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giovedì 26 gennaio 2023

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 86: DAVID CROSBY (Croz)

DAVID CROSBY  Croz (Blue Castle Records, 2014)


un ricordo

Quando lo vedi sopra al palco catalizza l'attenzione con il solo carisma senza spostarsi di un centimetro, tanto da mettere in ombra i suoi fidi compagni di sempre: il lunatico e bizzoso Stephen Stills e l'etereo e più ginnico Graham Nash. I pochi ma sempre lunghi e candidi capelli bianchi al vento, i baffoni come li portava già nel 1969-gli manca solamente la giacca di renna scamosciata con le frange, la stessa indossata poi da Dennis Hopper in Easy Rider-la voce inconfondibilmente pura che fluttua nell'aria, il fisico segnato dalla vita- ma poi nemmeno troppo diverso rispetto a noi comuni mortali-David Crosby ha sempre incarnato lo spirito del suo tempo "migliore", quello sognante, quello ancora lontano da una tentata autodistruzione culminata negli anni ottanta e costruita su abusi, armi da fuoco illegali, galere e dalle inevitabili conseguenze prodotte da un trapianto di fegato avvenuto nel 1994 e da ripetuti attacchi al suo debole ma roccioso cuore. Nonostante tutto sembra ancora lo specchio di quel periodo, epoca che apriva e chiudeva il sogno americano con la conseguente rassegnazione di chi si è bruciato tutto, troppo in fretta, per troppi ideali disattesi e troppe utopie. Una generazione che ci ha provato: "un grande uomo disse 'ho un sogno'. Un altro arriva e gli spara in testa" canta in Time I Have. La fortuna di guardarsi indietro e spiare in avanti fa spesso capolino tra i testi (Slice Of Time, Holding On To Nothing). La  fortuna di un sopravvissuto. Crosby ringrazia. Di tutte queste cadute con relative rinascite canta nella personale Set That Baggage Down, uno dei picchi confessionali e musicali del disco con una chitarra elettrica che fa il suo, un groove che sale ed un'esortazione ad alzarsi sempre e comunque davanti ad ogni sciagura: "Rise Up, Rise Up" canta nel finale.

Dopo un capolavoro epocale e tanto "malato" da non fargli nemmeno ricordare il proprio nome (If I Could Only Remember My Name del 1971), disco che lo consacrò guida spirituale dell'intero movimento della West Coast Californiana e tra i manifesti più puri e lisergici dell'epoca, dopo la risposta a quella domanda avvenuta a quasi vent'anni di distanza, anni di rinascita soprattutto fisica (Oh,Yes I Can del 1989), dopo le tante strade percorse, anche sbagliate, del poco significativo disco di cover Thousand Roads del 1993: ad altri vent'anni dal quest'ultimo disco, ci rivela il nome, la sua identità. Chiamatemi tutti Croz sembra voler dire, sbattendo un significativo primo piano del suo faccione in copertina senza nessuna remora nel mostrare rughe e segni di vecchiaia (il CD è avvolto in un digipack veramente ben rifinito). Con l'unico rimpianto-suo e nostro-di essere arrivato al solo quarto disco solista in cinquant'anni di carriera, trascorsi come si farebbe sopra ad una montagna russa senza fine, dai fasti inarrivabili di Byrds e CSN & Y ai buchi degli anni ottanta pur con qualche sporadica e buona perla da cercare nei dischi targati CSN (Delta, Compass, Dream From Him).



Un disco che non lascia sorprese epocali, non si avvicina minimamente al capolavoro della vita anche se ha in comune quella impalpabile flessuosità che lo accompagna da sempre, ma  è una foto fedele del suo autore negli ultimi anni, uno sguardo attento alla sua anima interiore e a quello che lo circonda, perché lontano dalle scene e dalla vita, nell'ultimo ventennio, non ci è mai stato veramente. In pista sia con i compagni di una vita girando il mondo in tour, con il solo fraterno Nash (bello e spesso dimenticato è il loro disco del 2004), e con il gruppo CPR messo in piedi con il figlio ritrovato James Raymond (qui arrangia, produce e suona molto). Proprio da qui si riparte. Scritto interamente con il figlio, Croz è un album  dal passo lento, armonico, dal feeling jazzato che non ha fretta di arrivare, che non cerca i facili consensi: "l'ho scritto per me stesso" dice Crosby.

