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domenica 23 marzo 2025

RECENSIONE: BLUES FACTORY feat. Fabio Drusin (III)

 

BLUES FACTORY feat. Fabio Drusin  III (ArteSuono, 2024)




music satisfie my soul


Quattordici anni fa (ma come passa il tempo!?) intervistando Fabio Drusin, voce e basso dei W.I.ND. storica band friulana e musicista in tanti altri progetti e collaborazioni di rilievo ( Alvin Youngblood Hart’s Muscle Theory), in occasione dell'uscita di Walkin In A New Direction gli chiesi come si potesse definire la loro musica e lui mi rispose così: "Una parola: Rock. Non amo particolarmente le etichette, che non dovrebbero essere date dai musicisti, i generi sono stati inventati dai giornalisti, per meglio etichettare una o l'altra band, che ovviamente è comodo e in certi casi serve; nel Rock, specie quello di un tempo, trovi un pò di tutto: il Blues, il Soul, il Funk. Mi piace ricordare una frase di Gregg Allman: "Non siamo una Jam Band, siamo una band che fa Jam". 

Oggi siamo nel 2025 e ritrovo Drusin come ospite speciale dei Blues Factory, un altro power trio friulano e quella parola "rock" si applica sempre bene per definire il progetto Blues Factory, messo in piedi dal cantante e chitarrista Cristian Oitzinger che vede lo stesso Drusin al basso e armonica e Daniele Clauderotti alla batteria.

Registrato all'Artesuono di Sefano Amerio a Udine, III è un disco per chi ama l'antica attitudine del rock blues suonato con competenza, rispetto e vigore, qui non si inventa nulla ma si porta avanti il verbo con antica passione e devozione. 


Oitzinger, autore di sette pezzi su otto  vanga nella tradizione mettendoci davanti il suo vissuto. E tutto sembra ruotare intorno al torrido riff di  'Mountain Man' composizione centrale dal tiro zztopiano, dedicata al padre Giovanni, ispirazione di vita: dall'iniziale e sorniona 'Unhappy Girl' che gira intorno ai territori cari a Gov't Mule e Warren Haynes, alle rockeggianti 'Rolling Man' e 'The Love You Brought' dalla ritmica dinamica tra i Free e gli Stones di metà anni settanta, con il testo scritto dall'amico di Nashville Mike Cullison. Belle anche le due ballate: 'Time To Make Mistake' e 'Like A Winter Night', dai sapori southern. 

'What You Wanna Do' è un rock blues dal basso pulsante e la slide di Oitzinger in grande evidenza, cantata dalla voce più sporca di  Drusin che si allunga in una jam finale con l'armonica.

In conclusione 'Music Satisfie My Soul', che inizia come un vecchio gospel ma si elettrizza subito mantenendo i piedi in tre scarpe, tra Led Zeppelin, southern rock e gospel con i cori femminili delle The Nuvoices Project e un Hammond B3 suonato da Rudy Fantin a tenere unito il tutto nella composizione più articolata e variegata in scaletta.

E torniamo a quella parola "Rock" con la quale ero partito: qui si va sul sicuro! Un disco caldo e avvolgente che tra alti quindici anni si potrà rimettere su, ritrovando tutta l'antica magia della musica suonata con cuore e passione. Naturalmente spero che i Blues Factory nel frattempo facciano uscire tanti altri dischi. "Music satisfie my soul" mi sembra una buona conclusione.





sabato 15 marzo 2025

RECENSIONE: JASON ISBELL (Foxes In The Snow)

 

JASON ISBELL  Foxes In The Snow (Southeastern, 2025)




altro inizio

Jason Isbell non si è mai nascosto dietro a nulla. Ha sempre messo in musica la sua vita, che si accompagnasse dietro al suono elettrico di una band (i suoi 400 Unit, messi in piedi dopo l'esperienza con i Drive- By Truckers) o viaggiasse da solo, nei suoi testi ha messo  davanti  fragilità, errori, redenzione, morte, la raggiunta sobrietà e i suoi amori, come cantò  nel superbo Southeastern uscito nel 2013, sicuramente il suo picco cantautorale.  Ai tempi cantava di un amore salvifico, l'incontro decisivo con Amanda Shires, musicista e compagna di band, che diventò sposa e madre della loro figlia di nove anni, la Shires lo prese per mano e lo tirò fuori dall'alcolismo e lo rimise in careggiata. Da allora Isbell non si è più fermato, celebrando la sua carriera con il recente live album Live From The Ryman Vol.2.

Oggi, dodici anni dopo, di quell'amore rimangono queste undici canzoni, le prime scritte dopo il divorzio avvenuto nel 2023.

"Il punto per me è che avevo bisogno di esprimere come mi sentivo in queste canzoni. E a volte non provo metafore. A volte, provo emozioni dirette proprio come tutti gli altri".

Ma se tra le righe di 'Gravelweed', della romanzata 'Eileen' e della dura 'True Believer', la rottura è ben evidenziata ("all your girlfriends say I broke your fucking heart" canta), nelle restanti canzoni ad affiorare con più fervore sembra essere la rinascita, il rinnovato sentimento d'amore per la  nuova compagna, la pittrice Anna Weyant (la copertina dell'album è opera sua) nella splendida 'Foxes In The Snow', in 'Ride To Robert's' (descrizione di una serata al Robert's Western World, bar vecchio stile di Nashville) e nel positivo finale 'Wind Behind The Rain'. Non mancando di rinsaldare il suo  attaccamento alla vita nell'apertura 'Bury Me', una canzone western ("non sono un cowboy / ma so cavalcare" canta), dove affiora il passato da alcolista, qualche accenno politico e sociale guardando indietro alla sua Alabama ('Crimson And Clay'), i consigli di vita che mette in fila in 'Don't Be Tough', l'inesorabile trascorrere del tempo della malinconica 'Open And Close'.

Per registrare il disco sceglie la via che potrebbe sembrare la più semplice ma che non lo è affatto, essendo forse la prova più difficile per un cantautore: tenere alta la soglia per quaranta minuti di canzoni costruite per sola voce e chitarra. Un disco acustico, cantato e suonato, divinamente, in completa solitudine con il solo ausilio di una vecchia chitarra acustica Martin 0-17 del 1940. In giorni in cui il Greenwich Village è tornato prepotentemente di moda grazie al film su Bob Dylan, Isbell si è chiuso per soli cinque giorni dentro agli Electric Studios di New York con la produttrice Gena Johnson e tra superbi e fluidi giochi di finger picking e virtuosismi chitarristici resi ancor più evidenti dal carattere intimistico delle canzoni di matrice  folk, country blues d'altri tempi, e una voce calda che non tradisce le sue origini del Sud, sembra mantenere fede alle parole che David Crosby lasciò su di lui, indicandolo come "il miglior cantautore moderno d'America". Non so se lo è veramente, ma questo disco è una buonissima candidatura che gli apre pure nuove (vecchie e battute) strade per il futuro.






giovedì 6 marzo 2025

RECENSIONE: CHRIS ECKMAN (The Land We Knew The Best)

 

CHRIS ECKMAN  The Land We Knew The Best (Glitterhouse Records, 2025)




luoghi e cuore

Il nuovo album di Chris Eckman è una lenta e riflessiva passeggiata tra i paesaggi naturali della Slovenia, paese dove ha scelto di vivere da alcuni anni. Un dialogo interiore che si nutre di solitaria bellezza tra silenzi, grandi spazi incontaminati e continue meraviglie per gli occhi. Da quando abita da quelle parti, a Lubiana, oltre a tenere in piedi la sua casa discografica Glitterbeat, ha iniziato a camminare in quei luoghi, trovando rifugio, ispirazione e tante risposte. Lo posso capire.

Girata la pagina dei suoi Walkabouts, band di casa a Seattle nata a metà anni ottanta e che divideva con Carla Torgerson, mai  lodata abbastanza, una di quelle band che "potevano essere" ma che alla fine, aprì strade ma trovò la propria sempre impervia, il suo percorso artistico da solista ha iniziato a riempirsi di pagine impressioniste legate a quella profonda America lasciata indietro come un ricordo da spolverare ogni tanto.

