lunedì 24 agosto 2020

RECENSIONE: ONDARA (Folk N'Roll Vol. 1: Tales Of Isolation)

ONDARA 
Folk N'Roll Vol. 1: Tales Of Isolation (Verve Forecast Records, 2020)  





racconti dal lockdown

Tre giorni per scriverle, tre giorni per registrarle, e un intero lockdown come sfogo ultimo di di ansie, paure e fonte di ispirazione. È nato così Folk N'Roll Vol. 1, Tales Of Isolation, il secondo album di JS Ondara. Già con l'esordio Tales Of America, uscito l'anno scorso aveva fatto parlare di sé, prenotando un posto tra i più interessanti giovani folk singer d'America, meritandosi una nomination al Grammy Award. Se fossimo negli anni settanta un bel "nuovo Dylan" non glielo avrebbe tolto nessuno.
Peccato che JS Ondara sia nato a Nairobi, Kenya, ventisette anni fa e la sua America sia letteralmente andato a conquistarsela con caparbietà d'altri tempi. Folgorato dall'ascolto di Freewheelin' di Bob Dylan e dalle canzoni di Jeff Buckley, Ondara iniziò a scrivere testi in inglese (non la sua lingua madre) in un foglio e disegnare melodie dentro alla sua testa, sognando di avere tra le mani quella chitarra che i suoi genitori non potevano permettersi. Nasce qui la voglia di lasciare l'Africa e coltivare il suo sogno. Vola in America per studiare musicoterapia, ma i suoi video amatoriali caricati su Youtube vengono notati. Lascia lo studio, sì trasferisce a Minneapolis, Minnesota (mica una città a caso), impara a strimpellare una chitarra e scrive testi, a centinaia, solo undici finiranno nel suo debutto, abbastanza per impressionare la critica. I risultati potete ascoltarli con facilità. 
Questo secondo disco è nato invece come forma di terapia "come sono sicuro che sia successo a tutti noi, ho scoperto che il periodo di isolamento stava logorando l'equilibrio della mia sanità mentale" racconta. A un primo periodo di blocco mentale hanno fatto seguito una valanga di parole. 
"Sono storie sulle ramificazioni di un'intera popolazione che si isola; sulle cicatrici personali, politiche ed economiche che permarranno per il resto della nostra vita per molto tempo, dopo che avremo trovato la nostra strada oltre questo"
Folk minimale: chitarra acustica, armonica ('in' Shower Song' canta a cappella con il solo battito di mani), la benedizione del primo Bob Dylan, dello Springsteen più folkie, del Paul Simon meno etnico e più urbano e di Jeff Buckley dietro e Ondara, che si lascia andare anche al falsetto, da sfogo alle sue paure cantando di disoccupati ('Pulled Out Of The Market') e lavoratori ('From Six Feet Away'), delle sempre maggiori difficoltà di tirare avanti, ampliate dalla pandemia ('Mr. Landlord'), di ingiustizie sociali ('Pyramid Justice'), finendo il disco con una serie di canzoni legate all'isolamento e a quella particolare onda emotiva che sembrava presentarsi quasi a scadenze regolari e che ci ha fatto passare dall'euforia all'esaurimento nel giro di un battito di grafici giornalieri. 
Questo disco è un piccolo documento da tramandare alle prossime generazioni: nel 2020 abbiamo vissuto il lockdown con il pesante carico di incertezze legate dietro, qualcuno è riuscito a mettere tutto in musica molto bene.





mercoledì 19 agosto 2020

RECENSIONE: MO PITNEY (Ain't Lookin' Back)

