Rovini, anche se lui sembra smentirmi qualche riga più sotto nell'intervista, dicendo di essere molto legato  alle sue radici. Credo che Luca rappresenti bene in modo metaforico la strada di un musicista. Arrivato piuttosto tardi al primo disco, nel giro di tre anni ha macinato sia tanti chilometri di passione che altrettanti in crescita musicale: e la bella ballata di frontiera 'Companeros' con la tromba di Mike Perillo è lì a dimostrarlo. Figure Senza Età è il lavoro più centrato fino ad ora: a livello di testi quanto sotto l'aspetto musicale, curatissimo. Un disco piuttosto uniforme se togliamo l'up tempo di 'Boogie Finchè Mi Va' e la bella 'Vite di Contrabbando', ma in grado di mettere in fila alcune delle sue principali figure di riferimento: da Guy Clark (che qui rappresenta un po' tutto l'universo di una generazione di cantautori americani che ha lasciato il segno senza troppo clamore mediatico, amiamo chiamarli ancora loser) del quale rifà quella 'Desperados Waiting For The Train (che diventa  'Disperati In Cerca Di Una Vita') estrapolata dallo splendido OLD No 1, alla mitica figura di Carlo Carlini in 'L'ultimo Hobo', colui che per primo portò e fece conoscere in Italia e a un giovane Rovini in trasferta a Sesto Calende, una buona parte di quei cantautori.

"Non ho niente nelle mani, solo un boogie..." canta in 'Boogie Finchè Mi Va'.
Questa recensione è come avere nulla tra le mani, non cambierà la vita di nessuno, ne sono conscio, spero solo possa renderla più piacevole a più persone possibili. Almeno per quarantacinque minuti, tanto quanto la durata del disco. Noi stiamo bene nella nostra vita.





In viaggio con Luca Rovini

1) I km nel tuo disco. Il viaggio ha influenzato le tue canzoni?
Indubbiamente sì, qualsiasi tipo di viaggio ha influenzato le mie canzoni. Non solo lo stare sulla strada, andare in giro per paesi, osservare la gente, credo in molti tipi di viaggio, c’è quello delle emozioni, quello dell’amore, quello della solitudine e spesso anche quello del dolore. Sono tutti viaggi che ti sbattono in qua e là, ti girano attorno e poi spariscono all’improvviso, magari non li vedi più ma restano dentro di te. Questo succede a tutti. Poi un giorno ti svegli e te li ritrovi lì che vogliono venire a trovarti, da me si materializzano con la voglia di scriverli come canzoni. E’ un viaggio della vita, io ho scelto di raccontarlo così, con una chitarra.
2) Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove torni spesso e volentieri?
Adoro viaggiare per andare a suonare in giro, è una bella esperienza, si incontrano un sacco di persone, vedo anche molto entusiasmo, ci sono veri appassionati là fuori. Si fanno km su km per suonare 2 ore, questo è amore e quando è ripagato con gli applausi non c’è cosa più bella. Il palco, qualsiasi palco, è il luogo della vera libertà, quando sei lì sei libero e io lo adoro. Non c’è un locale che amo particolarmente, mi piace suonare ovunque sia ben accetto. Se proprio devo dirti un posto in cui amo ritornare ogni tanto è per strada, è bello suonare mentre la gente passa, tutti così carichi dei loro problemi, mi piace offrire un momento di leggerezza e svago. Quello è un luogo senza compromessi, quando suoni e i bambini si fermano ad ascoltare, loro che non hanno preconcetti, sono puri, è bello averli lì davanti, gli regalo sempre dei cd anche se i genitori non vogliono mai. Il lato negativo è quando le luci si spengono e torni a casa, ma dura un momento perché lì hai tre figlie meravigliose che ti aspettano, è un altro tipo di palco ed è bellissimo anche quello.
3) Radici o vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita?
Sicuramente radici, mi piacciono le mie radici. Tante volte ho pensato di andarmene ma poi ho sempre pensato che non puoi andartene veramente se non con la tua testa. E mi piace far sentire le mie radici, credo anche che sia giusto. Ad esempio in molti mi dicono che quando canto si sente troppo il mio accento toscano, che dovrei studiare dizione, ma proprio è una cosa che non farò mai. Amo le radici e odio i confini.
4) Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni?
Avrei voluto aprire per Willy Deville o per Steve Earle, oggi mi piacerebbe aprire per Francesco De Gregori. Tra vent’anni avrò 64 anni, non so se avrò fatto altri dischi ma di sicuro avrò una chitarra in mano e qualche nuova canzone da cantare a qualcuno.
 5) La canzone da viaggio che non manca mai durante i tuoi spostamenti.
Mi porto sempre un sacco di cd quando viaggio, Drive South di John Hiatt mi ha accompagnato per tantissimi anni, tutto Slow Turning in realtà ma quella è proprio la canzone che mi fa sentire bene. Mentre guido mi piace ascoltare anche Steve Earle, Elliott Murphy, David Johansen, Dwight Yoakam. Credo di non aver mai fatto un viaggio ascoltando i programmi alla radio.