Qui invece si addentra totalmente tra montagne, radure e boschi intorno a Lubiana cercando parole che diano un senso alla perdita, al perdono, cercando la forza di ricostruire se stessi dai cocci delle rovine.

Un tutt'uno che accomuna copertina, titolo (preso dal testo della prima canzone "Genevieve. The heart, the land, we knew the best") e foto interne scattate da lui stesso. Nei suoi profili social se ne possono trovare molte.

Dark folk dal passo lascivo, a tratti greve ('Running Hot' con i suoi archi) che riporta a nomi come Nick Cave, Leonard Cohen, Mark Lanegan. Gente che non c'è più o che da anni gira da altre parti.

Dall'iniziale 'Genevieve', elaborazione di una perdita, (Le guerre sono vinte / da coloro che si arrendono / e lasciano sogni morti alle spalle..." canta) fino a giungere alla finale 'Last Train Home' si è avvolti dentro a melodie che ti sbattono in faccia nostalgia e sogno, scavano nelle profondità dell'animo, riportano in superficie pezzi di vita, da dimenticare o solo bisognosi di cure e ricostruzione.

Tutto si adagia su chitarre acustiche, contrabbasso, pianoforte, archi e pedal steel suonate da fidi amici (Alastair McNeill) ma anche da musicisti sloveni, molti di estrazione jazz, con la voce di Eckman spesso doppiata da Jana Beltran.

Un arricchimento notevole se confrontato alle sole voce e chitarra su cui aveva costruito il precedente Wnen Thr Spirit Rests uscito nel 2021.

Un disco che trae forza da una costante omogeneità di fondo anche se non mancano un paio di episodi a briglia sciolta piazzati  a centro disco come 'Buttercup' e 'Laments' dove compaiono in superficie prima influenze alla Giant Sand  di Howe Gelb e poi i Crazy Horse di Neil Young. Una parentesi subito chiusa che porta a 'Haunted Nights' e 'The Cranes', la prima, dolorosa sequenza country  disegnata sulla pedal steel, la seconda, atmosferica e carica di suggestione.

Un album vissuto dalla prima all'ultima parola che riesce nel suo nobile intento di unire musica, paesaggi e interiorità.

"I luoghi creano determinate atmosfere ed esplorare questo aspetto è sempre stato importante per la mia musica". Impresa più che riuscita.





domenica 23 febbraio 2025

RECENSIONE: PENTAGRAM (Lightning In A Bottle)

 

PENTAGRAM  Lightning In A Bottle (Heavy Psych Sounds Records, 2025)




ossi duri

Mentre questa estate in Inghilterra i padri  saluteranno la musica con un mega evento, i Pentagram del sopravvissuto Bobby Liebling festeggiano i cinquantaquattro anni di carriera con il loro decimo disco in studio. I cugini americani dei Black Sabbath (from Virginia dal 1971), pur con la pesante assenza della chitarra di Victor Griffin, non intendono abbandonare la scena, anzi, firmando per la nostrana etichetta Heavy Psych Sounds Records sembrano voler garantirsi anche un nuovo futuro. Liebling, 71anni, occhi spiritati e una vita riacciuffata diverse volte (eroina, alcol, centri di riabilitazione, carcere, non si è fatto mancare nulla) continua a mettere in musica le sue (dis)avventure e il lato più oscuro del suo cervello. Non certo una condotta di vita da prendere ad esempio.

 Un disco che abbandona parzialmente il primordiale doom (parola odiata dal buon Liebling, che ha sempre preferito usare un semplice "hard rock pesante"), che però  fa ancora la voce grossa e lenta  come nella finale 'Walk The Sociopath' o in  'I Spoke To Death' e 'Lightning In A Bottle' preferendo però un approccio carico di groove: lo stoner con parentesi psichedeliche ('Live Again', 'In The Panic Room'), il blues dei sevienties di 'Spread Your Wings', quello più possente e moderno alla Clutch di 'Thundercrest'.

 Anche se poi a colpire è l'autobiografica caduta negli inferi dell'eroina raccontata da Liebling nel  lento, acido e lisergico viaggio di 'Lady Heroin' ("Sono caduto nel tuo gioco. Ho incolpato me stesso. Guarda cosa mi hai fatto passare "). Una confessione, un'ammissione di colpa. Un pentimento arrivato fuori tempo massimo?

Forse non il loro miglior disco ma certamente un segno di vita dopo dieci anni di assenza discografica e innumerevoli cambi di formazione che oggi insieme al despota Liebling vede Tony Reed alla chitarra, Scooter Haslip al basso e Henry Vasquez alla batteria. Un monumento vivente per certa musica pesante e faro non ancora spento per molte band arrivate dopo. Cult band dal libro ancora aperto.





sabato 8 febbraio 2025

RECENSIONE: JOE ELY (Love And Freedom)

 

JOE ELY  Love And Freedom (2025)





la voce del Texas

Il 30 Gennaio, Sharon, la moglie di Joe Ely, attraverso i social ha reso pubbliche le critiche condizioni di salute del marito: ad Agosto dopo essere uscito da una brutta polmonite, è stato colpito da un ictus che ha richiesto un urgente consulto medico e altri ancora in futuro ne necessiteranno. Durante la degenza però, Joe Ely con la moglie non hanno smesso di frugare tra i numerosi archivi musicali dei suoi Spur Studios ad Austin, estraendo queste tredici canzoni, nove originali e quattro cover, che in qualche modo, con tematiche comuni, sembrano dipingere bene questi tempi: "un promemoria dei tempi in cui viviamo adesso" dice Ely. Tematiche che Ely ha sempre toccato nelle sue canzoni, rendendolo uno dei migliori songwriter americani impressionisti in vita: l'immigrazione, la deportazione, la povertà, la giustizia, le guerre, i confini. Gli ultimi.

E bisogna dire  che ne è uscito un disco di carattere, coeso nelle tematiche, vario musicalmente, chiamato Love And Freedom che nel titolo sembra pure riportare al fortunato Love And Danger del 1992.

Dal lockdown in avanti, Ely non è nuovo nel mettere in piedi album con vecchie registrazioni dai misssggi approssimativi lasciate nei cassetti, partì con Love In the Midst Of Mayhem (2020), proseguì con i ricordi d'infanzia di Flatland Lullaby, l'ultimo Driven To Driven uscì solo pochi mesi fa. Un modo per attenuare l'assenza forzata dai palchi. Per mettere la quadra a queste nuove tredici canzoni sono stati chiamati i fidi Lloyd Maines e l'ingegnere Pat Manske, David Grissom ha aggiunto la sua chitarra mentre la fisarmonica di Joel Guzman era già presente nelle registrazioni originali dove la maggioranza degli strumenti furono  suonati dallo stesso Ely. Se nel precedente a farsi notare fu la presenza di Bruce Springsteen (nella traccia 'Odds Of The Blues'), qui spicca Ryan Bingham, uno dei suoi figli artistici, che duetta nel classico di Woody Guthrie, 'Deportee (Plane Wreck At Los Gatos)'. Le altre cover sono 'Magdalene' di Guy Clark e 'Waiting Around To Die' e 'For the Sake Of The Song' di Townes Van Zandt.

 Il taglio rock dell'apertura 'Shake'Em Up', i confini messicani cantati nella border song dai sapori  tex mex di 'Adios Sweet Dreams', il talkin 'Sgt. Baylock' con la bella slide dietro (pare sia un agente di polizia che  "mi buttava in prigione ogni volta che mi vedeva"), il country folk di 'Band Of Angels', il pianoforte che accompagna 'Here's ToThe Brave', il blues di 'What Kind Of War', una 'No One Wins' nata dopo l'undici Settembre si susseguono ricordandoci la grandezza compositiva di Joe Ely.        Anche se costruito con canzoni raccolte dall'archivio, questi tempi hanno dannatamente bisogno di dischi come questo. Canzoni che dicano le cose come stanno. Dischi che non fa più nessuno. È un disco politico? Sì lo è! Una voce fuori dal coro. L' unità in tempi divisivi.