Un album contemplativo fin dall'iniziale What's Broken con la chitarra carezzevole di Mark Knopfler, brano piacevole anche se i due non si sono mai incontrati veramente-hanno collaborato a distanza-un qualcosa che ai tempi d'oro non sarebbe mai successo. A pensarci si perde un po' di quella antica magia che invece sembra avvolgere tutto il lavoro. Se ne prende atto e si va avanti tra stoccate alla moderna politica militare USA (la fumosa Morning Falling); acuti quadretti sulla prostituzione giovanile condotti con sola voce e chitarra arpeggiata (If She Called) e dipinti con la saggezza paterna dopo aver visto delle giovani ragazze al lavoro in un marciapiede fuori da un hotel dove soggiornava in Belgio; le immancabili armonie vocali che escono da Radio; i raffinati velluti jazzistici sia in Holding On To Nothing offerti dalla tromba di Wynton Marsalis che si mescola ad una chitarra acustica e nella finale Find A Heart vetrina musicale per i virtuosi ospiti Steve Taglione (sax) e Leland Sklar (basso); ma anche la sorprendente esplosione elettrica nella seconda metà di The Clearing, tra le più rock delle undici tracce -insieme a Set That Baggage Down- con il synth del figlio James Raymond e le chitarre di Marcus Eaton e di Shane Fontayne (che qualcuno ricorderà alla corte di Bruce Springsteen nel tour del 1993) a  dar battaglia. Però non tutto gira bene e Dangerous Night cade nello scalino di un AOR stanco e poco incisivo.

Eterno rispetto per un uomo (superstite) che ci fa visita solo quando ha qualcosa da dire. Un disco che avrà scritto solamente per se stesso, come dice, ma con la classe appartenente a pochi e la capacità di arrivare ancora a molti.




domenica 29 novembre 2020

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #85: JOHN LENNON (Rock'N'Roll)

JOHN LENNON  Rock'n'roll (Apple/EMI, 1975)



Amburgo, Aprile 1961, John Lennon è sull'uscio di una porta in posa con il suo giubbotto di pelle, quei disgraziati dei suoi compagni di band Paul, George e Stu Sutcliffe passano davanti all'obiettivo di Jurgen Vollmer, proprio come il fotografo voleva. Clic. Le loro sagome in movimento sono  impresse indelebili sul muro di mattoni. La foto è stupenda, anche se lo è di più quella originale non tagliata dove i piedi dei tre sono completamente a fuoco rispetto ai corpi. In quei giorni i beatles non erano ancora I Beatles ma il  Rock'n'roll era ancora il Rock'n'roll ed era proprio il rock'n'roll ad averli portati fino in Germania, prima vera tappa del loro percorso verso una sorta di delirio mondiale che in quei giorni del 1961 sembrava ancora un miraggio. Se la copertina in qualche modo si è fatta da sola (il fotografo Jurgen Vollmer non diventò mai ricco con quegli scatti), John Lennon a questo album ci è arrivato dopo tante tappe in un momento alquanto turbolento della sua carriera. Un pegno al rock'n'roll che doveva essere fatto, forse poteva essere fatto solo meglio. Dentro ci sono certamente quei primi spensierati passi ad Amburgo ma anche le prime canzoni ascoltate da bambino con la madre Julia e poi suonate con la prima band Quarry Men, c'è una vecchia promessa fatta all'editore Morris Levy dopo aver inserito (rubato pare brutto) alcuni accordi di 'You Can't Catch Me' di Chuck Berry  dentro a 'Come Togheter' (era un po' come dire "mi scusero' aggiungendo qualche canzone del tuo catalogo in un disco di cover che farò presto" ecco allora anche 'Sweet Little Sixteen' ), c'è la separazione da Yoko Ono, ci sono le prime deliranti sedute di registrazione per l'album avvenute a Los Angeles nel 1973 con quel folle di Phil Spector, uno a cui si poteva tener testa solo se eri almeno un po' matto come lui.