RECENSIONE: LUCA ROVINI-Avanzi e Guai (2013)
RECENSIONE: LUCA ROVINI-La Barca Degli Stolti (2015)

It's Just Another Town Along The Road
tappa 1: GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS/HERNANDEZ & SAMPEDRO
tappa 2: LUCA MILANI
tappa 3: PAOLO AMBROSIONI & THE BI-FOLKERS
tappa 4: MATT WALDON



venerdì 16 dicembre 2016

NEIL YOUNG: gli ANNI 2000




SILVER &GOLD (2000)

 Neil Young entra nel nuovo millennio a passi morbidi con un disco di ballate acustiche che pare un seguito di HARVEST MOON, uscito ormai otto anni prima. Prodotto da Ben Keith (Jack Nitzsche si rifiuterà di produrlo dopo aver ascoltato alcuni brani), le dieci canzoni indagano perlopiù sull’aspetto intimo e famigliare (‘Daddy Went Walkin’), sull’amore (‘Razor Love’), con qualche nostalgico sguardo al passato musicale (‘Buffalo Springfield Again’). Uscirà dopo LOOKING FORWARD, il tanto atteso ma deludente ritorno di CSN&Y, a cui Young regalerà alcune buone tracce: ‘Slowpoke’ che doveva finire qui.


ARE YOU PASSIONATE? (2002)
 Il disco nasce sotto l’ombra tragica e nera dell’undici settembre (2001) e proprio da un episodio accaduto all’interno di uno degli aerei dirottati (il Flight 43) prende forma quella ‘Let’s Roll’, il cui testo mal interpretato farà tanto discutere. Le canzoni registrate prevalentemente con Booker T. & The MG’s veleggiano su un R&B mai troppo incisivo ma piacevole, seguendo le orme del più riuscito THIS NOTE’S FOR YOU. ‘Goin’ Home’, registrata con i Crazy Horse è l’unica canzone a smarcarsi nettamente dal mood imperante.

GREENDALE (2003)
 Uno degli album più ambiziosi di tutta la carriera di Young che questa volta si inventa una città fantastica, completa di cartina, personaggi, istituzioni e comparse, che diventa metafora della politica e della società americana. Un attacco diretto e beffardo che diventerà anche un film. I testi vengono però narrati su un tappeto rock blues, in generale, poco entusiasmante, ma diretto e sincero.







PRAIRE WIND (2005)
 Il disco nasce dopo i problemi di salute causati da un delicato intervento per un aneurisma celebrale che per poco rischia di essergli fatale dopo una ricaduta post operazione. Young si rimette a tempo record e finisce questo album già programmato. “ La cosa migliore sarebbe stata fare musica, così prenotammo uno studio a Nashville. Cominciai a scrivere un nuovo album. Sentivo che mi avrebbe tenuto occupato fino a quando sarei entrato in ospedale”. Un disco dai testi personali, drammatici e intimi, spalmati su un piacevole country rock senza grandi picchi ma anche senza cadute di tono. Un disco salvifico e di mestiere.

LIVING WITH WAR (2006)
 Che Neil Young si sia ripreso alla grande lo dimostra questo istant record barricadero registrato con rabbia in pochissimo tempo insieme ad una band essenziale composta solamente dal batterista Chad Cromwell, il bassista Rick Rosas e dalla tromba di Tommy Bray che compare qua e là, a cui però si aggiungono i sontuosi cori di circa cento elementi. Un hard rock folk potente e diretto, stemperato solamente dagli onnipresenti, a volte invadenti, cori. Lo spunto per tutto ciò arriva dopo la dichiarazione di guerra al Medio Oriente da parte di Bush, che verrà maltrattato in lungo e in largo (‘Let’s Impeach The President’ guida la fila). “Forse era il gruppo di canzoni palesemente più esagerate che avessi mai scritto, ma abbiamo fatto quello che andava fatto, dunque non mi pento”.


CHROME DREAMS II (2007)
 Riprendendo il titolo, e non solo, di uno dei tanti album registrati e mai usciti (il vero CHROME DREAMS sarebbe dovuto uscire nel 1977), è una raccolta di canzoni apparentemente poco omogenea (canzoni nuove e vecchie ripescate), dove si passa dal country di ‘Beautiful Bluebird’ al rock di ‘Spirit Road’, che invece pare funzionare molto bene, pur ruotando intorno alle due lunghissime ‘Ordinary People’ (diciotto minuti) e ‘No Hidden Path’ (quattordici).