Domani, 9 Febbraio, Joe Ely compirà 78 anni, miglior regalo non poteva farci. Forza Joe.




domenica 2 febbraio 2025

RECENSIONE: HELLACOPTERS (Overdriver)

THE HELLACOPTERS  Overdriver (Nuclear Blast, 2025)




cambiare per restare

Con la consapevolezza di aver scritto una pagina importante per lo scandinavian rock degli anni novanta, gli Hellacopters di ritorno, la reunion è datata 2016 e Eyes Of  Oblivion è stato il bel disco documento dell'avvenimento, hanno voltato pagina pur restando loro stessi. Lo avevano comunque già fatto in tempi non sospetti con High Visibility del 2000.

"Prendiamola un giorno alla volta e non facciamo un piano quinquennale o cose del genere" dichiarò Nicke Andersson, un bulimico del rock'n'roll, nel momento del ritorno.

Se sporie di vecchio garage rock sono ancora presenti in tracce veloci e dirette che recuperano la grinta della gioventù come 'Wrong Face On' e 'Faraway Looks', la band di Nicke Andersson pare ora divertirsi un mondo pescando tra le ricche pagine di settant'anni di rock'n'roll. La doppietta d'apertura formata da 'Token Apologies' e 'Don't Let Me Bring You Down' valga come buon biglietto da visita.

Forse pesa la mancanza del rientrante Dregen messo momentaneamente fuori gioco da un serio infortunio alla mano, ma gli Hellacopters targati 2025 sono un gruppo che sa sopperire all'esuberanza della gioventù con la classe di chi è cresciuto con le basi musicali giuste, altrimenti non si spiegherebbero numeri come il power pop sporcato soul di '(I Don't Wanna Be) Just A Memory', il blues con il pianoforte rimbalzante di 'The Stench' o una canzone come 'Do You Feel Normal' dove anthem appiccicosi alla Kiss sembrano accoppiarsi con lo Springsteen devoto al rock'n'roll del periodo The River. O una canzone come 'Soldier On' che difficilmente sarebbe uscita in dischi come gli epocali SupershittyTo The Max, Payin The Dues o Grande Rock. La macchina è la stessa, trent'anni di chilometri macinati hanno il loro peso ma non è detto che siano sempre negativi. Cambiano le prospettive, prima ti aspettavi la prestazione, ora ami le sfumature e l'abbraccio di chi ancora non ti tradisce.

A conclusione una 'Leave A Mark' a mischiare ancora una volta le carte, toccando  territori Thin Lizzy e dimostrando di saper anche superare i canonici tre minuti spingendosi oltre i cinque in quella che è la canzone più lunga di un disco ancora imperdibile per chi ama il rock’n’roll, i seventies, la buona musica, forse solo più educata ma ugualmente ispirata.






mercoledì 29 gennaio 2025

RECENSIONE: ANGELA BARALDI (3021)

 

ANGELA BARALDI  3021 (Caravan/Sony, 2025)






la donna del futuro

Forse è arrivato il momento. Angela Baraldi con questo album così intimo, avvolgente e dai tratti malinconici, proiettato al futuro ma dannatamente con i piedi sulla terra, con sprazzi di pazzia in mezzo, si gioca una carta importante, anche se credo a lei importi assai poco: 3021 è un disco così poco mainstream che per strane dinamiche, ne sono certo, riuscirà ugualmente a fare breccia anche su chi conosce ancora poco la cantautrice bolognese, il cui debutto risale al 1990 con l'album Viva. 

Io mi innamorai di lei dopo aver visto il video della super funky  'Mi Vuoi Bene O No?' uscito nel 1993. Un video semplice ma dirompente nella sua sensualità con il suo viso sempre in primo piano. A volte basta poco.

Le otto tracce, brevi ed essenziali di 3021 hanno un grosso potere: contengono una micidiale ipnoticità in grado di conquistare, una forza intrinseca in grado di far tendere le orecchie verso le casse per carpirne le parole.

Arrangiamenti minimali per scelta, strumentazione rock essenziale, testi nati dopo la parentesi pandemica (le canzoni sono scritte in parte con il suo chitarrista Federico Fantuz), l'esperienza come attrice, le antiche amicizie (Lucio Dalla su tutti, Francesco De Gregori che pare l'abbia spronata per far uscire il disco, pure per la sua etichetta Caravan), le parentesi musicali che l'hanno coinvolta durante la sua carriera, su tutte quelle con gli ex CSI Massimo Zamboni, Gianni Maroccolo e Giorgio Canali, convergono in queste otto canzoni, che sanno di antico, di vecchi dischi dove il superfluo  era assente. C'erano solo le canzoni: quattro per lato e via, meno di venticinque minuti che ti rimanevano tutti in testa e si ricominciava da capo perché le canzoni erano belle e tutte da scoprire ascolto dopo ascolto. Era il passato ma qui anche il presente e un po' il futuro.

Il disco parte da lontano, immaginando quel che resterà di noi tra mille anni: "ho scelto come titolo il 3021 come un salto temporale difficile da immaginare, molti mi dicono che non ci saremo più, ma io penso che ci sarà ancora la razza umana e che continuerà ancora a innamorarsi" spiega. Ed è difficile non immarorasi di questa traccia, di quella slide cosmica e del suo testo quasi cinematografico che mette da parte ricordi. Uno per uno, condivisibili per tutti o quasi.

"Parlo di te senza fare il tuo nome" canta in 'Cosmonauti', traccia dall'incedere rock che cita Lucio Dalla fino a quel "a modo mio" finale che non lascia più dubbi. Grande spazio alle ballate come 

'Bellezza Dov'è', che avanza sorniona alla Neil Young con De Gregori a fare ombra, l'umanità, le vicinanze e le distanze in 'La Vestizione' e 'Cuore Elettrico', ma non mancano antichi graffi rock come 'La Preghiera Della Sera', una tesa e vibrante 'Corvi' che combatte l'esclusione e l'inadeguatezza ("solo di spalle puoi tagliarti la pelle"), una finale

'Saturno' che si impossessa del demone glam, orbitante tra l'infinito spazio e un sax a disegnare traiettorie sbilenche tra le stelle. Siamo dalle parti di Bowie e la foto di copertina lo ricorda pure.

Un disco che la conferma come una mosca bianca all'interno del cantautorato rock femminile made in Italy. Le canzoni di 3021 rispecchiano la sua grande personalità che però non ha mai avuto bisogno di scendere a patti con nulla e nessuno per venire a galla. Nel video che accompagna il singolo '3021' c'è il suo volto in primo piano come in quel video del 1993, questa volta rotea come un pianeta. Un cerchio che si chiude? Assolutamente no. Quanto manca al 3021?





domenica 26 gennaio 2025

RECENSIONE: ENRICO RUGGERI (La Caverna Di Platone)

ENRICO RUGGERI - La Caverna Di Platone (Sony Music, 2024)




la caverna del musicista

Enrico Ruggeri con questo album ci fa capire quanto la vecchia guardia cantautorale italiana quando ci si mette sappia fare ancora la voce grossa nel panorama un po' asfittico della musica italiana odierna . Il problema sembra che predichi un po' nel deserto: Fossati si è chiamato fuori,  De Gregori celebra solo più il passato in tour... Quasi facile uscirne vincitore con almeno un poker, forse più, di canzoni di altissimo livello: 'Gli Eroi Del Cinema Muto',  'Il Poeta', 'Zona Di Guerra', 'La Bambina di Gorla', 'Il Problema', 'La Caverna di Platone', 'Le Notti Di Pioggia'. Un disco a suo modo politico (l'attacco a un Europa che doveva essere ma non è in 'Das Istmir Wurst' sembra chiaro), che se ne fotte un po' di tutto, viaggiando libero tra realtà, passato, poesia e l'oggi, cose che hanno sempre contraddistinto il suo cammino artistico. Prendendo pure posizioni scomode, a volte criticate ma seguendo sempre il libero pensiero, quello che canta nel 'Il Poeta': "il libero pensiero ha un prezzo da pagare". 