Ecco allora che gli episodi grotteschi non mancano, con tanto di armi da fuoco ( dove c'è Phil Spector c'è sempre una pistola), litigi e tribunali. Alla fine Spector rivendicò la proprietà dei nastri fino ad allora registrati e se ne scappò via a metà sedute portandoli con sé, Lennon ne venne in possesso solo grazie all'intervento della casa discografica e al fato che mise il produttore fuori gioco: Spector fu coinvolto in un grave incidente stradale. Riappropiatosi dei nastri, non tutto era così bello come Spector lì dipingeva, tanto da indurre Lennon a rinchiudersi nuovamente in studio di registrazione, un anno dopo, per portare a termine quell'album di cover che ormai sembrava più penitenza che svago. 

John Lennon bolla quel periodo come il suo "Lost Weekend". Giorni segnati dall'alcol, dalle sostanze, da una nuova donna (la segretaria May Pang), da una ritrovata libertà dal personaggio che si era creato, ma tutto sommato anche da una buona vena d'ispirazione che portò all'incisione del buon Walls And Bridges e alla produzione di Pussy Cats di Harry Nilsson. 

Un disco che inizia proprio con 'Be Bop A Lula' di Gene Vincent, la canzone che Lennon suonò per la prima volta con i Quarry Men, lo stesso giorno che conobbe Paul McCartney, presente tra il pubblico. Era il 1957. Ma che verrà ricordato soprattutto per la versione di 'Stand By Me' che in qualche modo fa sua, per il medley dedicato a Little Richard ('Rio It Up/Ready Teddy'), per quella Ain't That A Shame di Fats Domino che fu una delle prime canzoni che la madre Julia gli insegnò a suonare con il banjo, per la bella versione di 'Just Because' che chiude così bene l'album. 

Tutte canzoni che suonavano nella sua testa e puntellavano il suo cuore da sempre e che lo portarono a dichiarare il suo amore per il rock'n'roll e Chuck Berry con questa frase "se provate a dare un altro nome al rock'n'roll lo chiamereste Chuck Berry". Anche un po' John Lennon.








domenica 2 agosto 2020

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 84: NEIL YOUNG + CRAZY HORSE (Ragged Glory)

NEIL YOUNG + CRAZY HORSE  Ragged Glory (Reprise, 1990)





love and only love
"Attaccavo la Old Black, accendevo gli amplificatori e una canna, poi iniziavo a suonare e scrivere". Così Neil Young racconta la genesi di Ragged Glory tra le pagine della sua autobiografia e vi giuro io dentro a quella foto di copertina con effetto fish eye avrei voluto starci durante le poche settimane nelle quali prese forma questo ritorno elettrico con i Crazy Horse (Frank Sampedro, Ralph Molina, Billy Talbot). Mi sarei messo in un angolo, seduto con le gambe incrociate sopra a un tappeto, con tutta la consapevolezza di sottoporre le mie orecchie a un grande rischio. Sì proprio quel tappeto a destra che si vede in copertina. Non avrei disturbato nessuno. Giuro. 
Il fienile del ranch fu adibito da studio di registrazione con assi di compensato e attrezzature analogiche anche se David Briggs chiese e ottenne anche uno studio mobile da mettere in cortile. I Crazy Horse furono sottoposti a un tour de force tremendo. Non ci si fermava mai, le canzoni fluivano in continuazione e solo alla fine vennero ascoltate. Era lo spirito da vecchia garage band a prevalere e guidare le sedute e in quel campo i Crazy Horse avevano pochi rivali. Il paragone con Everybody Knows This Is Nowhere e sempre lì dietro l'angolo. 
"Ragged Glory è l'unico disco in cui suonammo tutta la scaletta due volte al giorno senza mai riascoltare le registrazioni, ma sempre prendendo nota di come ci sembrava la musica". 
Anche se Neil Young dice di aver scritto canzoni, come sempre alcune le pesca dal suo cassetto eternamente traboccante del passato: dall'annata 1975 tira fuori l'uno due iniziale formato da 'Country Home' e una superba 'White Line' che avanza come un carrarmato ( così diversa dalla prima versione uscita recentemente su Homegrown) dai canzonieri altrui ruba una cialtronesca 'Farmer John' scritta da Dewey Terry e Don Harris a metà anni sessanta per i Premiers, a conclusione del disco piazza una registrazione live di 'Mother Earth (Natural Anthem)' nata sulla melodia di un vecchio traditional britannico, eseguita al Farm Aid come "un trip", tanto per ricordare il suo impegno ecologista. 

