martedì 2 ottobre 2012

RECENSIONE: RIVAL SONS ( Head Down )

RIVAL SONS  Head Down ( Earache Records, 2012 )

I californiani Rival Sons battono il ferro finche' è caldo. E' passato solamente un anno dal loro secondo disco Pressure & Time, lavoro che li proiettò in cima alle preferenze di chi non disdegna quei giovani gruppi con lo sguardo proiettato sempre al passato del rock. (Sì, va bene chiamiamolo retro-rock). Un anno che li ha visti protagonisti sopra ai palchi di tutto il mondo,confermare ed amplificare quanto la musica che usciva dal loro precedente album di studio, aveva dietro quattro artisti di tutto rispetto (il debutto Before The Fire-2009 fu autoprodotto e passò inosservato). Chi ha avuto la fortuna di vederli, potrà confermare. Nessun inganno. I ragazzi ci sanno fare veramente e questo Head Down riesce anche a superare tutto ciò che è stato prodotto fino ad ora, in virtù di una maturità acquisita con il sudore del palco, attitudine e dedizione assoluta al verbo rock a 360 gradi, sfruttando la voce del cantante Jay Buchanan, vero asso nella manica da calare con orgoglio.
I punti di riferimento erano e rimangono sempre gli stessi, ma questa volta si aggiunge un tocco di personalità che fa la differenza, mentre anche la durata totale delle canzoni si allunga (circa 55 minuti) andando quasi a doppiare quella del precedente album. Testimone: la lunga suite Manifest Destiny che nasce tra i fumi psichedelici, dilatata e divisa in due parti, che complessivamente supera i dodici minuti.
Se Pressure & Time rappresentava l'urgenza di arrivare e toccare tutto e subito, scivolando sulla superficie dell'hard rock più belluino, questo Head Down penetra nelle fessure, si allarga e scopre nuove possibilità tra la psichedelia, il R&B, il glam, il soul, il folk, il garage e il beat degli anni sessanta, rallentando i ritmi e giocando con la profondità, aiutati dalla produzione della coppia Dave Cobb e Vance Powell, e forse influenzati dalla quiete musicale che Nashville, città dove è stato registrato il disco, è riuscita a trasmettere.
Pur non mancando di immediatezza: You Want To è una kick-ass song veloce e diretta che colpisce in modo furioso, dove la chitarra di Scott Holiday gioca con la voce di Jay Buchanan, in un continuo alternarsi di accelerazioni, pause e ripartenze, come dei novelli Page-Plant o Townshend-Daltrey.
Jay Buchanan continua a rimanere una delle migliori voci rock sentite negli ultimi anni (anche la presenza scenica non è da meno) e lo si può verificare fin dall'apertura Keep On Swinging, un calcio ben assestato e mirato verso i '70 tra le reti di Led Zeppelin, Free e Thin Lizzy, ma soprattutto nella staordinaria e delicata drammaticità folkie di True, che chiude il disco; pressapoco una prova solista in cui il cantante, dimostrando maturità e tecnica vocale eccelsa, riesce quasi a toccare  le vette e l'estensione di Tim Buckley, mentre  Jordan è un esercizio soul non alla portata di tutti. Ascoltare per credere.
C'è ancora il divertimento negli ammiccamenti viziosi e sensuali di Until The sun Comes, i ritmi soul/pop in Wild Animal, song che non si stacca troppo dalle ultime produzioni di casa Black Keys, la strumentale, acustica e poco significativa Nava, i colpi all'anima nel hard/blues sporco di Run From Revelation e nella saltellante All The War. 
Varietà è la parola d'ordine di un gruppo, tra i più credibili e completi dell'ultima generazione. Derivativi e riciclatori, certo, ma con superiorità e classe.
Gordon Fletcher, giornalista e critico di Rolling Stone negli anni settanta, iniziò la recensione di Houses Of The Holy, album dei Led Zeppelin del 1973 con questa frase:"I Led Zeppelin hanno rappresentato l'epitome di tutto quello che il rock ha di buono: un buon lavoro di chitarra,voce e sezione ritmica potenti, devozione alle primordiali forme del blues e soprattutto una tonante eccitazione live e su disco...", la recensione continuerà con altre parole-meno belle- che bocciarono il disco. Con i dovuti e rispettosi distinguo, Head Down dei  Rival Sons si accontenterebbe di queste prime.  



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