C'è molto bisogno di qualcuno che sappia mettere in fila le parole, dosandole, senza shakerarle a cazzo. Un disco suonato (c'è l'antico chansonnier, il rock, l'elettronica, il pop) e chi ha visto ultimamente dal vivo Enrico Ruggeri sa quanto sia ancora importante per lui l'impatto live degli strumenti. Nelle note di copertina, tra l'altro bella come tutto il packaging (contano anche queste cose oggi in epoca di streaming selvaggio), ci tiene a precisare, con un filo di ironia, che non è stato utilizzato l'autotune (e recentemente non le ha mandate a dire a chi di dovere). Far suonare una band è basilare.

È un po' il personaggio del momento Ruggeri: in TV sta portando cose di peso nella sua trasmissione Gli Occhi Del Musicista, è rispettato dai musicisti ospiti, lui rispetta la buona musica spesso invisibile in palinsesti sbilanciati  sui talent e ora questo album che a pochi giorni dalla beffarda scomparsa di Paolo Benvegnù sembra oro che luccica per chi cerca ancora emozioni da quell'antico mestiere di saper metter giù storie musicandole. E 'La Bambina di Gorla' dedicata ai 184 bambini uccisi nella strage della scuola elementare di Milano nel 1944 valga per tutte. Un bel disco che serve da matti a quest'epoca tarata, un po' in tutti i campi,  verso il basso.





venerdì 10 gennaio 2025

RECENSIONE: RINGO STARR (Look Up)

RINGO STARR  Look Up (Lost Highway, 2025)




e poi arriva Ringo Starr che inizia il 2025 nel migliore dei modi possibili. Che bel disco!

Guardando Ringo Starr è veramente difficile credere alla data di nascita riportata sulla sua carta d'identità: chi non vorrebbe arrivare a 84 anni in quella forma (ricordando sempre la tubercolosi che superò da bambino), vestito così e con quell'umore che lo ha sempre contraddistinto fin dalla prima volta che Pete Best gli lasciò le bacchette per diventare il batterista del più leggendario gruppo rock'n'roll di sempre. Oggi è uscito questo Look Up che rinnova il mai negato amore di Ringo per la country music, dai tempi di Rory Storm and the  Hurricanes, passando da  'Act Naturally' di Buck Owens a  'Don't Pass Me By' presente nel White Album, con il culmine toccato con il suo album del 1970, Beaucoups Of Blues, registrato a Nashville e proseguito a fasi alterne durante tutta la carriera ma mai così dichiarato come ora.

"Prima del rock ascoltavo country e blues, tanto che volevo emigrare in Texas per vivere vicino al mio preferito che era Lightnin’ Hopkins. Quello che i fan hanno vissuto per i Beatles, io l’ho provato per lui».

Look Up è  un disco piacevolissimo scritto quasi interamente con il produttore e amico di vecchia data T-Bone Burnett. Doveva essere un Ep, Burnett l'ha fatto diventare un signor disco e ci ha messo i suoi fidi musicisti: "stavo realizzando degli EP e quindi pensavo che avremmo fatto un EP country, ma quando mi ha portato nove canzoni sapevo che dovevamo fare un album! E sono così contento di averlo fatto" ha dichiarato Ringo.

Suonato e cantato insieme a tanti ospiti come Alison Krauss, nella chiusura quasi commovente 'Thankful', commiato agreste da "peace and love" tra un campo di pedal steel. Tanti i giovani come il chitarrista trentenne Billy Strings nei rockabilly 'Breathless' che apre il disco e 'Never Let Me Go' e nella più elettrica dagli accenti southern 'Rosetta' insieme alle Larkin Poe.  

C'è la cantautrice Molly Tuttle nel rock più moderno della title track, nella folkie 'I Live For Your Love', nel country alla Johnny Cash/June Carter di 'Can You Her Me Call' e in  'Strings Theory' ancora con le Larkin Poe ospiti, infine i Lucius nel country dall'aria pionieristica 'Come Back'. 

Ringo Starr si canta da solo, in modo magnifico, due numeri sopraffini come la stupenda 'Time On My Hands' adagiata su un tappeto di archi e pedal steel con la presenza di David Mansfield e 'You Want Some', scritta da Billy Swan, dove l'ascolto diventa difficile senza  immaginarla suonata insieme ai suoi vecchi compagni Paul, John e George. Country meets Beatles all'ennesima potenza.

Dimenticavo: Ringo suona la batteria su tutti i brani e contribuisce a lasciare sulle undici canzoni una ampia pennellata di ottimismo sopra a questi tempi moderni dai toni neri e cupi. Uno dei suoi dischi più belli di sempre che rompe anche l'abusato cliché che vuole i grandi del rock (perché lo è) a dare il meglio di loro stessi solo in giovane età. Ascoltate qui. L' ennesima rivincita di Ringo.




RECENSIONE: SHOTGUN SAWYER (Shotgun Sawyer)

 

SHOTGUN SAWYER  Shotgun Sawyer (Ripple Music, 2024)




blues & fuzz

Mi occupai di loro in occasione dell'uscita del secondo disco Bury The Hatchet mentre eravamo inconsapevolmente alle porte di due anni bui come la pece. La band di Auburn (California) ritorna a distanza di cinque anni con un album che si porta dietro l'esperienza del lockdown (molte canzoni qui contenute sono nate in quei giorni) ma sopratutto si trascina la diagnosi del disturbo ADHD che il cantante e chitarrista Dylan Jarman si è visto piombare addosso. Questo disco è un nuovo inizio come spiega lo stesso cantante: "potrebbe sembrare controintuitivo aspettare un terzo disco per pubblicare un album omonimo, ma non mi è venuto in mente un modo migliore per comunicare che questi sono i Shotgun Sawyer. Sicuramente, qualcosa di nuovo sta iniziando da qui " .

Un nuovo inizio che sembra però partire da molto lontano, da dove tutto è partito per quello che ancora oggi chiamiamo rock'n'roll.

Abbandonate anche se non del tutto le derive più hard e stoner dei precedenti dischi che fanno capolino spesso e volentieri (questa la vera arma in più), il sound della band californiana sembra abbracciare con più convinzione il blues delle radici, in ogni sua forma cercando la non facile strada di rileggerlo infangandolo tra tonnellate di fuzz e facendolo evadere su nuvole di psichedelica.

Se 'Cock N'Ball' è un blues dei padri con l'armonica ospite di Brian Souders, la luciferina 'Hopeless' è giocata a tutta slide, 'Going Down' è lo standard blues di Freddie King, 'The Sky Is Cryng'  il classico lento piangente che rende omaggio a Elmore James  e in 'Tired' a presentarsi è il nuovo batterista Cody Tarbell (dagli Slow Season) che ha preso il posto del vecchio batterista David Lee (completa il trio,il bassista Brett "The Butcher" Sanders), a colpire maggiormente sono le tracce dove cercano di metterci del loro. 

'Bye Bye Baby Boogie' è un blues da treno in corsa, micidiale e veloce, con un intermezzo fuzz che riporta alla mente gli inavvicinabili Clutch, 'Isildur's Bane' un blues malato e psichedelico dal passo quasi doom e sabbathiano, 'Master Nasty' asta l'asticella elettrica giocando i suoi minuti in una lunga jam stoner mentre la finale 'That's How It Goes' sporca ancor più di fango la lezione dei Creedence Clearwater Revival chiudendo un disco che pur uscito a inizio Dicembre del 2024 ha tutto il tempo per diventare il protagonista del nuovo anno per chi cerca   ancora quelle variazioni sul tema che gioventù e fresca energia riescono ancora a portare a un suono genitoriale così radicato e immortale.




mercoledì 25 dicembre 2024

RECENSIONE: DEWOLFF (Muscle Shoals)

 

DEWOLFF  Muscle Shoals (Mascot Records, 2024)



sogni

Se suoni certa musica e ami certi suoni prima o poi sogni un volo verso l' Alabama, direzione Muscle Shoals e i suoi studi di registrazione. Gli olandesi Dewolff dall'alto di una prolificità tarata in altri tempi, così lontani dal presente quando registrare dischi era cosa naturale, buona e giusta e le classifiche di Spotify un futuro non immaginabile, in Alabama ci atterrano nel Maggio del 2024, piantano tende, posano i bagagli e nei Fame Muscle Shoals Studios (in copertina l'indirizzo 3614 Jackson Highway e la foto sembrano citare l'album di Cher)  con l'aiuto del produttore Ben Tanner  registrano tredici nuove canzoni che andranno a rimpolpare i loro già ricchi e infuocati live set.