Ma qui dentro non sono importanti tanto le parole quanto la musica e le chitarre elettriche ti imprigionano in un continuo e incessante assalto dominato da feedback e assoli. Tanto forti da confondere il tremolio dei feedback con un vero terremoto che si abbatté sulla California in quei giorni di registrazione, "stavamo facendo surf sul terremoto" dirà. 
I Crazy Horse non guardano l'orologio e tre canzoni vanno oltre gli otto minuti ('Love To Burn', 'Over And Over' e 'Love And Only Love') e 'Fuckin' Up' ( o 'F*! # in' Up' come venne stampata per non incorrere nella censura) rimane il migliore dei biglietti da visita per presentarsi al nuovo decennio alle porte. Tanto che Kurt Loder nella sua recensione per Rolling Stone del 20 Settembre 1990 scrisse:"Fuckin' Up farebbe strinare i ricci di una qualunque combriccola di metallari correntemente in classifica". Tutti avvertiti! 

"Finito l’album andammo in tour con i Sonic Youth e i Social Distortion. Era un gran cartellone, la gente vedeva un vero spettacolo. Era potente”, ecco la chiusura del cerchio. 
In 'Days That Used To Be' cita, ruba, omaggia (ma poi chi se ne frega) 'My Back Pages' di Dylan e una generazione tutta (irripetibile aggiungo io), in 'Mansion On The Hill' canta "una musica psichedelica riempie l'aria, pace e amore vivono ancora là", rendendo bene l'idea di come questo disco sia nato, un mix di aria agreste su tonnellate di ampli caldi e fumanti.
"Un giorno stavamo ascoltando i brani e arrivò ‘Mansion On The Hill’. Era un brano sporco, ma aveva tiro. Chiesi a David di farmelo ascoltare ancora. David disse a Hanlon: ascoltiamolo in tutta la sua Ragged Glory, la sua gloria stracciona". 
Così arrivò anche il titolo di un disco che anticipò la vera esplosione del grunge di pochi mesi. Non fu certamente un caso. 
Le session furono talmente  prolifiche che canzoni straordinarie come 'Don' t Spoke The Horse' (uscita come b side dell'unico singolo 'Mansion On The Hill'), una "versione condensata dell'album" dirà Neil, 
'Born To Run' e 'Interstate' furono lasciate fuori. Intanto stiamo aspettando la  più volte annunciata ristampa ampliata con inediti. Tra i miei dischi top di Neil Young, Ragged Glory c'è sempre. Ora ho le orecchie che sanguinano e il tappeto è tutto macchiato.




mercoledì 8 aprile 2020

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 83: JOHN PRINE (John Prine)

JOHN PRINE  John Prine (Atlantic, 1971)
 
 
 
