sabato 21 giugno 2025

RECENSIONE: WILLIE NILE (The Great Yellow Light)

WILLIE NILE  The Great Yellow Light (River House, 2025)





sing me a song

Lo so, travolti da mille uscite il nuovo disco di Willie Nile, il ventunesimo della sua carriera, rischia di passare velocemente con il marchio "l'ennesimo disco" stampato sopra. Io invece ad ogni nuova uscita del piccolo uomo di Buffalo esulto perché so che dentro ci troverò ancora la passione e la coerenza che lo hanno seguito fin dal principio. Cose rare in tempi che vogliono che tutto scorra veloce, possibilmente diverso per poter stupire. Avanti il prossimo. Un debutto, il suo, uscito nel 1980, un disco di canzoni straordinarie, perfettamente in bilico tra il vecchio folk, sporco di polvere preziosa, tramandato dal Greenwich Village, i sixties marchiati da una Rickenbacker dei Byrds e l'assalto urbano del punk rock che visse sulla propria pelle in anni irripetibili che oggi sembrano veramente preistoria del rock. Quella da studiare a scuola.

Quando tra il CBGB e il Max's Kansas City potevi stringere amicizie, rubare consigli a Patti Smith, Ramones e Television, tenendo una radio sempre sintonizzata dall'altra parte dell'oceano, in UK. 

Sono passati quarantacinque anni, nel mezzo Nile, dopo anni di esilio forzato dalla musica, è tornato prepotentemente ad agitare le mille chitarre, scrivere canzoni, incidere dischi, girare il mondo, e camminare per le vie della sua amata  New York con lo stesso impeto e lo sguardo sempre curioso di allora, occhi penetranti che si posano su loser e marciapiedi poco frequentati e quando lo sono, calpestati da chi non ha più nulla da perdere.

Forse non è più disincantato come allora, c'è più consapevolezza, ma la sincerità è sempre la stessa. Come l'attitudine da rocker, ribelle e romantico insieme che si chiede qual è il colore dell'amore nella riflessiva 'What Color Is Love', canta inni che sono una sorta di chiamata alle armi per tutti quelli che vogliono un mondo migliore di questo, sotto il ritmo incalzante di 'We Are We Are' o dimostra che a 77 anni si possa ancora pestare duro in 'Electrify Me', punk rock nervoso e immediato che rincorre la giovinezza ma pare con il fiato ancora buono.

Allora sei sicuro che mettendo su queste nuove dieci canzoni ci puoi trovare ancora tutta la curiosità, l'impegno (fin dal classic rock d'apertura 'Wild Wild World') e l'ironia di sempre che esce prepotente in canzoni come 'Tryin' To Make A Livin' In The USA'.

"Le mie canzoni sono molto semplici, ma scrivo di cose che vedo. Adoro l'ampia tavolozza. Adoro questa enorme tela bianca. Puoi scrivere d'amore, di perdita, di feste il sabato sera, di dolore, di estasi..." ha detto recentemente in una intervista. 

E proprio da delle tele si è ispirato per la title track, ballata squarciata da fulmini elettrici: quelle di  Vincent Van Gogh venute in dono grazie alla luce mediterranea di Arles che ispirarono molte opere "luminose" durante il soggiorno francese del pittore e che in qualche modo la bella foto di copertina, scattata in un piccolo tendone da circo europeo  dalla moglie e fotografa Cristina Arrigoni, vuole rappresentare e sottolineare. 

Un invito a cogliere i migliori momenti della vita, anche in periodi cupi come questi, ben raccontati dall'accoppiata a fine disco formata una 'Wake Up America' , uscita già un paio di anni fa e cantata insieme a Steve Earle, uno che ha sempre viaggiato dalla parte giusta, dove si domanda dove sia finita l'America che conosceva ("anche se la nostra storia è costellata di dolore e ingiustizia e le divisioni tra noi sono più grandi che mai, so che possiamo fare di meglio" disse presentando la canzone) e le speranze di libertà affidate alla conclusiva 'Washington's Day' con la presenza di Rob Hyman e Eric Brazilian degli storici Hooters.

Un disco corale, registrato all' Hoobo Sound nel New Jersey e prodotto insieme a Stewart Lerman, che oltre ai già citati ospiti, alla sua fedele band che lo accompagna live composta da Jimi Bones alle chitarre elettrica, Johnny Pisano al basso Jon Weber alla batteria, vede anche il cantautore irlandese Paul Brady in 'Irish Goodbye', folk non troppo lontano dai Pogues che proprio in questi giorni l'amico Little Steven dal suo programma radio ha proclamato canzone della settimana.

E allora speriamo che l'ultimo "arrivederci" scambiato con Willie Nile nell'ultimo suo viaggio in Italia, sua seconda patria, possa materializzarsi presto in qualche nuovo concerto dalle nostre parti, tanto per ribadire quanto il rock’n’roll non abbia bisogno di soli stadi pieni e sterminati luoghi pagati con un rene per espandere il proprio verbo, a volte non c'è bisogno di gridare troppo, il messaggio arriva chiaro e forte anche nei piccoli club delle periferie del mondo.


Foto: Enzo Curelli



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