"Anche prima che ci appassionassimo al southern rock, da ragazzino, Luka ha ricevuto un album di southern soul, e la maggior parte è stata registrata al FAME" dicono i fratelli Pablo (chitarra e voce) e Luka Va De Poel (batteria e voce) che con Robin Piso (hammond, piano, synth e Wurlitzer) e con l'aiuto di Levi Vis al basso  hanno suonato nel disco.

Chi già li conosce qui va a colpo sicuro: trovando lo smisurato amore per il soul blues imbastardito del trio di  Geleen, cittadina di poco più di 30.000 abitanti nel sud dei Paesi Bassi. Personalmente li ho conosciuti in apertura ai Black Crowes  dove hanno catturato tutti i presenti con un infuocato set di hard blues. Li vidi poi da soli al Legend Club nel 2023, lì a prevalere fu il lato più soul che sta caratterizzando questi ultimi anni.

L' hammond sempre ben presente e protagonista in tracce come 'Hard To Make A Buck' e 'Natural Woman' tradisce tutto l'amore per i suoni seventies, la tensione ritmica che vira al funk di 'Out On The Town', la chitarra che piange southern rock in 'Ophelia' che piano piano sale in un rock sporcato di gospel e che si trasforma nella più selvaggia e boogie 'Truce' dove compare un incisivo sax.

Il pianoforte honky-tonk alla Leon Russell di 'Book Of Life', Leon Russell che negli studi Fame era di casa, il soul notturno di 'Winner' con la chitarra solista ben in evidenza, l'andamento funky blues alla Free di 'Fools & Horses', i giochi soul alls Stevie Wonder della ballad 'Ships In The Night' che si stempera nei rumori ambientali registrati nella notte ('Cicada Serenade') probabilmente fuori dagli studi. Poi tutta quella voglia e la capacità di allungare verso la jam che troviamo negli otto minuti di 'Snowbird'.

Un disco a suo modo intrigante che ribadisce tutto l'amore e la devozione del trio per la musica ma che in un certo senso sembra lasciare ancora spazio e margine per ulterori future svolte (dopotutto sono poco più che trentenni), mancando anche di quel colpo da knock out che devono ancora sferzare per fare veramente la voce grossa. Anche se in Europa pochi sono come loro.

E la loro età fa da buon garante che  prima o poi possa succedere qualcosa di grande.




martedì 19 novembre 2024

RECENSIONE: WARREN HAYNES (Million Voices Whisper)

WARREN HAYNES
  Million Voices Whisper (Fantasy Records, 2024) 





l'uomo perfetto


Già solo l'occasione di sentire Warren Haynes e Derek Trucks collaborare e suonare insieme dopo tanti anni rende il quarto album solista di Haynes motivo di interesse. Succede in tre canzoni: l'apertura 'These Changes', in 'Real, Real Love' e nei nove minuti conclusivi 'Hall Of Future Saints' un omaggio ai grandi della musica con i quali è cresciuto con tanto di nomi e cognomi nel testo (ecco sfilare B.B King, Jimi Hendrix, Albert King, Elmore James, Miles Davis, John Coltrane...). 
"Poiché avevo scritto diverse canzoni che non sembravano canzoni dei Gov't Mule ma che sembravano tutte funzionare insieme, ciò indicava che era giunto il momento di fare un disco solista. Inoltre, non facevo un disco solista da nove anni. Di solito riesco a capire subito se qualcosa suona come una canzone dei Gov't Mule, o una canzone per un disco solista, o nessuna delle due" ha raccontato recentemente a Glide Magazine.
E proprio 'Real, Real Love' rischia di diventare una della canzoni con più DNA della Allman Brothers Band di questi ultimi anni visto che porta anche la firma del compianto Gregg Allman. "Gregg ha iniziato a scrivere la canzone 'Real, Real Love'. La canzone risale a parecchio tempo fa. Mi aveva mostrato il testo incompleto, ma non aveva scritto la musica. Quindi, ho preso il testo incompleto e l'ho finito. Poi, ho aggiunto musica e melodia, ho chiamato Derek Trucks al telefono e gli ho chiesto se gli sarebbe piaciuto essere coinvolto nella registrazione". Ecco servita sul piatto una delle migliori canzoni di un disco al quale la parola "eccelso" non è affatto sprecata. 
Million Voices Whisper è un disco con testi carichi di speranza per il futuro e che musicalmente sembra abbandonare il rock blues a favore di un soul marchiato Muscle Shoals che tocca territori cari a Van Morrison in 'Go Down Swinging' e 'From Here On Out' con tanto di fiati, vie funky in canzoni come 'Terrified' (con Stevie Wonder nel cuore) e la più leggera e spassosa 'Lies Lies/Monkey Dance/Lies Lies', le strade notturne del R&B in 'You Ain't Above Me' con i battiti dell'Hammond a fare luce. 
Ad accompagnarlo la band formata da Kevin Scott, solidissimo bassista visto recentemente negli ultimi Gov't Mule, il batterista Terence Higgins, il tastierista John Medeski che spesso e volentieri si prende la scena e da altri due ospiti come Lukas Nelson e Jamey Johnson in 'Day Of Reckoning', la traccia più classic rock dell'album. Traccia ripresa anche nella versione deluxe intrecciata con 'Find The Coast Of Freedom' di CS&N e che contiene altre tre composizioni tra cui la solida e rockeggiante 'Baby' s On The Move' per gli orfani dei Gov't Mule.
La naturale superiorità di Warren Hayes non aveva certamente bisogno di ulteriori conferme, uno degli ultimi grandi chitarristi in grado di fare con estrema semplicità ciò che altri suderebbero le proverbiali sette camicie per arrivarci: voce calda e sempre sul pezzo, composizioni di classe cristallina e chitarra sempre ispiratissima nelle undici canzoni che mediamente superano i sei minuti dove piazza assoli e sconfina sovente nelle jam risultando sempre sontuoso, brillante e mai banale. E per completare il cerchio Allman Brothers Band iniziato con la composizione di 'Real, Real Love', l'intero disco è dedicato a un altro pezzo importante della leggenda che se n'è andato quest'anno: Dickey Betts. Per ora è ancora tutto in buone mani. E che mani!




domenica 10 novembre 2024

RECENSIONE: CHUCK PROPHET with ¿QIENSAVE? (Wake The Dead)

CHUCK PROPHET with ¿QIENSAVE?  Wake The Dead (Yep Roc Records, 2024)





che Cumbia!

Gli artisti non puoi certo imbrigliarli dentro a qualche schema, non puoi pretendere che ti diano quel che vuoi tu. Viaggiano, si muovono, cambiano, vivono, a volte molto più velocemente dei loro fan, fermi a un palo, legati da un'apertura mentale miope, tarata spesso sul "bel" passato.

Se poi l'artista in questione si chiama Chuck Prophet, uno che in carriera si è sempre comportato come una palla da flipper esploratrice ed indagatrice, devi accettare tutto quel che gli passa per la testa. E molto spesso sono cose fighissime.

"Ogni due anni, in un modo o nell'altro, mi imbatto in qualcosa che mi entusiasma e mi porta da qualche parte, dove sento di non essere mai stato prima. Tutti i miei dischi sono una specie di reazione a quello che è venuto prima, e poi una svolta a sinistra".

Wake The Dead si candida a diventare uno dei dischi più divertenti e trascinanti del mio anno musicale. E pensare che ha preso forma in uno dei periodi più critici e neri per Prophet: nel 2022 esattamente a cavallo tra la fine della pandemia e la diagnosi di una brutto linfoma al quarto stadio fortunatamente poi guarito, anche per merito di questa musica. 

"Dopo che hanno scoperto che avevo una massa nell'intestino, sono stato in una specie di terra di nessuno per circa 14 giorni" ha raccontato.