 
24 anni, talento e saggezza
 
Chris Knight (altro outsider) nel suo penultimo e buon disco Little Victories uscito nel 2012 ha coronato un sogno: duettare con il suo idolo di sempre, John Prine, colui che lo invogliò a imbracciare una chitarra fin dalla tenera età. Ecco, credo che Prine sia stato già dal suo strepitoso debutto del 1971, una guida importante per molte generazioni di songwriter americani, pur non raggiungendo mai la meritata fama mediatica. Da postino (uno dei suoi primi lavori) a “nuovo Dylan” alla stima del vero Bob Dylan in carne e ossa il passo fu brevissimo. Lungo solo trdici canzoni. Anche se il primo a notarlo fu Kris Kristofferson che lo portò alla firma con l’Atlantic.
Sono passati quasi cinquant'anni e questo debutto rimane, oltre che uno dei suoi migliori (ma si passa anche da Bruised Orange, German Afternoon, The Missing Years, l'ultimo The Tree Of Forgiveness ), anche uno dei migliori debutti di cantautorato americano di sempre, forte di ben 45 minuti in bilico tra country e folk senza mai cali di tensione e ispirazione. Merito di una scrittura limpida e cristallina, piena di storie, immagini e metafore raccontate con penna poetica. Spesso scure e drammatiche, a volte con una pennellata di sdrammatizzante ironia. Basterebbe prendere due canzoni come ‘Illegal Smile’ e ‘Sam Stone’ per esplorare le due anime: la prima, diventerà un elogio alla marijuana piazzato a inizio disco anche se "devo confessare che la canzone non parlava di fumo e droga, era più un ricordo che avevo sin da quando ero bambino, avevo questa visione del mondo in cui mi trovavo a sorridere di cose su cui nessun altro stava sorridendo", la seconda una drammatica ballata sulla fine di un veterano del Vietnam dipendente da morfina che fa il paio con la politica ‘Your Flag Decal Won’t Get You Into Heaven Anymore’.
"Tutti i miei amici tornati a casa dal Vietnam mi hanno cambiato. Non erano gli stessi. Stavo cercando di spiegarmelo, ed è così che ho scritto Sam Stone" ricorderà.
Ma la sua penna diventa micidiale quando scrive la quotidianità, che viene sviscerata in tutte le sue mille tristi sfumature: la malinconia sul trascorrere del tempo che porta alla vecchiaia di ‘Hello In There’ venuta in ispirazione dopo aver sentito 'Across The Universe' di John Lennon, la nostalgia dell'adolescenza trascorsa giù nel Kentucky occidentale che sta piano piano cambiando in peggio nella sua amata cittadina  delle vacanze ‘Paradise’ "poi sono arrivati ​​i bulldozer e hanno cancellato tutto dalla mappa" come ricorda.
La fuga d’amore di ‘Spanish Pipedream’, il tragico suicidio di ‘Six O'Clock News’, la romantica solitudine di ‘Donald And Lydia’, le rotture d’amore di ‘Far From Me’.
E poi quella ‘Angel Of Montgomery’, una delle sue canzoni più coverizzate.
"Ho avuto questa immagine molto vivida di questa donna che stava in piedi sull'acqua con il sapone in mano e si allontanava da tutto", trasformandosi  in un angelo per sfuggire alla monotonia della propria vita. Così Prine raccontò da dove nacque l'idea per quel testo che Bonnie Raitt fece suo talmente tanto da dire,"mi cambiò la vita".
Un debutto che coniuga splendidamente talento e saggezza. Come scrive Kris Kristofferson nelle lunghe liner notes a presentazione del disco: “ha 24 anni e scrive come se ne avesse 220…”. Quando di anni ne ha avuti 73 con The Tree Of Forgiveness ci aveva confermato che nulla era andato perso.
Ora è eternità.