FORK IN THE ROAD (2008)
 Altro disco di pancia. "Fork In The Road" esce a sorpresa anticipato da alcuni strani video postati sul suo sito Myspace. Canzoni elettriche come la tiletrack, la canzone di apertura ‘When worlds collide’, ‘Johnny Magic’, ‘Hit the Road’. Canzoni dalle chitarre metalliche (‘Fuel line’) , blues (‘Get behind the wheel’), country come la splendida ‘Light a Candle’. Tutte pero' con un denominatore in comune: i testi. Neil Young prendendo spunto dalla storia della Lincvolt Continental inizia a lavorare ad un personale progetto dedicato alle care automobili: costruire una centrale elettrica che possa fornire energia alternativa al funzionamento delle auto. "Scrivevo ed eseguivo un sacco di canzoni sulla Lincvolt e sull'argomento delle auto alimentate a elettricità. L'album Fork In The Road fu pubblicato nel 2009. Un sacco di gente s'incazzò perchè avevo fatto un album su questo argomento e ricevetti delle pessime recensioni, ma era ciò che avevo in testa e so che posso essere ossessivo. essere ossessivo non è poi così male per la creatività".


LE NOISE (2010)
Le Noise va ascoltato di notte, quando il buio si impossessa della vista e rimaniamo solitari con i nostri dubbi e pensieri. Ci voleva la mano di un produttore di grido come Daniel Lanois per dare, ancora una volta, una sterzata alla carriera di Young. Questo sarà un disco che verrà ricordato alla pari dei suoi migliori lavori. Così credo. Neil Young da solo e la sua chitarra, acustica ed elettrica. Tutti qua gli ingredienti su cui Lanois ha lavorato. Registrato nella casa del produttore, questo è un disco chitarristico al cento per cento, tutto ciò che si sente è stato prodotto dalla chitarra di Young: riverberi, note basse, rumori ed effetti che costruiscono canzoni su cui si stagliano i testi di Young. Canzoni per buona parte nate acustiche e trasformate in elettriche, un esperimento che ha dato buoni frutti. Le otto canzoni di Le noise saranno accompagnate da altrettanti video , in bianco e nero e suggestivi , girati dal regista Adam Vollick e che sembrano rappresentare alla meglio le canzoni in immagini. “Lo chiamai Le Noise, per Dan. Era uno scherzo in franco-canadese, un modo molto inglese per pronunciare Lanois”.


AMERICANA (2012)
 Non pago di sguazzare in mezzo a nastri e bobine delle sue composizioni archiviate nel fantomatico museo personale che è il suo Broken Arrow Ranch, Young ha pensato di dare una spolverata anche agli archivi del musichiere della tradizione americana, lui nato a Toronto in Canada. Per dare più sale ad un'altra delle sue bizzarre idee, ha richiamato in studio i Crazy Horse al completo, cosa che non accadeva dall'incisione di Broken Arrow(1996). Neil Young come un ragazzino alle prime armi si butta brutalmente su standard della musica americana con spietata irruenza (‘Oh Susanna’, ‘Clementine’, ‘Jesus Charlot’), avvicinandosi in alcuni frangenti all'intemperanza di Ragged Glory (1990) e continuando a portare avanti la sua idea di catturare l'immediato e darlo in pasto a tutti.


PSYCHEDELIC PILL (2012)
 Dopo l’aperitivo AMERICANA, arriva Psychedelic Pill, con un titolo che sembra rimandare inevitabilmente ai periodi "stonati" di Tonight's The Night(1975), si presenta subito in modo sontuoso ed estremo, incutendo pure un po' di timore reverenziale: 2 CD (o 3 LP) con solamente otto tracce (più una bonus track) tra cui spiccano immediatamente all'occhio i 28 minuti di ‘Driftin'Back’ e i 16 di ‘Ramada In’n e ‘Walk Like A Giant’. Dentro, tutto quello che il connubio con i Crazy Horse ci ha regalato negli anni: lunghe jam chitarristiche, assalti ruvidi, cavalcate, feedback, ma anche folk e nostalgiche melodie '50. Prodotto da John Hanlon e Mark Humphreys e registrato nello studio Audio Casablanca come il precedente Americana. A proposito di Crazy Horse: “Facendo i nuovi album Americana e Psychedelic Pill, ho scoperto che con l’andare del tempo questa potenza cosmica non solo è diminuita ma è cresciuta”.


