lunedì 31 ottobre 2016

RECENSIONE: ALEJANDRO ESCOVEDO (Burn Something Beautiful)


ALEJANDRO ESCOVEDO  Burn Something Beautiful (Fantasy Records, 2016)  
☆☆☆☆☆


"I miei amici erano fuori a bere e credo che stessero facendo bene 
Volevo unirmi a loro, ma avevo paura di offuscare la loro luce
Così ho messo su un vecchio disco e ho ballato con il suo fantasma tutta la notte"
da 'Sunday Morning Feeling'



Dopo il trittico di uscite con la produzione di Tony Visconti e l'aiuto di Chuck Prophet (l’ultimo fu il più sperimentale e coraggioso BIG STATION del 2012), ALEJANDRO ESCOVEDO ritorna con un disco dal carattere forte e deciso come si dice per certi liquori invecchiati bene, dove le chitarre prendono spesso possesso della scena durante le tredici canzoni: ora più affilate, aspre e taglienti (‘Horizontal’ scava nel passato punk dei Nuns, ‘Luna De Miel’, 'Heartbeat Smile' è un buon compromesso pop rock) ora glitterate (‘Shave The Cat’) sulla scia della polvere di stelle seminata da Marc Bolan, ora pigre, sonnacchiose e desertiche (‘Redemption Blues’, ‘Johnny Volume’ sembra rievocare gli spiriti dell'amato Lou Reed), poi ancora acustiche (‘Suit Of Lights’, ‘Beauty And The Buzz’, la bella 'Farewell To The Good Times'), pure ciondolanti verso un sound che rimanda a Phil Spector (‘I Don’t Want To Play Guitar Anymore’). Questa volta a produrre e aiutare nella scrittura troviamo un inedito duo formato da PETER BUCK (ex-ma speriamo ancora per poco-chitarrista dei R.E.M.) e SCOTT McCAUGHEY (Minus 5), mentre allo studio Type Foundry a Portland, dietro agli strumenti è passata gente come il chitarrista Kurt Bloch (The Fastbacks), il batterista John Moen (the Decemberists), il sax di Steve Berlin (Los Lobos) e le cantanti Kelly Hogan e Corin Tucker. Un vero lavoro di squadra: “abbiamo scritto, arrangiato e suonato le canzoni insieme” scrive Escovedo nel libretto, portandosi alla pari di Buck e McCaughey.

Penso che Pete e Scott abbiano fatto un lavoro che mi ha portato fuori dalla mia comfort zone, ma era tutto nel campo di mio piacimento”, aggiunge in una recente intervista.
Mentre Peter Buck su remhq.com racconta: "Sono stato un fan della musica di Alejandro per oltre 30 anni, e registrare con lui è stato positivo come mi aspettavo. Credo che lui, Scott McCaughey ed io abbiamo davvero esteso il nostro vocabolario come scrittori e musicisti. Quello che è uscito è qualcosa di diverso rispetto a qualsiasi cosa che abbiamo fatto singolarmente in passato."
Escovedo raccoglie le parole dalla strada (nel disco tutte le sue influenze: dalle luci urbane al CBGB di New York al sole che illumina i deserti Texani) e canta di perdite, amori, volgendo pure lo sguardo più avanti verso un  futuro che prima o poi dovrà presentarsi, e lo fa dall’alto di una persona che in vita ne ha viste tante, superando mille ostacoli: la morte della moglie a cui dedicò i primi album solisti GRAVITY (1992) e 13 YEARS (1994),  la vittoria più importante sull'epatite C negli anni duemila e uscendo vivo dall'uragano che ha spazzato via la sua casa in California nel 2014. Ora si è trasferito a Dallas. Un altro capitolo importante nella vita di un autore mai fermo, sempre onesto, sanguigno e rispettato dai tanti colleghi. Uno dei suoi album migliori che conferma quanto l'ispirazione , in certi casi, può continuare a brillare anche superati i 65 anni.

 

 
 

 
 

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