John Prine (10 Ottobre 1946 / 7 Aprile 2020)



 
 

mercoledì 27 novembre 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 81: MAMA'S PRIDE (Mama's Pride)

MAMA’S PRIDE-Mama’s Pride (1975)




I figli di Saint Louis
Si potrebbe partire dal famigerato terzo disco (il secondo fu Uptown & Lowdown, 1977) che avrebbe potuto svoltare la loro carriera: Ronnie Van Zant si era impegnato nel prendere sotto le sue ali protettrici la band di Saint Louis e produrre l' album. Purtroppo in quel 1977 non vi fu tempo e le ali del fato, trasformate in ali d'aereo, portarono il cantante dei Lynyrd Skynyrd in ben altri posti, chissà dove. I Mama’s Pride si bloccarono, il disco non vide mai la luce e fu anche la loro prematura fine, avvenuta con lo scioglimento nel 1982. La storia riprese negli anni novanta quando il terzo disco della carriera arrivò ma i tempi erano veramente diversi. E dire che tutto iniziò nel migliore dei modi per la band dei fratelli Pat e Danny Liston che scelsero proprio di omaggiare loro madre nel nome da dare al gruppo, ex cantante country e western negli anni 30, piazzandola anche in una copertina quasi rassicurante, “una chioccia intorno ai suoi ragazzi”, salvo ribaltare le cose nel retro, carico dei tipici eccessi e stereotipi della vita rock’n’roll che alla fine finirono veramente per inghiottirli.
Situazione che rispecchia anche la loro musica: devota al verbo sudista dei padri Allman Brothers (‘’Who Do You Think You’re Foolin’) ma capace anche di improvvisi e saettanti scatti soul boogie (‘Missouri Sky Line’). “Eravamo ragazzi di South St. Louis. Mio fratello ed io siamo stati cresciuti da una madre single. All'improvviso, siamo passati dal nulla a enormi dimore e limousine e tutto era a nostra disposizione. Voglio dire, dovevi stare attento a ciò che chiedevi, perché sarebbe successo” racconta un Danny Liston ora più che mai rifugiato tra le mani di Dio, ma che ai tempi cadde con facilità nell’alcolismo “l'unica volta che ero felice era quando stavo suonando. Ma, ricordo l'ultima canzone del set, solo perché volevo che non finisse mai perché so che sarebbe successo - nel momento in cui la canzone sarebbe finita e nel momento in cui sarei uscito da questo palco, la depressione mi avrebbe colto”. Ottenuto un buon contratto con la Acto, etichetta satellite della Atlantic, e la produzione di Arif Mardin, uno con già dei Grammy in tasca, i Mama’s Pride racchiudono nelle nove canzoni tutto il meglio e i difetti del southern rock. Citano gli Allman Brothers nella voglia di allungare e jammare, i Marshall Tucker Band nelle canzoni più epiche, articolate e cangianti, la melodia dei Doobie Brothers in ‘Blue Mist’, gli Outlaws quando si adagiano sicuri sui verdi campi del country (la ballata acustica ‘Laurie Ann’). Un disco che avrebbe meritato più fortuna, comunque trainato dal buon successo di ‘In The Morning’, rispetto a quell'aurea da band da seconda fila del southern rock americano che i Mama’s Pride si trascinano dietro ancora oggi. Ma se tutti i generi hanno bisogno anche delle seconde file per rinforzarsi, i Mama’s Pride fanno la loro bella (davanti) e sporca figura dietro (girate la copertina). Ogni tanto i fratelli Liston, ancora oggi, si riuniscono per ricordare le cose più belle di quella brevissima stagione.




lunedì 11 novembre 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 80: RORY GALLAGHER (Tattoo)