In attesa di buone notizie per il futuro fu rapito da una band che sentì suonare per caso, si chiamano ¿Qiensave?, un gruppo di fratelli che non arrivano ai trent'anni di casa a Salinas, comunità agricola sulla costa centrale della California. I fratelli Gomez hanno una casa studio di registrazione in mezzo al bosco e dopo la conoscenza con l'ex Green On Red, incuriosito, è diventata la base di partenza di questo suo sedicesimo disco.

Ma cosa suoneranno mai questi ¿Qiensave? per aver ipnotizzato così tanto il buon Prophet? Risposta: la Cumbia, genere tradizionale della costa caraibica colombiana, una miscela musicale di culture indigene, africane ed europee fatta di congas, farfisa, kalimba, banjo, guiro a cui Prophet e i suoi musicisti (i Mission Express)  hanno aggiunto la classica strumentazione del country, del rock'n'roll e del surf.

"È la musica dei weekend della classe operaia e del Miller Time. La cumbia è romanticismo, cibo, famiglia, musica, ballo, da soli nell'ombra o con il partner. La musica può farti piangere, ma sono tutte lacrime di gioia, ed è meravigliosa" ha raccontato Prophet. Ecco così undici travolgenti canzoni dove tutta l'esperienza di Prophet viene filtatrata dai ritmi latini, quasi in stile Los Lobos ('Wake The Dead', 'Betty's Song' invitano a muoversi) anche il trotto country di 'Give Boy A Kiss' , la ballata con arrangiamenti d'archi e voci femminili  'Red Sky Night' che richiama fortemente Van Morrison, il rock di 'First Came The Thunder', le influenze sixties di 'Sugar Into Water', il blues a ritmo di valzer 'One Lie For Me, One For You' che vede la partecipazione di Charlie Sexton alla chitarra (i due sono stati in tour insieme recentemente) flirtano con quei ritmi mantenendo il trade mark di Prophet.

Non mancano due incursioni nell'attualità: 'In The Shadows (For Elon)' si imbarca nei viaggi spaziali che si è inventato Elon Musk e poi c'è quella 'Sally Was A Cop', viaggio più terreno nella disperazione senza date di scadenza che scrisse con Alejandro Escovedo, disperata e con le chitarre in primo piano. 

Quando tocchi con mano le prime lettere della parola "fine" capita di assaporare con più gusto quelle piccole cose quotidiane per cui vale la pena vivere e lo canta bene nella ballata finale 'It's Good Day To Be Alive' con la moglie Stephanie Finch che partecipa ai cori.

Prophet celebra la vita mettendo sul piatto della bilancia la consueta arguzia di scrittura, le speranze e le paure e ci mette sul piatto un disco piacevolissimo (che invoglia ad alzare il volume) e a suo modo originale ma che soprattutto guarda avanti con musica sempre stimolante e mai banale.




venerdì 8 novembre 2024

RECENSIONE: CROSBY, STILLS, NASH & YOUNG (Live At Fillmore East 1969)

 

CROSBY, STILLS, NASH & YOUNG - Live At Fillmore East 1969 (Rhino, 2024)




magia eterna

Quando escono questi dischi mi sorge sempre la stessa domanda: fino a dove possono spingersi in profondità i pozzi da cui poter attingere vecchia musica registrata in passato? Un giorno si sarà ascoltato tutto il possibile, ma soprattutto arriverà prima questo giorno o arriverà prima l'epoca abitata da generazioni alle quali di tutte queste canzoni con una certa età sul groppone non interesserà più nulla, tanto da rendere vane e inutili (che brutta parola in questo contesto) queste uscite? Forse solo allora tutto si fermerà. Dispiace per chi non ci arriverà mai ma egoisticamente mi godo ancora queste purissime vette.

Quindi godiamoci questo ennesimo scavo nel passato che porta alla luce uno dei concerti al Fillmore East di New York (quello del 20 Settembre 1969 tra i quattro eseguiti in due giorni), che seguirono il loro debutto live come quartetto in quel di Chicago e la epocale apparizione a Woodstock dove un Neil Young quasi fantasma non volle nemmeno farsi riprendere dalle telecamere.

E l'entrata di Neil Young nel trio che aveva già pubblicato un disco di debutto, inizialmente fu proprio vista quasi come un lusso, "noi possiamo anche dar forma all'album ma sarà Neil a darci quel tocco in più di cui c'è sempre bisogno" disse Stephen Stills poco prima che la band entrasse in studio per registrare il seguito Deja Vu. Quella spinta fu data e questo live anche se forse non riuscirà a rubare i cuori di chi si avvicinò a certa musica con il doppio live Four Way Street (eccomi! ma siamo in tanti lo so) in qualche modo può dirsi pure migliore di quel disco. Difficile dire chi eccelle su chi perché la combinazione tra David Crosby, Stephen Stills, Graham Nash e Neil Young, quattro artisti diversi ma incastrati alla meraviglia, era capace di emanare pura magia che andava gustata in blocco. L'ho sempre vista così.

Basti l'ascolto di 'Helplessly Hoping' con quegli impasti vocali che spesso scivolano in risate e divertimento, una 'Guinnevere' che lascia gli stessi brividi della prima volta, la cristallina classe di Stills in 'Go Back Home', le voci ariose di 'You Don't Have To Cry' o una 'Our House' che Nash dedica a Joni Mitchell presente in sala nel set acustico o il blues di 'Long Time Gone', l'acidità elettrica di 'Wooden Ships' presa per mano da Crosby, l'espressività soul blues di Stills in 'Bluebird Revisited', quella chilometrica 'Down By The River' di Young dal set elettrico con l'aggiunta dei fedeli Dallas Taylor alla batteria e Greg Reeves al basso.

"Grandi momenti che non dimenticherò mai" dice Neil Young ricordando quelle serate. A chi lo dici... 




domenica 20 ottobre 2024

RECENSIONE: GILLIAN WELCH * DAVID RAWLINGS (Woodland)

GILLIAN WELCH * DAVID RAWLINGS  Woodland (2024)




in due è meglio

Gillian Welch e David Rawlings sembrano posare con orgoglio ma facce stanche sotto la scritta Woodland Studios, studi di registrazione a Nashville di loro proprietà che solo per un miracolo sono ancora in piedi dopo il terribile tornado che nel 2020, in piena pandemia, si è abbattuto sulla città. Lo studio è rimasto scoperchiato, tutto ciò che vi era all'interno è stato salvato con abnegazione e fatica, anni e anni di registrazioni e vita sotto la clemenza delle intemperie. Quattro anni dopo, ben tredici dall'ultimo disco di inediti insieme (The Harrow & the Harvest del 2011, in mezzo un album di cover All The Good Times) ritornano con dieci canzoni che per la prima volta vedono in copertina i loro nomi uniti, uno di fianco all'altro (anche se non ci sono), e per la prima volta decidono di colorare le liriche con nuove e tenui sfumature strumentali (una band dietro, lap steel, archi, violino, banjo) mantenendo però intonsa quella comunione d'intenti e spirituale che li accompagna da sempre. Compagni di musica e di vita, sono oggi tra i pochi a portare avanti con continuità, nonostante uscite discografiche ponderate, valori musicali che certi grandi songwriter americani si sono portati dietro nell'aldilà. Le loro canzoni viaggiano tra motel e parcheggi, lungo antiche ferrovie, sbirciano dentro le vite. Viaggiano in una continuità quasi senza tempo.

"Questo disco più di ogni altro nostro disco è un prodotto dei tempi in cui è stato creato" ha raccontato la Welch.

Guardano a un futuro quasi apocalittico con occhio critico e un po' satirico in The Day the Mississippi Died, stanno nel presente con le liriche della ipnotica Hashtag ma con il cuore aperto verso il compianto Guy Clark, Lawman entra nel blues di un omicidio, il fingerpicking costruisce e addolcisce The Bells And The Birds cantata con leggerezza impalpabile, in Turf The Gambler si insinua un'armonica, Empty Trainload of Sky scruta un panorama tutto americano dal finestrino di un treno, cantano della loro salda unione in What We Had (con l'ombra di Neil Young a fare ombra) e duettano nella finale Howdy Howdy, tutta la classicità del folk americano marchiato a fuoco in Here Stands A Woman tra Woody Guthrie e Bob Dylan racconta di passato, presente e futuro. È un per sempre.

