TESLA Shock (Universal, 2019)
luce ad intermittenza
Disco da maneggiare con cautela. A cinque anni da Simplicity la band di Sacramento ritorna con una sola grande novità ma in grado di sbilanciare il giudizio finale del disco: Phil Collen, l’amico e chitarrista dei Def Leppard, si piazza in produzione e mette la sua firma su tutte le dodici canzoni.
“Phil è venuto da noi e voleva produrci un album. Ci ha davvero aiutato molto, sarò onesto, eravamo ad un livello basso dopo aver fatto Simplicity nel 2014. Frustrati, e probabilmente non avremmo fatto un altro album” racconta il chitarrista Frank Hannon.
Il risultato è un disco hard rock dai suoni più puliti del solito, a volte fin troppo, dal chiaro stampo anni ottanta, ricco di momenti melodici che ricordano la band inglese di Hysteria da vicino (‘Shock’, ‘Taste Like’, ‘Comfort Zone’), a voi scegliere se sia un bene oppure no, e con qualche ballata di troppo. Se ne contano almeno cinque, di cui tre consecutive nella track list piazzate a metà disco (non una scelta azzeccata): se la coralità beatlesiana, o alla ELO, di ‘We Can Rule The World’ con le sue orchestrazioni e ‘Forever Loving You’ convincono confermando i Tesla come degli specialisti nel campo (Five Man Acoustical Jam insegna), piacciono un po’ meno la solarità scontata di ‘California Summer Song’ e ‘Afterlife’ che ricordano quello che meno mi piace degli Aerosmith anni 2000, quelli delle ballad prima di tutto. Manca tutta la sporcizia roots che elevava i Tesla rispetto a tante altre band nate con loro.
Fortunatamente a bilanciare il peso della melodia ci pensano l’iniziale e frizzante rock’n’roll di ‘You Won’t Take Me Alive’ con la voce di Jeff Keith rimasta immutata nel tempo e poi tracce come ‘Mission’ che pare uscita da Psychotic Supper (“canzone che sembra i vecchi Tesla, un po’ come qualcosa che avremmo scritto ai tempi in cui facevamo cose come Song & Emotion . Non che ci stiamo ripetendo. Siamo persone molto diverse ora, molto più mature” dice Hannon)
e la mia preferita ‘Tied To The Tracks’ con la slide in primo piano, tre canzoni che si riallacciano meglio al loro passato e ci ricordano che razza di band siano quando fanno quel che sanno fare meglio.
Phil Collen ha strappato alla band americana più radici blues del dovuto, snaturando a tratti una delle poche band coerentemente rock uscite dagli anni ottanta, quello uscito è un disco riuscito a metà che cerca con troppa facilità la via melodica che spesso risulta scontata e a tratti pure soporifera. Non mi piace dare voti, per questo disco infrango le regole: 6,5.
Phil Collen li ha pur tenuti in vita, ma ora tocca a loro non affogare in un campo che non è esattamente il loro.
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