MO PITNEY
   Ain't Lookin' Back (Curb Records, 2020) 




sempre avanti

"Non guardare indietro" canta Mo Pitney, giovane cantautore dell'Illinois di casa a Nashville, classe 1993, nella title track del suo secondo disco in carriera. 
 "È una canzone sul lasciar andare il passato e trovare la capacità di guardare a un futuro luminoso attraverso la ricerca del perdono e della redenzione" dice in una intervista. 
E allora guardiamolo in faccia questo futuro. Pitney lo affronta con un disco motivazionale dove libertà, positività e redenzione ( la sua fede cristiana esce prepotente) incrociano sovente le loro strade. Il suo è un country folk, pulito e moderno ma che sa guardare al passato con rispetto e devozione, con alcuni buoni graffi elettrici. Gli ospiti presenti sono il sigillo sul suo futuro. Un disco che parte e si chiude in modo malinconico però: con 'A Music Man', riflessione folk autoconfessionale sulla musica (sembra che la sua chitarra sia una missione divina) dove spicca la presenza di Jamey Johnson e si chiude con il cupo folk con aperture gospel 'Jonas' che mette in mostra la sua visione cristiana sul mondo attraverso gli occhi di di chi affondò i chiodi sulla carne di Gesù. In mezzo ci sono belle sorprese come il bluegrass 'Old Home Place' che vede l'intervento di una fantomatica His All Star Band tra cui spiccano il mitico Marty Stuart e Ricky Skaggs, oppure il southern rock di 'Ain' t Bad For A Good Ol' Boy', il RnB di 'Local Honey', la più ammiccante e pop 'Boy Gets The Girl', la bella 'Old Stuff Better' country folk disteso su lap steel e armonica dove confessa di "essere nato vecchio". Gli si crede. Mo Pitney ha una bella penna che se lasciasse giù solo un poco di sbavatura in più sarebbe quasi perfetto. 
Certo: bisogna essere di larghe vedute e accettare la sua fede e la sua visione sul mondo.



venerdì 14 agosto 2020

RECENSIONE: DEEP PURPLE (Whoosh)

DEEP PURPLE   Whoosh (Ear Music, 2020)


liberi e felici

E quando arriva il momento  dell'acuto tu parti (anche solo con la mente per non ricevere una botta in testa dal vicino) ma quell'uomo là a centro palco non ti segue. È un po' quello che è successo qualche anno fa ad un concerto dei Deep Purple, Ian Gillan non mi veniva dietro, si fermava lì, come se la strada verso l'acuto fosse interrotta. Ma come? Questo per dire che i Deep Purple non sono più quelli di una volta ma da quando Bob Ezrin ha iniziato a prendersene cura (questa volta li ha portati a registrare a Nashville) stanno tirando fuori degli album freschi, rilassanti, a tratti scoppiettanti, ma in totale libertà musicale e stilistica, senza rincorrere il passato. 

"Semplicemente ci mettiamo a suonare, non abbiamo piani prestabiliti. Non scriviamo le canzoni dall’inizio alla fine: le suoniamo finché non si evolvono in qualcosa che sorprende noi stessi. Non ci interessa essere all’altezza delle aspettative di nessuno se non di noi stessi. Con una grande storia come la nostra, forse l’unica cosa che cerchiamo di far è non essere una parodia di noi stessi." così Roger Glover sulle pagine di Billboard Italia.

INFINITE, uscito nel 2018,con il suo tour The Long Goodbye doveva essere il canto del cigno e invece…eccoli di nuovo qua. Dopo 52 anni di carriera nessuno può permettersi di dire loro qualcosa. Questo Whoosh si presenta bene fin dalla copertina, finalmente! È tutto oliato alla perfezione nella formazione che ormai sta diventando la più longeva di sempre: Ian Gillan, Roger Glover, Ian Paice, Steve Morse e Don Airey. Le fughe barocche di Don Airey in 'Nothing At All', l'hard rock di 'No Need To Shout', 'The Long Way Round' e dell'apertura 'Throw My Bones', l'omaggio al rock'n'roll di 'What The What', la strumentale 'And The Address' piccola lezione di buon gusto pescata addirittura dall'esordio del 1968, le fughe progressive di 'Step By Step', la misteriosa 'The Power Of The Moon' sono tutte canzoni nate con gran spontaneità e con l'ancora ben lanciata nel presente. Certo, manca la hit trainante ma le tredici canzoni vanno prese tutte insieme, un calibrato mix di rock e sperimentazione che da un gruppo con più di cinquant'anni sulle spalle non ti aspetteresti più.


giovedì 6 agosto 2020

RECENSIONE: JOHN CRAIGIE (Asterisk The Universe)