A LETTER HOME (2014)
 L’intento sembrava pure nobile e originale: registrare canzoni come si faceva nel dopoguerra per mandare messaggi ai famigliari, proprio come fa Neil Young in apertura del disco. “Hey Mamma, il mio amico Jack ha questa scatola dalla quale si può parlare!”. Jack White fornisce la sua cabina sforna 45 giri al Third Man Records Store. Neil Young ci mette chitarra acustica e un repertorio di cover che potrebbe pure essere interessante se il suono non fosse così scadente e quasi inascoltabile. Dylan, Springsteen, Phil Ochs, Willie Nelson. Tim Hardin tra i prescelti. Ma visto che lo scopo era proprio quello: l’esperimento si può dire riuscito.


STORYTONE (2014)
 C’è l'amore per le automobili, ben rappresentato dall'acquerello in copertina e nei disegni che illustreranno la seconda parte di biografia Special Deluxe: A Memoir of Life & Cars, c'è la continua ricerca del posto ideale dove poter vivere serenamente, luogo che nella sua testa esiste già ed è dipinto di ecologico verde; c'è il tormentato amore che dopo 36 anni di matrimonio con Pegi Young ha imboccato la strada che porta verso una nuova fiamma, l'attrice Daryl Hannah che condivide con lui l'impegno ambientalista; c'è la voglia di mettersi continuamente alla prova come artista. Altro doppio come Psychedelic Pill (dieci canzoni acustiche e dieci canzoni, le stesse, risuonate con l'orchestra) altro ambizioso progetto ma interessantissimo per poter saggiarne lo stato della vena creativa (buona) e vedere lo sviluppo delle canzoni, dieci buone canzoni.


THE MONSANTO YEARS (2015)
 Se volete bene a Neil Young accetterete di buon grado anche questo disco, nato sì d’istinto, ma incentrato su tematiche care al canadese da più di quarant’anni, fin da quei versi “guarda Madre Natura in fuga” inclusi in After The Gold Rush del 1970, proseguite poi negli anni 80 con i concerti Farm Aid, messi in piedi con John Mellencamp e Willie Nelson in difesa degli agricoltori, e ribadite con forza anche durante l’ultimo tour con i Crazy Horse. L’attacco alla multinazionale agrochimica Monsanto, rea di mettere in commercio sementi OGM, è duro, liricamente ingenuo, ma non fa sconti. I figli di Willie Nelson, Lukas e Micah con i loro Promise Of The Real, accompagnano l’amico di papà come farebbero dei giovani cavalli pazzi alle prime armi con qualche pausa per tirare il fiato come nella sbilenca ballata country ‘Wolf Moon’ che si riallaccia ad HARVEST MOON.

 PEACE TRAIL (2016)
Un istant record di protesta come altri della sua discografia recente (LIVING WITH WAR, FORK IN THE ROAD, THE MONSANTO YEARS), registrato agli Shangri-La Studios di Rick Rubin in una sola settimana, per dare sfogo alle innumerevoli battaglie che sta combattendo. Un disco di pancia che sacrifica la bellezza per il messaggio. Ora sta a voi scegliere da che parte stare. Le dieci canzoni non fanno altro che rimarcare il forte impegno ambientalista che ha tenuto banco in tutte le recenti mosse con i Crazy Horse e con i Promise Of The Real: la battaglia-poi vinta- dei nativi americani contro l’oleodotto che minacciava le loro terre in North Dakota in 'Indian Givers'-da qui è partito tutto- la storia del contadino 'John Oaks', il mago dell'irrigazione che ha difeso il suo lavoro fino alla morte come ci narra la discorsiva 'John Oaks', aggiungendo qualche altra stoccata alla politica, allo sfrenato consumismo, e pure qualche vetro rotto più intimo e personale (la folkie ‘Glass Accident’) . Un bollettino pieno di notizie e qualche buona speranza come canta nella title track: "continuerò a piantare semi finchè qualcosa è in crescita". Nulla di nuovo quindi? No. Qualcosa di nuovo c'è: PEACE TRAIL è un disco totalmente acustico, scarno ed essenziale, ma incatalogabile, che suona quasi raffazzonato ad un primo ascolto ma diverso da qualunque cosa fatta prima, dove la base ritmica composta dalla batteria in grande evidenza del veterano Jim Keltner (splendido il suo lavoro percussivo e tribale lungo tutto il percorso) e dal basso di Paul Bushnell sembrano spesso fare da sottofondo alle incontenibili parole di Neil Young, cercando di inseguirlo, ma Young è un fiume in piena che va diritto per la sua strada, e quasi non si fa prendere.

vedi anche:
RECENSIONE: NEIL YOUNG-A Treasure (2011)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE- Americana (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE-Psychedelic Pill (2012)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At The Cellar Door (2013)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo, 21 Luglio 2014
RECENSIONE: NEIL YOUNG + PROMISE OF THE REAL-The Monsanto Years (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Bluenote Cafè (2015)
RECENSIONE: NEIL YOUNG+PROMISE OF THE REAL-Earth (2016)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Peace Trail (2016)