RORY GALLAGHER   Tattoo (1973)



chi si ferma è perduto

Se l'ispirazione chiama, Rory Gallagher risponde. A pochi mesi di distanza da Blueprint, in quel 1973 funestato dalla violenza che serpeggia per le strade dell’ Irlanda del nord, ritorna in studio di registrazione e senza cali di qualità registra uno dei suoi migliori dischi in carriera. Una vita frenetica su e giù dai palchi europei e americani, in mezzo poche settimane per registrare canzoni che nascevano on the road, tra un palco e le camere d'albergo. Questa volta nessun produttore esterno a dare fastidio e creare intralcio. TATTOO lo afferma e lo proietta ancora più in alto.
La genesi dell’album prende il via nell’amata Cork in un club preso in affitto che si trovava in una barca ormeggiata sulla riva del fiume. “Poteva scrivere canzoni, rilassarsi, mangiare cibo casalingo. Le prove si tennero lì e quando tornammo a Londra era tutto pronto” racconterà il fratello Donal.
A Londra, ai Polydor Studios, registra con la band composta da Gerry McAvoy (basso), Lou Martin (tastiere) e Rod de ‘Ath (batteria), la stessa del precedente Blueprint.
La doppietta d'apertura non lascia scampo: ‘Tattoo ‘d Lady’ è un rock carico di rimandi all'infanzia (il circo, il luna Park) ma che si proietta nel suo presente, mentre ‘Cradle Rock’ è una furia a tutta bottleneck destinata a segnare l’intera carriera. Mentre con ‘20:20 Vision’, un breve sipario acustico, e con ‘They Don’t Make Them Like You Anymore’ mette in fila le influenze jazz suonando il bouzouki di Manolis Chiotis omaggiando il musicista greco con la sua Perasmenes Mou Agapes, con ‘Livin’Like A Trucker’ riprende a macinare rock blues sopra ai ricordi e alle suggestioni delle recenti trasferte americane.
‘Sleep On A Clothes-Line’ è un trascinante boogie a cui ‘Who’s That Coming’ risponde con il blues più classico in scaletta costruito su slide e bottleneck. C’è ancora il tempo per ‘A Million Miles Away’ una delle più intense ed evocative canzoni d’amore del suo repertorio, venuta in ispirazione tra le scogliere di Ballycotton e per il riff pesante che guida la conclusiva ‘Admit It’.
Via, si riparte per un altro tour che diventerà Irish 74, schivando ma affrontando di petto il sangue che bagna la sua Irlanda. Non rinuncerà a suonare nei posti più pericolosi. “Sono un musicista, non un politico” era il suo mantra e lo rispetterà fino in fondo, perché “penso che diverrei terribilmente pigro se mi prendessi un anno di pausa o qualcosa del genere”.




mercoledì 30 ottobre 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 79: JOHN MELLENCAMP (Human Wheels)

JOHN MELLENCAMP  Human Wheels (1993)





HUMAN WHEELS esce nel 1993 a due anni dal precedente Whenever We Wanted che fu un disco grezzo e genuino dal carattere decisamente rock e chitarre in stile Stones, in mezzo il fiasco del suo film Falling From Grace dalla comunque buona soundtrack. Durante le registrazioni di Human Wheels le cose virano immediatamente verso il peggio: il tastierista John Cascella muore lasciando comunque qualche traccia di sé nelle canzoni, a lui sarà dedicato il disco, il bassista Toby Myers abbandona la nave all’ultimo per motivi di salute e lo stesso Mellencamp non sembra godere di ottima salute. Quello che esce oltre ad essere uno dei suoi dischi più cupi a livello di testi è però anche uno dei più coraggiosi e completi musicalmente con una band che ha in Kenny Aronoff il metronomo perfetto, in David Grissom (già con Joe Ely) e Mike Wanchic le chitarre che sanno accarezzare più che affondare (la più rock del lotto rimane ‘What If I Came Knocking’) e in Lisa Germano il jolly dalle sfumature roots. Suoni puliti e ricercati per merito dell’aiuto in produzione di Malcolm Burn.
Un disco urbano che affonda nel sociale e in parte influenzato dal soul: il viaggio notturno nelle periferie dell’apertura ’When Jesus Left Birmingham’ è un gospel che Mellencamp dirà ispirato a Sly and the Family Stone "ho scritto When Jesus Left Birmingham ad Amsterdam nel 1992 dopo essere tornato alle 2 del mattino da un concerto che avevamo fatto a L'Aia . All'hotel, sembravano Sodoma e Gomorra , con dozzine di uomini d'affari ben vestiti in giro per l'area che raccoglievano prostitute e si scatenavano. Ho pensato: c'è qualcosa che non va qui", così come ‘French Shoes’.
Mentre ‘Sweet Evening Breeze’ percorre amaramente le terre del sud dalle parti di Atlanta, Georgia. Una delle migliori. Non è uno dei suoi dischi più immediati in carriera, tra accenni al recente passato riconducibile a The Lonesome Jubilee come ‘Beige To Beige’, ‘Suzanne and the Jewels’ o nella finale ‘To The River’ sembra camminare senza paura nelll’attualità del presente di quei primi anni novanta, raccontando le crude storie degli ultimi come quella della coppia Tony e Alice Jones che si sviluppa nel loro piccolo appartamento a Dallas.
Poi ti piazza un rock perfetto dall’irresistibile e azzeccata melodia come ‘Human Wheels’, una di quelle canzoni che non stancano mai e metteresti su all’infinito. Un classico istantaneo. L’album lo snobbai all’epoca ma ha recuperato molte posizioni con il tempo. Chissà forse è quello che succederà a MR. HAPPY GO LUCKY. Avanti il prossimo.