JOHN CRAIGIE   Asterisk The Universe (Zabriskie Point Records & Thity Tigers, 2020)

folk senza tempo
"La mia ispirazione viene dall'interazione umana". Così John Craigie, 40 anni, cerca di spiegare la sua innata capacità di scrivere canzoni. Questo è il suo settimo disco anche se pochi lo sanno. Potrebbe essere il disco del grande salto ma penso che a Craigie interessi poco la fama quanto la libertà di espressione e movimento, lui nato a Los Angeles e cresciuto a Santa Cruz: salire sopra un palco e interagire con il pubblico, coinvolgere le persone con sarcasmo, arguzia e intelligenza. Per questo è spesso accostato al compianto John Prine. I grandi palchi li ha calpestati seguendo in tour Jack Johnson, quelli a lui più consoni aprendo per Todd Snider. Due che hanno creduto in lui prima di tutti. 
 Queste canzoni sono l'esempio del suo modo di scrivere dove umorismo, filosofia e vita di strada trovano un unico comune denominatore nel folk intriso di umori soul di marchio Motown, nei limpidi e leggeri lampi di psichedelia, sempre con l'accento sudista ben in evidenza. Asterisk The Universe, titolo che tradisce i suoi vecchi studi matematici impressi in una laurea e una copertina top - particolare da non trascurare - potrebbe essere datato 1966 come 1975, non ha importanza perché i suoi temi sono in qualche modo sempre di moda: il saper rimanere a galla tra le intemperie ('Hustle') scuotendo la voglia di rinascita ('Part Wolf'), rapporti d'amore complicati (la corale 'Don' t Ask'), stili di vita a lui consoni (la ballata dylaniana 'Nomads', semplice, pura come acqua di sorgente), la sempre carente giustizia (il soffuso funky di 'Climb Up') e storie perse nel secolo scorso come quella raccontata in una magistrale, cupa, lisergica, misteriosa e piena di riverberi 'Vallecito'. "Stavo leggendo alcune storie di sopravvivenza di esseri umani catturati in situazioni meteorologiche estreme. Una storia ebbe luogo in Colorado nei primi anni del 1900…" due viaggiatori colti da una bufera di neve si dividono i viveri di una cabina trovata per puro caso. Una convivenza che nessuno dei due aveva messo in preventivo. Riuscita. Poi fa sua la 'Crazy Mama' di J. J. Cale, avvolta in una atmosfera da piccolo pub fumoso senza la necessità di tagliare qualche parola da studio prima dell'esecuzione. Mentre in 'Don' t Deny' esce tutto il Bob Dylan che ha dentro, tanto da sembrare una buona outtake dei Basement Tapes con il fiato di tutta la Band dietro. Per portare a termine la sua opera si avvale di pochi ma fidati amici come le Rainbow Girls (il disco è stato registrato a casa loro in Nord California e in 'Used It All Up' si impossessato della scena per qualche minuto), Jamie Coffis dei Coffis Brothers con il suo presente Wurlitzer, Lorenzo Loera dei California Honeydrops e Ben Barry della Old Soul Orchestra. 
 Folk senza tempo, così come dev'essere. John Craigie ci vive immerso, comodamente a proprio agio.




domenica 2 agosto 2020

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 84: NEIL YOUNG + CRAZY HORSE (Ragged Glory)

NEIL YOUNG + CRAZY HORSE  Ragged Glory (Reprise, 1990)