Dieci canzoni di pura Americana tra folk e country a due voci, registrate in un studio di registrazione superstite e sopravvissuto e che sanno tanto di nuovo inizio.

Uno "splendido" nuovo inizio costruito, con quella pura limpidezza concessa a pochi, sopra alle macerie, un po' come quando vedi il tuo fiore preferito crescere forte e florido nel luogo più ameno e impensabile. C'è qualcosa di magico ma è tutto così estremamente naturale.

Nel suo universo uno dei dischi dell'anno.





giovedì 10 ottobre 2024

RECENSIONE: D-A-D (Speed Of Darkness)

D-A-D  Speed Of Darkness (AFM Records, 2024) 







danish breeze 

Quanti gruppi indossano così bene i propri quarant'anni (di carriera) come sanno fare i D-A-D? Pochissimi. Tanti compagni di strada si sono persi tra le vie sbiadite del rock nel nuovo secolo, altri arrancano bolsi senza meta e futuro, statici di fronte alla gloria passata, taluni sono impegnati da anni in reunion posticce e poco credibili. I danesi invece non mi deludono mai, ogni loro uscita discografica sprigiona freschezza, autoironia, goliardia senza mai sfiorare la banalità, anche se a volte fa capolino l'autocitazione ma c'è poco da preoccuparsi è solo il consolidato trade mark che ci parla. Sarà forse l'aria frizzante della Danimarca che ce li conserva ancora così bene? 
La formazione è la stessa di sempre (a parte il batterista Laust Sonne in formazione da venticinque anni ormai): gli incredibili bassi di tutte le forme e numero di corde di Stig Pedersen, l'inconfondibile voce di Jesper Binzer (anche chitarra) capace di graffiare e di morbide carezze melodiche, la chitarra indispensabile del fratello e mago Jacob A. Binzer. Campioni indiscussi nell'unire melodie malinconiche e dark con lo street rock’n’roll e quelle inconfondibili chitarre dal suono così americano che conservano ancora un po' di vecchia polvere country western degli edordi, questo tredicesimo disco è pieno zeppo di belle melodie. Circola voce che avessero qualcosa come quaranta canzoni pronte da cui attingere: ne hanno scelte quattordici per costruire un album che supera i cinquanta minuti. Forse non sono più i tempi di 'Sleeping My Day Away' o 'Grow Or Pay' in cima alle classifiche (in Danimarca rimangono un'istituzione da prima serata nella Tv nazionale) ma canzoni come 'The Ghost', 'Speed Of Darkness', 'Head Over Heels' e 'Crazy Wings', la ballata finale 'I'm Still Here' continuano ad emanare quell'antica magia, contenendo tutte quelle caratteristiche che all'ascolto ti fanno sobbalzare dalla sedia e dire questi sono i D-A-D nessun dubbio. È sempre il trade mark di prima. 
In mezzo a tanta melodia (uno dei loro migliori dischi sotto questo aspetto) sanno ancora grattare la superficie del rock'n'roll magari con meno esuberanza, ma certamente con più mestiere e controllo: dall'accoppiata iniziale 'God Prays To Man' (se solo la suonassero gli Ac Dc una canzone così oggi) e '1st 2nd & 3rd' cariche di groove, ai rock'n'roll 'Live By Fire' e 'Everything Is Gone Now', i rimasugli punk che innescano 'Waiting Is The Way', il singolo che inchioda 'Keep That Mother Down', il blues 'In My Hands', fino ai momenti più heavy come 'Strange Terrain' e la più "modernista"'Automatic Survival', hard al punto giusto tanto per non dimenticare quanto siano ancora capaci a far rumore. 
Per chi avesse voglia di festeggiare con loro i quarant'anni di attività (a inizio anno era pure uscita una raccolta) l'appuntamento è fissato per il 25 Novembre al Legend di Milano. Immancabili. Sono usciti vivi dagli anni ottanta, hanno superato brillantemente il ciclone grunge dei novanta, sono entrati nei 2000 con il vento in poppa come se nulla fosse. Cosa volete che siano quarant'anni da festeggiare?




sabato 5 ottobre 2024

RECENSIONE: THE CROWSROADS (Spaceship)

THE CROWSROADS
Spaceship (Slang Records, 2024) 





il futuro è adesso


Ricordo benissimo il mio primo incontro con i Crowsroads tra le strade di Brescia durante la festa della musica: chitarra, armonica, cajon e le loro armonie vocali che sposavano blues e west coast music. Giovanissimi e affamati di musica allora come oggi. Era il 2015, feci un post con una loro foto e scrissi "segnatevi questo nome". Quell'anno uscì anche il loro primo album Reels che metteva in fila i loro ascolti giovanili (come se fossero vecchi!) attraverso tante cover. 
Negli anni li ho incrociati ancora svariate volte tra concerti (il "mitico" 4/quarti, in apertura a Steve Forbert ) e dischi (On The Ropes uscito nel 2019, primo disco che conteneva brani autografi) ed ogni volta si poteva notare il miglioramento, constatare quanto quelle cover suonate sul ciglio di un marciapiede siano state assimilate per trovare una propria strada musicale che oggi si intravede molto più nitidamente anche se, ne sono sicuro, porterà ancora più lontano. 
I fratelli bresciani Matteo (voce e chitarra) e Andrea Corvaglia (armonica e voci) con Spaceship fanno non uno ma due passi in avanti in un solo colpo aiutati da Poncio Belleri (basso), Sebastiano Danelli (batteria) e Nicola Ragni (tastiere e ingegnere del suono): si percepisce la maturità acquisita, la voglia di crescere, di sorprendere e sorprenderci con la musica. Di quel folk blues scarno e quasi primordiale è rimasto lo spirito che serpeggia vivo e vivace le loro anime, musicalmente invece volano alto con un songwriting mai banale, pieno e ricco di vissuto e dettagli dove chitarre hard blues più toste del solito ('If It Wasn't', 'Hot Blood/Weak Knees') sposano ballate come 'Spaceship' e la finale, evocativa e sorprendente 'Showdown', le armonie vocali di 'More Than Everywhere', e dove un certo blue collar rock tutto americano fa spesso capolino nel crescendo di 'Last Glimpse Of You' e 'Isolate'. Insomma: il blues si fa maturo, si contamina e non ha paura di incontrare le belle melodie pop di una canzone vincente come   'Theseus & The Moon'. 
 E poi questa copertina che colpisce ingannando: potrebbe portare verso lo space rock ma come spiegano bene loro nelle note che accompagnano il disco:"questo album ha poco a che fare con la fantascienza. Parla delle cose più 'terrestri' che vi possano venirvi in mente...". E allora a me piace accomunarla alla copertina dove i Canned Heat vestiti da astronauti piantavano la bandiera americana sulla luna. Il disco si intitolava Future Blues. Il futuro è arrivato, la bandiera è italiana e Spaceship è un bell'esempio di Blues contemporaneo che guarda già al prossimo futuro. Intanto noi aspettiamo le prossime mosse comodamente seduti nel divano (ecco un altro divano in copertina!).






domenica 29 settembre 2024

RECENSIONE: JACK WHITE (No Name)

 

JACK WHITE  No Name (Third Man, 2024)






assalto rock

Detroit, Nashville e Londra. Sono le tre città, le uniche tre al mondo ad ospitare negozi della Third Man Records, da cui si è iniziato a spargere il nuovo verbo che poi è un ritorno a una vecchia lingua lasciata decantare un po' di tempo a favore di altri strani e bizzarri svolazzi sul pianeta musica. 