mercoledì 9 ottobre 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 78: MOTÖRHEAD (Overkill)

MOTÖRHEAD  Overkill (1979)





"shake your head you must be dead if it don't make you fly"

Dalla finestra dei Roadhouse Studios di Londra si può vedere la neve scendere giù copiosa. Quella sera, Ian "Lemmy" Kilmister, "Fast" Eddie Clark e "Filthy Animal" Taylor stavano attendendo che il loro produttore Jimmy Miller arrivasse nello studio: avevano una sola nottata per portare a termine le registrazioni del loro secondo album Overkill. Un secondo disco importante per la loro sorte dopo un esordio passato inosservato e un seguente singolo, la cover 'Louie Louie' di Richard Berry che invece ebbe un inaspettato successo. Una volta sul mercato, Overkill diventerà importante per loro e la sorte di tanti altri gruppi. Iniziò a serpeggiare nervosismo in sala, l'affitto dello studio non era propriamente economico, quando ad un certo punto dalla finestra videro il loro produttore rotolarsi nella neve del marciapiede. Quando Miller entrò in sala fradicio dalla testa ai piedi con cinque ore di ritardo sui tempi previsti iniziò a scartabellare il lungo elenco di inconvenienti che a dir suo furono la causa del ritardo, tra cui una lunga camminata sotto la neve. Naturalmente nessuno ci credette, Miller era un bugiardo nato, dentro alla droga come i suoi scarponi lo erano nella neve bianca. A Miller non piacevano i Motorhead ma a Lemmy e compagni piace Miller, quello che aveva già lavorato sui dischi importanti di Rolling Stones, Traffic e Blind Faith. Quella notte prese forma un disco che farà scuola alla nascente scena britannica di heavy metal quanto al futuro thrash metal americano. La title track è uno dei più micidiali inizi disco che si ricordi: la doppia cassa di Taylor e quel susseguirsi di finti finali entreranno nella storia, insieme alle restanti nove canzoni: dal riff rubato agli ZZ Top che fa da impalcatura a 'No Class' a 'Stay Clean', dal riff alla Chuck Berry velocizzato di 'Damage Case' alla psichedelica 'Capricorn' (segno zodiacale di Lemmy) con l'assolo di chitarra registrato all'insaputa di Eddie Clark mentre si stava scaldando in studio. Nessun riempitivo inutile: il blues diventa pesante, tirato e aggressivo come non lo fu mai prima. Il grande successo li porterà in tour con le Schoolgirl e all'incisione di Bomber a soli sette mesi da Overkill. Da qui in avanti nessuno li fermerà più. Top.