love and only love
"Attaccavo la Old Black, accendevo gli amplificatori e una canna, poi iniziavo a suonare e scrivere". Così Neil Young racconta la genesi di Ragged Glory tra le pagine della sua autobiografia e vi giuro io dentro a quella foto di copertina con effetto fish eye avrei voluto starci durante le poche settimane nelle quali prese forma questo ritorno elettrico con i Crazy Horse (Frank Sampedro, Ralph Molina, Billy Talbot). Mi sarei messo in un angolo, seduto con le gambe incrociate sopra a un tappeto, con tutta la consapevolezza di sottoporre le mie orecchie a un grande rischio. Sì proprio quel tappeto a destra che si vede in copertina. Non avrei disturbato nessuno. Giuro. 
Il fienile del ranch fu adibito da studio di registrazione con assi di compensato e attrezzature analogiche anche se David Briggs chiese e ottenne anche uno studio mobile da mettere in cortile. I Crazy Horse furono sottoposti a un tour de force tremendo. Non ci si fermava mai, le canzoni fluivano in continuazione e solo alla fine vennero ascoltate. Era lo spirito da vecchia garage band a prevalere e guidare le sedute e in quel campo i Crazy Horse avevano pochi rivali. Il paragone con Everybody Knows This Is Nowhere e sempre lì dietro l'angolo. 
"Ragged Glory è l'unico disco in cui suonammo tutta la scaletta due volte al giorno senza mai riascoltare le registrazioni, ma sempre prendendo nota di come ci sembrava la musica". 
Anche se Neil Young dice di aver scritto canzoni, come sempre alcune le pesca dal suo cassetto eternamente traboccante del passato: dall'annata 1975 tira fuori l'uno due iniziale formato da 'Country Home' e una superba 'White Line' che avanza come un carrarmato ( così diversa dalla prima versione uscita recentemente su Homegrown) dai canzonieri altrui ruba una cialtronesca 'Farmer John' scritta da Dewey Terry e Don Harris a metà anni sessanta per i Premiers, a conclusione del disco piazza una registrazione live di 'Mother Earth (Natural Anthem)' nata sulla melodia di un vecchio traditional britannico, eseguita al Farm Aid come "un trip", tanto per ricordare il suo impegno ecologista. 

Ma qui dentro non sono importanti tanto le parole quanto la musica e le chitarre elettriche ti imprigionano in un continuo e incessante assalto dominato da feedback e assoli. Tanto forti da confondere il tremolio dei feedback con un vero terremoto che si abbatté sulla California in quei giorni di registrazione, "stavamo facendo surf sul terremoto" dirà. 
I Crazy Horse non guardano l'orologio e tre canzoni vanno oltre gli otto minuti ('Love To Burn', 'Over And Over' e 'Love And Only Love') e 'Fuckin' Up' ( o 'F*! # in' Up' come venne stampata per non incorrere nella censura) rimane il migliore dei biglietti da visita per presentarsi al nuovo decennio alle porte. Tanto che Kurt Loder nella sua recensione per Rolling Stone del 20 Settembre 1990 scrisse:"Fuckin' Up farebbe strinare i ricci di una qualunque combriccola di metallari correntemente in classifica". Tutti avvertiti! 

"Finito l’album andammo in tour con i Sonic Youth e i Social Distortion. Era un gran cartellone, la gente vedeva un vero spettacolo. Era potente”, ecco la chiusura del cerchio. 
In 'Days That Used To Be' cita, ruba, omaggia (ma poi chi se ne frega) 'My Back Pages' di Dylan e una generazione tutta (irripetibile aggiungo io), in 'Mansion On The Hill' canta "una musica psichedelica riempie l'aria, pace e amore vivono ancora là", rendendo bene l'idea di come questo disco sia nato, un mix di aria agreste su tonnellate di ampli caldi e fumanti.
"Un giorno stavamo ascoltando i brani e arrivò ‘Mansion On The Hill’. Era un brano sporco, ma aveva tiro. Chiesi a David di farmelo ascoltare ancora. David disse a Hanlon: ascoltiamolo in tutta la sua Ragged Glory, la sua gloria stracciona". 
Così arrivò anche il titolo di un disco che anticipò la vera esplosione del grunge di pochi mesi. Non fu certamente un caso. 
Le session furono talmente  prolifiche che canzoni straordinarie come 'Don' t Spoke The Horse' (uscita come b side dell'unico singolo 'Mansion On The Hill'), una "versione condensata dell'album" dirà Neil, 
'Born To Run' e 'Interstate' furono lasciate fuori. Intanto stiamo aspettando la  più volte annunciata ristampa ampliata con inediti. Tra i miei dischi top di Neil Young, Ragged Glory c'è sempre. Ora ho le orecchie che sanguinano e il tappeto è tutto macchiato.