Capita che un giorno d'estate,  esattamente il 19 Luglio del 2024,  in contemporanea, i clienti che fecero un acquisto nei negozi della Third Man ricevessero un regalo in cassa, un vinile anonimo intitolato No Name  con due sole scritte, una per lato: "heaven and hell" e "black and blue". Ogni riferimento è puramente "non casuale". Me li vedo una volta  arrivati a casa, dimenticare i loro nuovi acquisti sul tavolo della cucina e incuriositi mettere subito sul piatto quel vinile misterioso. Non ci sono nemmeno i titoli ma appena appoggiata la puntina una scarica hard blues ha vibrato lungo la spina dorsale : è l'opener 'Old Scatch Bkues'. Perché  i titoli poi, sono arrivati con calma. E se ti sei recato alla Third Man Records e fai 1+1 capisci che quella voce, quella chitarra selvaggia, che macina riff e assoli acidi  sono di Jack White che ha deciso di promuovere così il suo nuovo disco in uscita. Il giorno dopo la notizia si è già propagata in tutto il mondo, l'invito a scaricarlo fa il suo "sporco" lavoro ma visto che Jack White è uno alla vecchia maniera, dopo un paio di mesi ecco anche la versione fisica per tutti. Ora si può dire: No Name è il nuovo disco di Jack White.  Un'operazione di marketing che aleggia tra passato e presente, romanticismo e spavalderia, cose da sempre comuni al suo autore. 

Che stia vivendo un periodo di grande ispirazione lo si era capito dall'ultima uscita Entering Heaven Alive (2002) che viaggiava in coppia con il più sperimentale Fear Of The Dawn. Ma se lì abbracciava l'intero universo musicale americano (spaziando tra rock e folk) su No Name a stagliarsi sopra tutto è l'urgenza elettrica di un hard blues ('Missionary')  sporcato di garage punk (l'assalto di 'Bombing Out') e qualche seme crossover anni novanta ('Bless Yourself' potrebbe uscire da un disco dei Rage Against The Machine, 'Number One With A Bullet' batte ritmi funk metal). La fascinazione per i Led Zeppelin è la torcia accesa che tiene vivo il suono delle tredici canzoni: 'It's Rough On Rats (If You're Asking)', 'Tonight (Was A Long Time Ago)' e 'Underground' camminano sul terreno delle brughiere britanniche calpestato da Plant e Page. Pure il passato a strisce ritorna prepotente in tracce come 'What's The Rumpus'. 

Un assalto sonoro (placato in parte nella finale 'Terminal Archenemy Endling') che mette in guardia tutti gli aspiranti rocker di questa terra. Una visione romantica di come si può lasciare ancora un segno nero e blu dopo averlo lasciato bianco e rosso. Se il rock vuole libertà e anarchia Jack White le indossa ancora con disinvoltura alle soglie dei cinquant'anni e in un mercato discografico che vivacchia grazie a uscite nostalgiche che guardano al passato (vecchi concerti come se piovesse), un'uscita del genere non può fare che bene. Una rinfrescata strabordante e sopra le righe. Che amiate o meno White: così è.






sabato 21 settembre 2024

RECENSIONE: BLUES PILLS (Birthday)

 

BLUES PILLS  Birthday (BMG, 2024)




nuovi nati

Molto probabilmente nell'imminete tour dei Blues Pills che toccherà l'Italia l'8 Dicembre (al Magnolia di Milano), la cantante Elin Larson viaggerà di città in citta, di palco in palco, in compagnia del piccolo pargolo nato da poco. La gravidanza l'ha accompagnata durante la registrazione del loro quarto disco Birthday appena uscito e la copertina e le foto interne che  ritraggono il pancione della Larson in bella evidenza  non cercano di nascondere nulla, anzi testimoniano la nuova vita, anche musicale e perché no cercano di lanciare un messaggio chiaro a una società che vede nelle gravidanze un ostacolo alla produttività. Ecco una buona risposta. 

Il chitarrista, ex bassista,  Zack Anderson in una recente intervista: "la musica rock è dominata da band composte esclusivamente da uomini, quindi sembra una cosa fantastica avere una cantante solista super incinta in copertina".

Un disco importante per la loro carriera: per come è nato e si è sviluppato, per la libertà di scrittura che hanno adottato, per verificare se i vecchi fan accetteranno queste novità.

L'impianto blues (che da sempre sposa l'hard blues targato seventies con Janis Joplin) è lo stesso di sempre, anche se con l'uscita di Dorian Sorriaux, visto recentemente live con gli americani El Perro ha portato via la componente più heavy, eterea e psichedelica. Il calore soul della voce della Larson si è mantenuto intatto, le chitarre graffiano ancora anche se meno sovente rispetto al passato (l'apertura 'Birthday' è comunque d'impatto) ma in questa raccolta di undici canzoni si percepisce la voglia di sintetizzare al massimo la forma canzone, di arrivare prima al punto anche cavalcando nuovi suoni che a qualcuno potranno far storcere il naso: 'Piggyback Ride', che loro dicono ispirata addirittura dai Gorillaz, è la più moderna con un riff di chitarra in bella evidenza, sezione ritmica funky e chorus che straborda con tutto il suo peso nel pop, 'Holding Me Back' è rock ma di quello che le radio più commerciali da pomeriggi settimanali non disdegrerebbero, 'Don't You Love It' tocca invece quei  territori boogie quasi danzerecci cari agli ultimi Black Keys.

Passate queste novità più spiazzanti i Blues Pills immergono le loro canzoni nel vecchio classico rock che include l'urgenza funky di 'Bad Choices', il blues in crescendo di 'Somebody Better' e quello acustico che va giù di slide ('Shadows')  più due ballate  ('Top Of The Sky' e  'What Has This Life Done To You') che sembrano spingersi indietro fino agli anni cinquanta. C'è pure una cover ('I Don't Wanna Get Back On That Horse') di un misconosciuto gruppo svedese, i Grande Roses,  con interventi di pianoforte e dai forti richiami gospel.

Gli svedesi con questo disco si giocano la carta della notorietà su scala mondiale. Hanno perso le spigolosità hard, gli allunghi psichedelici, fumosi e jammati, hanno guadagnato le canzoni, tutte belle secondo me. Il disco è piacevole ma per chi ha amato i primi due dischi potrebbe essere veramente troppo. Aspetteremo il prossimo nato (disco naturalmente) per vedere quale sarà la loro strada futura.






giovedì 5 settembre 2024

RECENSIONE: RED SHAHAN (Loose Funky Texas Junky)

 

RED SHAHAN  Loose Funky Texas Junky (Lemon Pepper Records, 2024)



la buona tradizione


Forse per molti basterà sapere che Marc Ford è il produttore del quarto disco del songwriter texano Red Shahan per avvicinarsi incuriositi. O forse basterebbe questa copertina che mi ha catturato ricordandomi il primo Little Feat, dove là c'era un muro qui c'è un vecchio vagone merci abbandonato.E sorpresa: ascoltando le canzoni lo spirito di Lowell George sembra avvolgerne molte, anche la voce di Shaham a volte ricorda George.

Se cresci nella desolazione del West Texas e in qualche modo ne esci fuori con le tue forze, qualche qualità dovrai pur averla. Red Shehan, che prima di scegliere la musica ha cercato la sua strada nel baseball, nei rodeo e perfino nel corpo dei pompieri, con Loose Funky Texas Junky cala tutte le sue carte vincenti confezionando un album profondamente americano giù fino alle viscere che potrebbe piacere a molti. La sbandata funky, promessa dal titolo, rispetto ai precedenti dischi (l'album è stato registrato nei leggendari Fame Studio, Muscle Shoals) è netta e preponderante fin dall'apertura Evangeline, dove serpeggia un po' dello spirito di Dr. John nell'uso di tastiere e piano, continua in canzoni come Wish Me Well e Ain't A Shame e nella più soul Desperate Company.

Uno stacco dal classico country texano che comunque continua là dove dominano chitarre e lap steel: Supernova è un country rock che ha l'incedere del Tom Petty dei tempi andati, Midnight Tiger un vivace honky tonk da consumare in strada, Room Full Of Desirée una ballata con il piano a dettare la falcata, Big Wide Open puro cantautorato texano.

Shehan canta di bar poco raccomandabili ma è anche molto introspettivo quando ci racconta le difficoltà famigliari post covid nel country folk di Clues.

Un album certamente piacevole che punta ad arrivare a più persone possibili senza svendersi. La firma di Marc Ford in produzione è la garanzia di qualità e la coda d'estate invita a salire su un'auto e viaggiare con queste canzoni a fare compagnia.